Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 45789 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 45789 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a NAPOLI il 20/03/1971
avverso l’ordinanza del 19/06/2024 del TRIB. LIBERTA di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette/sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME
Il Proc. Gen. conclude si riporta alla requisitoria scritta e conclude per I rigetto ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME insiste per raccoglimento dei motivi di ricorso L’avvocato NOME COGNOME chiede raccoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, del 19.6.2023, depositata il 21.6.2014, il Tribunale di Roma, decidendo quale giudice di appello ex art. 310 c.p.p., ha, in parziale accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero, ripristinato nei confronti di COGNOME NOME, in relazione al reato di cui al capo C dell’imputazione, il sequestro preventivo della somma di euro 2.000.000,00.
In particolare, il Tribunale, in riforma della pronuncia del G.i.p. – che all’e dell’interrogatorio di garanzia aveva revocato il sequestro in relazione alla condotta distrattiva di cui al capo C recependo la prospettazione dell’indagato in ordine alla giustificazione dell’erogazione della somma di due milioni di euro – ha ritenuto sussistente il fumus del reato e quindi ripristinato il sequestro preventivo della corrispondente somma.
Avverso la predetta ordinanza, a mezzo del proprio difensore di fiducia, ricorre per cassazione l’indagato, articolando quattro motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo si deduce l’erronea applicazione dell’art. 649 e dell’art. 323 del codice di rito nonché dell’art. 669 c.p.p. con riferimento ai fatti di cu capo C dell’imputazione, già qualificati come appropriazione indebita, risultando rispetto ad essi il ricorrente già stato prosciolto con sentenza di non luogo procedere per intervenuta prescrizione emessa dal G.u.p. del Tribunale di Roma, non oggetto di impugnazione. L’ordinanza impugnata dà conto di tale pronuncia dichiarativa di non luogo a procedere ma ritiene che la preclusione di cui all’art 649 non opererebbe oltre che per diversità di oggetto giuridico tra i delitti appropriazione indebita e bancarotta anche perché essa presuppone un giudizio con carattere di defínitività che non ricorre in presenza di una sentenza dichiarativa dì non luogo a procedere ex art. 425 del codice di rito, priva i generale dei connotati di irrevocabilità e dalla quale quindi non discendono effetti preclusivi di un secondo giudizio. Il divieto in questione dev’essere invece applicato anche in assenza di giudicato formale e pur se nel secondo giudizio il fatto sia diversamente contestato con un’imputazione di reato che costituisca progressione criminosa del primo, come nel rapporto che si instaura tra appropriazione indebita e bancarotta preferenziale. D’altra parte, la sentenza dì non luogo a procedere non più suscettibile di impugnazione rientra in virtù del grado di stabilità che tendenzialmente la caratterizza tra le sentenze definitive cui
si connette l’effetto preclusivo dell’instaurazione di un nuovo giudizio per medesimo fatto in applicazione del principio generale del ‘ne bis in idem’. L’ordinanza impugnata reputa che l’applicazione dell’art. 669 c.p.p., pure richiamato a sostegno della sua decisione, riguardi il caso, del tutto diverso, d conflitto pratico di giudicati mentre come spiegato nella giurisprudenza di legittimità il giudicato di condanna o di proscioglimento che sia è sempre impeditivo di un successivo procedimento e della sua eventuale prosecuzione e quindi dell’emissione di una pronuncia conclusiva, ciò in forza della previsione dell’art. 649.
Quanto, poi, al rapporto tra delitto di appropriazione indebita e bancarotta per distrazione la decisione omette di confrontarsi con la nota pronuncia di questa Corte, Sez. 5 n. 25651 del 15 Febbraio 2018, la quale, facendo applicazione del principio sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 2016 n. 200, riguarda proprio il capo della decisione impugnata oggetto della presente censura poiché afferma l’operatività del principio del ‘ne bis in idem’ quando il processo per bancarotta per distrazione intervenga dopo una sentenza definitiva per appropriazione indebita pronunciata in relazione ai medesimi fatti.
La GLYPH profonda GLYPH diversità GLYPH della GLYPH bancarotta GLYPH per GLYPH distrazione GLYPH rispetto all’appropriazione indebita sta in realtà nell’offesa che essa reca all’interesse de creditori per la diminuzione della garanzia patrimoniale ad essa collegata, ma si tratta di una diversità che stando al dicturn della Corte costituzionale non rileva ai fini dell’identificazione del fatto perché attiene – insieme all’oggetto giuridico, natura dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che per la loro opinabili non devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ‘ne bis in idem’.
2.2. Col secondo motivo deduce la violazione dell’art. 321 c.p.p. con riferimento alla ritenuta sussistenza del fumus del reato di bancarotta per distrazione nonché dell’art. 125, comma 3, c.p.p. per mancanza della motivazione. Sulla base della ricostruzione operata dall’ordinanza impugnata è pacifico che l’indagato il giorno stesso, 30 settembre 2015, in cui ha ricevuto dalla fallit RAGIONE_SOCIALE il primo dei due milioni di euro, ha versato contemporaneamente nelle casse della stessa società 800.000 C, e, successivamente, in data 19/10/2016 ha poi versato alla fallita altri 400.000 C. L’ordinanza impugnata riconosce pienamente l’avvenuto versamento dì euro 400.000 ma non ne trae le dovute conseguenze in tema di fumus del reato, di periculum in mora e di proporzionalità della misura ablativa; e con riferimento al versamento di 800.000
C afferma apoditticamente che nessun legame è possibile stabilire tra ì due milioni di euro versati ad Incarnato e il rimborso finanziamento soci di 800.000 C fatto alla fallita il 30 settembre; trattasi all’evidenza di condotte del tutto incompat con la volontà di depauperare l’azienda e che quantomeno assumono rilievo ai fini della determinazione dell’effettiva entità della supposta distrazione.
2.3. Col terzo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 321 con riferimento alla ritenuta sussistenza del periculum in mora nonché dell’articolo 125, comma 3, per mancanza della motivazione. L’ordinanza impugnata ha riapplicato all’indagato il sequestro revocato dal G.i.p. in palese difetto dei requi di attualità e concretezza del periculum in mora. Innanzitutto l’elemento rappresentato dalla consistenza del patrimonio dell’indagato ritenuta ragionevolmente inferiore in misura significativa al profitto confiscabile tiene cont in realtà del solo reddito e non del cospicuo patrimonio mobiliare dell’Incarnato che invece è tale da aver consentito di soddisfare per intero l’importo dei sequestri disposti con l’ordinanza genetica, importo di gran lunga superiore a quello dell’ordinanza impugnata circoscritto alla distrazione ipotizzata nel solo capo C e non esteso, come avvenuto invece nell’ordinanza originaria, anche alle somme ritenute dirottate in favore delle società e dei coindagati. In secondo luogo rischio che l’indagato nelle more del giudizio di merito possa sottrarre beni all’eventuale confisca è meramente congetturale dal momento che non vi è mai stata la pur minima iniziativa in tal senso sia nel corso dei tre mesi trascorsi dal revoca della misura sia in precedenza e nemmeno in altri procedimenti sicché il periculum enunciato nell’ordinanza impugnata si rivela non concreto né attuale. Anche il ventilato aggravamento o protrazione delle conseguenze del reato e l’eventualità di una generica agevolazione della commissione di altri reati attraverso la libera disponibilità dei beni distratti sono esigenze cautelari alle qu l’ordinanza in esame attribuisce funzioni impeditive del tutto indefinite e priv anch’esse della benché minima concretezza. E’ vero invece che sono trascorsi almeno 7 anni dalle più recenti delle condotte contestate e che l’accusa non ha trovato nemmeno un comportamento posto in essere dall’indagato che nel corso di questo lungo periodo di tempo potesse concretizzare il pericolo genericamente ipotizzato. L’ordinanza impugnata non considera infatti che la fallita è oggi gestita dal curatore che ha effettuato la ricognizione di attività e passività e comunque non chiarisce quale efficace impeditiva sortirebbe il ripristino del sequestro. Infin se si considerano le rimesse effettuate a favore della società per ben 1.200.000 riportate nella stessa ordinanza appare ancor più aleatorio e contraddittorio Corte di Cassazione – copia non ufficiale
fondare la stima del perículum sulla base dei comportamenti tenuti dall’indagato che non furono diretti a depredare la società poi fallita.
2.4.Col quarto motivo deduce il difetto di idoneità, proporzionalità e adeguatezza del sequestro applicato all’indagato e la mancanza di motivazione. L’ordinanza gravata in ogni caso applica il sequestro sull’intera somma di due milioni di euro omettendo qualsiasi valutazione sull’effettiva entità della supposta distrazione secondo quanto emerge dagli atti e dalla stessa ordinanza circa l’avvenuto versamento da parte dell’indagato della considerevole somma di 1.200.000 C in data 30 settembre 2015 e 19/10/2016. La rilevata sproporzione costituisce una palese violazione anche dell’art 52 della Carta dei Diritt fondamentali dell’Unione Europea in ordine alla necessità che nel rispetto del principio di proporzionalità possano essere apportate limitazione all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla stessa Carta (ivi inclusi oltre il d proprietà, il diritto alla sicurezza e all’assistenza sociale).
3.La difesa ha fatto pervenire memoria di replica alle conclusioni rassegnate dal P.g. anche per iscritto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è nel suo complesso infondato.
1.1. Il primo motivo che denunzia la violazione del divieto di ‘bis in idem` non merita accoglimento risultando il fatto storico-naturalistico oggetto del presente procedimento diverso da quello di cui all’art. 646 c.p., giudicato con la sentenza di non luogo a procedere emessa dal G.u.p, in data 18.3.2024 per essersi rilevata la prescrizione del reato di appropriazione indebita.
Il punto, invero, non è, a differenza di quanto assume la difesa, se ricorressero ì presupposti per la revoca della sentenza di improcedibilità ex art. 434 cod. proc. pen. e se in luogo di tale revoca si potesse iniziare un nuovo procedimento per il medesimo fatto bypassando la revoca – quindi di fatto raggirando la norma che la prevede – dal momento che versandosi nel caso della sentenza di improcedibilità per intervenuta estinzione del reato non potrebbe giammai rivivere il procedimento per quel medesimo reato oramai dichiarato estinto con sentenza non più impugnabile (cfr, per tutte Sez. 6, n. 459 del 08/11/1996, dep. 24/01/1997, Rv. 207728 – 01); il punto è che il fatto oggetto del presente giudizio non ha corrispondenza storico-naturalistica con quello
giudicato con la sentenza di non luogo a procedere – sicché rispetto ad esso non opera il divieto dì ‘bis in idem’.
Nel caso di specie si è di fronte ad una pronuncia di prescrizione che lascia intatto il fatto storico e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto storico che è poi quello che rileva ai fini della valutazione di specie alla stregua d dictum della sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016 – incidendo la prescrizione sul reato e non sul fatto che sopravvive nella sua storicità.
Ebbene, pur avendo il fatto di bancarotta fraudolenta distrattiva contestato e ravvisato nel presente procedimento – in relazione alla fase cautelare ma ovviamente la proiezione valutativa s’impone sin d’ora – in comune con quello oggetto della sentenza di non luogo a procedere la condotta appropriativa della somma di due milioni di euro, non si può, tuttavia, parlare di medesimezza del fatto storico.
Più volte è stato evidenziato da questa Corte che in tema di divieto di “bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storiconaturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elemen costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, e comunque quando in esito al raffronto tra l’imputazione oggetto del giudicato e il fatto afferente alla nuova contestazione, emerga l’identità della condotta e dell’evento naturalistico che ne è derivato.
Nella fattispecie in esame occorre, infatti, considerare specificamente il dato dell’intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società spoliat successivamente all’appropriazione – all’evidenza non considerato nel giudizio ex art. 646 c.p.- sentenza che, indubbiamente, si pone come un dato storico ulteriore, aggiuntivo, dotato di una propria rilevanza non solo sotto il profi giuridico ma anche naturalistico-fenomenico quale momento accertativo dello stato d’insolvenza in cuì si è venuto a trovare I soggetto che ebbe a subire la spoliazione del bene, idoneo a far risaltare, ove esistente, l’esposizione a pericolo delle ragioni creditorie che l’atto spoliatívo avesse determinato.
Ciò che rileva infatti ai fini della valutazione ex art. 649 cod. proc. pen. fatto concreto, ed il fatto in concreto delineatosi nel presente procedimento – che si inserisce peraltro nel ben più ampio contesto prefallimentare costituito dalle ulteriori plurime condotte descritte in imputazione e ravvisate dal giudice si connota, appunto, per la presenza della dichiarazione di fallimento.
E’ evidente allora che il fatto dell’essersi l’Incarnato appropriato di somme di proprietà della società, una volta intervenuta la sentenza dichiara – Uva di
fallimento, comporta una nuova e diversa conformazione del fatto rispetto alla mera appropriazione di somme altrui, non solo dal punto di vista strettamente giuridico, ma, per quanto qui rileva, anche sotto un profilo naturalistico avente rilievo giuridico.
Invero, il fatto storico appropriativo, in rapporto alla dichiarazione fallimento, ed al conseguente suo inquadramento nell’ambito della vicenda prefallimentare, si arricchisce della componente dell’esposizione a pericolo delle ragioni creditorie (invece estranea al fatto appropriativo in sé), ossia dell’impat della spoliazione del bene sul patrimonio della società, con relativa riduzione della garanzia patrimoniale che ne è scaturita, segmento, questo, rimasto del tutto estraneo all’altro procedimento, conclusosi con la declaratoria di estinzione del reato, di – mera – appropriazione indebita, per prescrizione.
In altri termini, la circostanza che per la bancarotta fraudolenta distrattiv non è necessario che sia derivato un danno ai creditori, essendo sufficiente la esposizione a pericolo, in concreto, delle loro ragioni non consente di concludere che non ricorre, rispetto ad essa, alcuno degli aspetti che assumono rilievo ai fini della valutazione della diversità del fatto, risolvendosi la messa in pericolo dell ragioni creditorie comunque in un connotato distintivo della condotta (che peraltro si ripercuote anche sulla dimensione soggettiva del fatto-reato), e ciò non solo sotto il profilo strettamente giuridico ma anche dal punto di vista fenomenicogiuridico (la natura di reato di pericolo concreto, oramai unanimemente attribuita nella giurisprudenza di questa Corte al reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, impone dì tener conto di tale risvolto fattuale ai fini della integrazione del reato).
Tale impostazione è in linea con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 21 luglio 2016 la quale ha dichiarato l’illegittimit costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. In essa si è affermato che deve escludersi che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 cod. pen., per il quale “l’imputato prosciolto condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”. La giurisprudenza della Corte EDU, ha precisato la Corte Costituzionale, porta solo ad affermare che
– per i giudici di Strasburgo – la medesímezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispec Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
La Corte Costituzionale ha tuttavia precisato – come ha già avuto modo di osservare questa Corte nella sentenza Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, COGNOME, Rv. 273468 – 01 (su cui si tornerà infra per smentire l’assunto difensivo che su di essa si fonda) – che non vi è alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente.
Anche il contesto normativo – ha proseguito la Corte Costituzionale – in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU non depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza dì legittimità, per la quale l’identità fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condott evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze dì tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, Rv. 231799); tanto a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella lo dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649
cod. proc. pen. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni di tipo strettamente giuridico ancorate alla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, ai beni giuridici offesi, alla natura giuridica dell’evento, al ruol ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, alle implicazioni penalistiche del fatto e a quant’altro concerne i singoli reati; considerazioni di ti giuridico che, in quanto, appunto, astratte, investendo il profilo normativa e non quello fattuale del caso concreto, finirebbero col tradire la ratio del divieto del in idem che mira ad inibire che si possa essere giudicati per il medesimo fatto, e non riduttivamente per il medesimo reato, indipendentemente, cioè, dalla sua qualificazione giuridica.
Sicché con riferimento al caso del concorso formale ha coerentemente affermato la Corte Costituzionale che “Mn definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una v che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico”.
Tanto precisato occorre evidenziare come la sentenza COGNOME n. 25651 del 15/02/2018, Rv. 273468 – citata dalla difesa – non pare essere di ostacolo alla elaborazione sopra riportata. Invero, tale pronuncia nell’affrontare il tema del ‘ne bis in idem’, in relazione al reato di appropriazione indebita e quello di bancarotta distrattiva, pur assumendo che deve essere valorizzata la materialità del fatto concreto, finisce poi per configurare la medesimezza del fatto, ricorrendo però all’espunzione dell’ulteriore elemento conformante il reato di bancarotta, la sentenza dichiarativa di fallimento, dal contesto appropriativo, sul presupposto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarot distrattiva pre-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità. Ma in tal modo tale sentenza, finisce con l’operare la valutazione del ‘bis in idem’ su un piano esclusivamente giuridico, dando rilievo alla qualificazione giuridica del fatto dichiarazione di fallimento, come condizione obbiettiva dì punibilità e non come elemento costitutivo del reato, laddove ciò che rileva, secondo il chiaro tenore della sentenza della Corte Costituzionale suindicata, è precipuamente il segmento
storico connotativo. Per di più la medesima sentenza COGNOME evidenzia che l’impostazione che configura la dichiarazione di fallimento quale condizione obbiettiva di punibilità si contrappone ad altro indirizzo di questa Corte (esemplificativamente è stata citata Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Rv. 269562, ma ad essa sono seguite ulteriori pronunce cfr. Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Rv. 273800; Sez. 5, n. 27426 del 01/03/2023, Rv. 284785) secondo cui la declaratoria di fallimento ha natura di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità (conf. Sez. Unite n 2 del 1958, Rv. 098004-01). E con tale indirizzo il ricorrente non si confronta affatto.
Peraltro, quanto al rapporto tra il reato di appropriazione indebita e quello di bancarotta distrattiva, si è già più volte espressa questa Corte rilevandone la sostanziale diversità strutturale. Così, in particolare, Sez. 5, n. 48743 de 29/10/2014, COGNOME, Rv. 261301 – 01 che ha affermato che si tratta di due fattispecie strutturalmente diverse, la realizzazione dei cui elementi costitutivi d peraltro luogo, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, ad un reato complesso, con l’unica conseguenza dell’assorbimento del reato di appropriazione indebite in quello di bancarotta (richiamando, Sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, dep. 02/02/2009, COGNOME, Rv. 241887; Sez. 5, n. 37567 del 04/04/2003, COGNOME, Rv, 228297).
Anche più recentemente è stato ribadito (Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, Rv. 266018 – 01) che il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 cod. pen. rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest’ultimo in quello di bancarotta, sicché gli stessi fatti, gi contestati ex art. 646 cod. pen., possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, alla fattispecie di bancarotta.
In tale contesto argomentativo, pertanto, assume rilievo rispetto ad un determinato fatto storico inteso nella sua globalità anche quanto di esso sia già confluito nell’ambito di un determinato procedimento, perché, ove una rilevante componente storica di esso sia rimasta estranea a quel procedimento – vuoi perché ha assunto rilievo solo a seguito del sopravvenire di un determinato fattore storico-giuridico, quale ad esempìo la sentenza di fallimento, vuoi perché sebbene già esistente non sia stata trasfusa in esso – non può affermarsi che non sì possa procedere a valutare il fatto nella sua globalità in altro procedimento per la sola circostanza che un segmento di esso sia stato già oggetto dell’esercizio dell’azione penale, purché ovviamente non sia già intervenuta una pronuncia definitiva che ne abbia attestato l’insussistenza o la non attribuibilità al medesimo soggetto poi
incriminato per il più articolato accadimento che necessariamente lo comprende (a diversa conclusione si sarebbe, in altri termini, dovuto giungere ove nell’altro procedimento in luogo di dichiararsi prescritto il reato di cui all’art. 646 cod. pe si fosse affermata la insussistenza del fatto appropriativo o la sua non attribuibilit al ricorrente trattandosi di segmento fattuale necessario ai fini dell configurazione della bancarotta distrattiva).
In una tale concatenazione storica prende, evidentemente, posto la sentenza di fallimento – e ciò di là di chi o di cosa vi abbia dato causa – quale momento storico-fattuale non privo di rilevanti riflessi giuridici, che finisce col connot fatto nel suo complesso. Fatto che, ove sussista o sopravvenga la sentenza di fallimento, va dunque letto nella sua unitarietà fenomenica, e tale lettura non può prescindere, ai fini che occupano, da un lato, dal dato storico della sentenza di fallimento – che peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è proprio elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta – quale evento fenomenico modificativo della realtà, che tale rimane a prescindere dalla sua genesi e dalla sua qualificazione giuridica, e, dall’altro, dai risvolti caratterizz la condotta appropriativa che assumono rilievo proprio in virtù della dichiarazione di fallimento.
E se è vero che, come rilevato dal ricorrente, l’elemento che strutturalmente differenzia il secondo reato dal primo, ossia l’intervenuta declaratoria di fallimento, non integra un evento del reato di bancarotta – come si premura di precisare la sentenza COGNOME suindicata – è vero altresì che, come efficacemente sottolinea tale sentenza, lo stesso qualifica la fattispecie nella sua specific offensività, modificandola sostanzialmente da quella limitata al patrimonio, propria del reato di appropriazione indebita, alla lesività della garanzia che il patrimoni dell’imprenditore, secondo la previsione dell’art. 2740 cod. civ., offre ai credito (Sez. 5, n. 36629 del 05/06/2003, COGNOME, Rv. 227148), messa in pericolo dalla destinazione di componenti del patrimonio a finalità diverse da quelle inerenti all’attività imprenditoriale (Sez. 5, n. 16759 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879); lesività concretamente attualizzata con l’effettiva apertura della procedura concorsuale (Sez. 5, n. 1354 del 07/05/2014, COGNOME).
Ne consegue pertanto che la questione sollevata col primo motivo è da ritenere, nel suo complesso, infondata.
1.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Esso, nella sostanza, deduce vizi – di motivazione – non deducibili in cassazione in relazione al tipo di provvedimento impugnato avente ad oggetto
decreto di sequestro, e ciò essendo espressamente previsto dall’ art. 325, comma 1, del codice di rito.
Ed invero, in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma 1, cod, proc. pen., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite l specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codic (Sez. U, Sentenza n. 5876 del 28/01/2004, Rv. 226710 – 01).
Costituisce consolidato indirizzo di legittimità, più volte affermato nelle su diverse ma collegate declinazioni, anche dalle Sezioni Unite, quello secondo cui il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, COGNOME, Rv. 239692 Sez. Un., n. 5876 del 28/01/2004, p.c. COGNOME in proc. COGNOME, Rv. 226710- 01; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, dep. il 02/02/2017, COGNOME, Rv. 269296 – 01).
Ed ancora, come è stato precisato da altra pronuncia di questa Corte, in caso di misure cautelari reali, l’omesso esame di punti della decisione si traduce in una violazione di legge per mancanza di motivazione, censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325, comma primo cod. proc. pen., solo nel caso in cui si tratti di punti decisivi per l’accertamento del fatto, sui quali è stata fond l’emissione del provvedimento di sequestro (Sez. 3, Sentenza n. 28241 del 18/02/2015, Rv. 264011).
Ciò posto deve rilevarsi che il rilievo difensivo relativo ai versamenti d somme che sarebbero stati effettuati dall’Incarnato nelle casse societarie, incompatibili, secondo la difesa, con la volontà dì depauperare il patrimonio della società, è inammissibile perché attraverso di esso si censura la motivazione del provvedimento impugnato nonostante essa non abbia ì caratteri dell’apparenza e per di più si mira ad una rivalutazione probatoria, in generale, non consentita nella presente sede di legittimità. Il Tribunale ha in ogni caso evidenziato quanto
alla somma di 800.000,00 euro che essa non può assumere alcun rilievo ai fini che occupano riguardando rimborso per un finanziamento soci; e, quanto all’ulteriore somma di 400 mila euro, ha posto in rilievo che è tutt’altro che pacifica la causale del relativo versamento genericamente indicato come versamento futuro aumento capitale – che in virtù della sua destinazione specifica, in assenza di indicazion ulteriori, non può essere posto in relazione ad una pregressa acquisizione di somme – comunque riportato come avvenuto il 19.10.2016, ossia a distanza di tempo dall’introito dei due milioni di euro risalente al 30.9.2015, rimasto quindi del tutto priva di una effettiva giustificazione.
1.3.Tali argomenti non possono che valere anche con riferimento al quarto motivo di ricorso che si ricollega a quanto dedotto col secondo motivo. In definitiva entrambi tali motivi finiscono con l’essere anche generici perché si limitano a lamentare la mancata valorizzazione dei versamenti suindicati, di 800 mila euro e 400 mila euro, ai fini della valutazione della volontà di depauperare la società, del periculum in mora o quanto meno della effettiva entità della somma sottratta, senza confrontarsi con la complessiva motivazione del provvedimento impugnato che ha al riguardo offerto una serie di elementi da cui desumere l’infondatezza dei rilievi difensivi (confinando nell’insignificanza i versamenti cit dalla difesa), di cui si dirà infra affrontando il terzo motivo di ricorso che nel suo complesso ruota intorno sempre alle stesse tematiche.
1.4. Quanto al periculum in mora il provvedimento impugnato ha innanzitutto premesso, citando la giurisprudenza di questa Corte, che « ai fini dell’obbligo motivazionale…il “periculum in mora” può essere desunto sia da elementi obiettivi, attinenti alla consistenza quantitativa (in ragione cioè dell’entità profitto determinante il quantum sequestrabile e successivamente confiscabile…) o alla natura e composizione qualitativa del patrimonio che deve essere attinto dal vincolo, e sia da elementi soggettivi, desumibili dal comportamento dell’onerato, che lasci fondatamente temere il compimento dì atti dispositivi comportanti il depauperamento del suo patrimonio, senza che ai fini della validità del provvedimento di sequestro ì suddetti elementi debbano necessariamente concorrere» (cfr. Sez. 44874 del 11.10.2022, Rv. 283769 – 01). Ha quindi osservato che nel caso di specie il pericolo che giustifica l’anticipazione del vincolo reale è supportato, da un lato, dalla consistenza del patrimonio dell’indagato – che ha dichiarato di guadagnare circa 38 mila euro all’anno lordi pari a 2000 curo mensili netti, di non avere proprietà immobiliari e mobiliari registrate né cont all’estero e quanto a quelli in Italia non possono ritenersi dimostrate disponibilit
tali da assicurare tranquillizzante proiezione futura – dall’altro, dal concre rischio, affatto congetturale, che l’indagato – distintosi per il reiterato rico nell’esercizio dell’attività di impresa, a schemi illeciti di matrice fraudole attraverso cui operare reiterate sottrazioni di somme di denaro ai danni della società – possa, nelle more del giudizio, assumere iniziative, anche fraudolente, finalizzate a disperdere, alienare o occultare il denaro drenato dalla fallita p sottrarlo all’ablazione.
Ha coerentemente concluso il provvedimento impugnato che « el caso in esame, la rilevante entità del profitto confiscabile (come detto 2 milioni di euro) la composizione e l’entità del patrimonio personale, la natura volatile del denaro (agevolmente trasferibile e come tale difficilmente rintracciabile e recuperabile a fini di confisca in caso di condanna), nonché il comportamento dell’indagato per come emerso dalle indagini, valgono a concretizzate il pericolo di dispersione del denaro nelle more del giudizio >>.
Tale impostazione motivazionale deve ritenersi sufficiente ai fini che occupano ed in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza Ellade (Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021, Rv. 281848) che ha concluso che solo una soluzione ermeneutica che «vincoli il sequestro preventivo funzionale alla confisca ad una motivazione anche sul periculum in mora garantirebbe coerenza con i criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità della misura cautelare reale, evitando un’indebita compressione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, quali il diritto di proprietà o la libertà dì inizi economica, e la trasformazione della misura cautelare in uno strumento, in parte o in tutto, inutilmente vessatorio». Al riguardo questa Corte ha chiarito, in particolare, che l’onere di motivazione può ritenersi assolto allorché il provvedimento si soffermi sulle ragioni per cui, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato.
Sicché deve concludersi che il Tribunale attraverso la motivazione di cui sì fatto cenno abbia assolto all’onere motivazionale in tal caso richiesto e non sia incorso in alcuna delle violazioni di legge prospettate in ricorso.
Lo stesso deve rilevarsi con riferimento all’esigenza impeditiva di cui il Tribunale pure dà conto osservando che l’esigenza di evitare che la libera disponibilità del denaro distratto possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati, pericolo che il Tribunale sottolinea essere quanto mai concreto considerato che parte della somma fu a suo tempo immediatamente veicolata dall’Incarnato a società direttamente o indirettamente
“implicate” nella vicenda illecita (oltre che in favore dei componenti della p famiglia), e che l’Incarnato è solito operare anche attraverso l’interposiz altri soggetti – persone fisiche o giuridiche – che vieppiù rende pericol insidioso il suo agire.
2.Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui conseg legge, ex art. 616 cod. proc. pen’, la condanna del ricorrente al pagamento spese di procedimento.
Conseguono per la Cancelleria gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Ese Cod. Proc. Pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle sp processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Esec. C Proc. Pen.
Così deciso il 17/10/2024.