Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 45788 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 45788 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a NAPOLI il 20/03/1971
avverso l’ordinanza del 19/06/2024 del TRIB. LIBERTA’ di ROMA
udita !a relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette/sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME Il Proc. Gen. conclude per il rigetto del ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso
L’avvocato NOME COGNOME chiede l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, del 19.6.2023, depositata il 21.6.2014, il Tribunale di Roma, decidendo quale giudice di appello ex art. 310 c.p.p., ha, in parziale accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero, ripristinato nei confronti di COGNOME NOME, in ordine ai reati ascrittigli ai capi A (limitatamen alla distrazione della somma di 199.193,26 C), 13, C, D, E, F, G, H, I, 3, K, L, M, N, O, P, R, S, e T, la misura interdittiva del divieto di esercitare imprese o uffici dire delle persone giuridiche e delle imprese e le attività ad esse inerenti per la durat di 12 mesi e !a misura cautelare degli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico, rigettando l’appello rispetto al capo Q.
In particolare, il Tribunale, in riforma della pronuncia del G.i.p. e che all’es dell’interrogatorio di garanzia aveva revocato le misure applicate recependo la prospettazione dell’indagato in ordine al ruolo rivestito all’interno della società fal e alle specifiche condotte di bancarotta patrimoniale e documentale ascrittegli e ritenendo scemate le esigenze cautelari – ha ritenuto ascivibili all’imputato l condotte originariamente ravvisate, con esclusione di quella di cui al capo Q, quindi persistente il quadro indiziario e il pericolo di recidivanza.
Avverso la predetta ordinanza, a mezzo del proprio difensore di fiducia, ricorre per cassazione l’indagato, articolando tre motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo si deduce l’erronea applicazione dell’art. 649 e dell’art. 275 del codice di rito nonché dell’art. 669 del codice di rito con riferimento ai fa di bancarotta distrattiva di cui al capo C dell’imputazione, risultando il ricorren rispetto ad essi, qualificati in altro procedimento come appropriazione indebita, già stato prosciolto con sentenza dì non luogo a procedere per intervenuta prescrizione emessa dal G.u.p. del Tribunale di Roma, non oggetto di impugnazione.
L’ordinanza impugnata dà conto dì tale pronuncia dichiarativa di non luogo a procedere, ma ritiene che la preclusione dì cui all’art. 649 non opererebbe, oltre che per diversità dì oggetto giuridico tra i delitti di appropriazione indebita e bancarot anche perché essa presuppone un giudizio con carattere di definitívità che non ricorre in presenza di una sentenza dichiarativa di non luogo a procedere ex art. 425 del codice di rito, priva in generale dei connotati di irrevocabilità e dalla qua quindi non discendono effetti preclusivi di un secondo giudizio. Il divieto in questione dev’essere invece applicato anche in assenza di giudicate; formale e pur se nel secondo giudizio i! fatto sia diversamente contestato con un’imputazione di reato che costituisca progressione criminosa del primo, come nel rapporto che si instaura
tra appropriazione indebita e bancarotta preferenziale. D’altra parte, la sentenza di non luogo a procedere non più suscettibile di impugnazione rientra in virtù del grado di stabilità che tendenzialmente la caratterizza tra le sentenze definitive cuì connette l’effetto preclusivo dell’instaurazione di un nuovo giudizio per il medesimo fatto in applicazione del principio generale del ‘ne bis in idem. L’ordinanza impugnata reputa che l’applicazione dell’art. 669 c.p.p., pure richiamato a sostegno della sua decisione, riguardi il caso del tutto diverso di conflitto pratico di giudi mentre come spiegato nella giurisprudenza di legittimità il giudicato di condanna o di proscioglimento che sia è sempre impeditivo di un successivo procedimento e della sua eventuale prosecuzione e quindi dell’emissione di una pronuncia conclusiva, ciò in forza della previsione dell’art. 649.
Quanto, poi, al rapporto tra delitto di appropriazione indebita e bancarotta per distrazione, la decisione omette di confrontarsi con la nota pronuncia di questa Corte, Sez. 5 n. 25651 del 15 febbraio 2018, la quale, facendo applicazione del principio sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 2016 n. 200, riguarda proprio il capo della decisione impugnata oggetto della presente censura poiché afferma l’operatività del principio del ‘ne bis in idem’ quando il processo per bancarotta per distrazione intervenga dopo una pronuncia definitiva per appropriazione indebita pronunciata in relazione ai medesimi fatti.
La profonda diversità della bancarotta per distrazione rispetto all’appropriazione indebita sta in realtà nell’offesa che essa reca all’interesse dei creditori per diminuzione della garanzia patrimoniale ad essa collegata, ma si tratta di una diversità che stando al dictum della Corte costituzionale non rileva ai fini dell’identificazione del fatto perché attiene – insieme all’oggetto giuridico, alla nat dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che per la loro opinabilità no devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ‘ne bis in idem’.
2.2. Col secondo motivo si deduce l’erronea applicazione dell’art. 274, lettera c) del codice di rito, nonché l’illogicità manifesta e decisiva della motivazione co riferimento alla ritenuta sussistenza della concretezza ed attualità del pericolo d commissione di reati della stessa specie di quello per il quale si procede
La pronuncia gravata ha ritenuto di dedurre la natura attuale del pericolo di recidiva sulla base di condotte di specie diversa risalenti anche a 10 anni prima e che non coinvolgono responsabilità gestionali, di diritto o di fatto, dell’indagato; condotte distrattíve risalgono tutte agli anni dal 2013 al 2017. La mancata realizzazione di condotte della stessa specie negli ultimi sette anni avrebbe dovuto essere considerata ai finì della valutazione in argomento trattandosi di un rilevante
arco temporale privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità.
Le condotte distrattive di cui ai capi a), b) e d), non riguardano direttamente l’indagato perché consistono in somme liquidate dagli amministratori a titolo di compensi o rimborsi spese e comunque risultano realizzate tutte tra il 2013 e il 2017.
In ogni caso non sussiste prova della integrazione della bancarotta distrattiva di cui al capo C rispetto alla quale si è eccepito in primis il ‘bis in idem’, comunque risalente nel tempo (2015).
Quanto alla bancarotta preferenziale (capi k, I, m, n ed o) essa poggia sul ritenuto stato di decozione della fallita che in ipotesi sussisteva già nel 2016 Sebbene tale premessa sia quantomeno controversa ai fini dell’attualità e concretezza del pericolo di reiterazione deve rilevarsi che si tratta di condotte poste in essere tra luglio ed ottobre 2016 non più replicate.
Con riferimento all’ipotesi di bancarotta documentale (capo R) la violazione dei criteri di attualità e concretezza del pericolo appare particolarmente evidente poiché il reato riguarda solo i documenti contabili precedenti al 2016.
Anche con riferimento alla bancarotta impropria (capo R) l’esigenza cautelare adottata non risponde quindi ai requisiti richiesti dalla legge poiché si riferisce bilanci degli anni che vanno dal 2012 al 2015.
Si deduce altresì la mancanza di attualità e concretezza delle esigenze cautelari con riferimento alle operazioni dolose dirette a provocare il fallimento e al ricors abusivo al credito di cui al capo P. In tal caso non si tiene conto che proprio nel periodo nel quale sarebbe maturato l’intento criminoso l’indagato ha effettuato cospicui versamenti in favore della società almeno per l’importo di euro 1.200.000, come ricostruito dalla stessa ordinanza impugnata, D’altra parte, delle due l’una o l’azienda non era in decozione ed allora non può sollevarsi l’imputazione di bancarotta preferenziale di cui ai capi k, I, m, n ed o, oppure era priva di risors sicché l’omesso pagamento delle imposte che concretizza le condotte contestate non era doloso, ma necessitato dalle condizioni economiche dell’azienda. In ogni caso anche tale ipotesi è risalente nel tempo.
Analoghe valutazioni devono farsi rispetto all’imputazione dì ricorso abusivo al credito (capo 5) che riguarda secondo quanto si legge nella stessa ordinanza impugnata linee di credito ottenute fino al 29 luglio 2016.
Si deduce infine, sempre col secondo motivo, l’insussistenza del pericolo di reiterazione rappresentato dalla titolarità e amministrazione di società. Nell’ordinanza infine si fa derivare il pericolo dì recidiva anche dalla titolarità dì aziende che l’indagato detiene attraverso RAGIONE_SOCIALE, di molte delle quali risulta
amministratore. In realtà il ricorrente in data 10 luglio 2022 aveva già rassegnato le dimissioni da tutte le cariche nelle società menzionate, incluse RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; tutte le società citate non sono state mai attivate o sono inattive come si evince dalle visure camerali aggiornate.
Tutti i fatti in argomento attengono peraltro ad illeciti tributari dichiarativi del requisito della fraudolenza che deve invece connotare i reati della stessa specie di quello in contestazione; nessuno dei fatti sopra citati attiene invero a condott distrattive preferenziali documentali o societarie ma solo ad omessi pagamenti delle imposte autoliquidate e quindi dichiarate.
2.3. Col terzo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 275, commi 1, 2, 3 del codice di rito, per difetto di idoneità, proporzionalità ed adeguatezza della misura coercitiva degli arresti domiciliari applicata all’indagato, e la manifes irragionevolezza della motivazione sul punto. Pur accedendo alla ricostruzione dei fatti operata dall’accusa, e condivisa dal Tribunale, si dovrebbe comunque osservare come tutte le attività ascritte all’indagato sono state realizzate attraverso titolarità di cariche ed organismi societari, con la conseguenza che avrebbe dovuto ritenersi sufficiente a scongiurare il pericolo di reiterazione dei reati la mis i nterdittiva
Sul punto il Tribunale per affermare la necessità della misura custodiale ha valorizzato il dato rappresentato dall’asserita utilizzazione dì prestanome e fiduciari ma ha trascurato di considerare che nella stessa ricostruzione accusatoria il controllo di fatto delle società loro affidate sarebbe stato realizzato dal ricorre non in modo ‘informale’ ma attraverso altre società.
Palese è dunque la violazione del principio di proporzionalità in cui è incorso il Tribunale applicando anche la misura degli arresti domiciliari oltre quella interdittiv già di per sé idonea ad arginare il pericolo di reiterazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è nel suo complesso infondato.
1.1. Il primo motivo che denunzia la violazione del divieto di ‘bis in idem’ non merita accoglimento risultando il fatto storico-naturalistico oggetto del presente procedimento diverso da quello di cui all’art. 646 c.p., giudicato con la sentenza di non luogo a procedere emessa dal G.u.p. in data 18.3.2024 per essersi rilevata la prescrizione del reato di appropriazione indebita.
Il punto, invero, non è, a differenza di quanto assume la difesa, se ricorressero i presupposti per la revoca della sentenza di improcedibilità ex art. 434 cod. proc. pen. e se in luogo di tale revoca si potesse iniziare un nuovo procedimento per il
medesimo fatto bypassando la revoca – quindi di fatto raggirando la norma che la prevede – dal momento che versandosi nel caso della sentenza di improcedibilità per intervenuta estinzione del reato non potrebbe giammai rivivere il procedimento per quel medesimo reato oramai dichiarato estinto con sentenza non più impugnabile (cfr. per tutte Sez. 6, n. 459 del 08/11/1996, dep. 24/01/1997, Rv. 207728 – 01); il punto è che il fatto oggetto del presente giudizio non ha corrispondenza storico-naturalistica con quello giudicato con la sentenza di non luogo a procedere – sicché rispetto ad esso non opera il divieto di ‘bis in idem’.
Nel caso di specie si è di fronte ad una pronuncia di prescrizione che lascia intatto il fatto storico e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto storico che è poi quello che rileva ai fini della valutazione di specie alla stregua d dictum della sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016 – incidendo la prescrizione sul reato e non sul fatto che sopravvive nella sua storicità.
Ebbene, pur avendo il fatto di bancarotta fraudolenta distrattiva contestato e ravvisato nel presente procedimento – in relazione alla fase cautelare ma ovviamente la proiezione valutativa s’impone sin d’ora – in comune con quello oggetto della sentenza di non luogo a procedere la condotta appropriativa della somma di due milioni di euro, non si può, tuttavia, parlare di medesimezza del fatto storico.
Più volte è stato evidenziato da questa Corte che in tema di divieto di “bis in idem, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistic nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitut (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, e comunque quando in esito al raffronto tra l’imputazione oggetto del giudicato e il fatto afferente alla nuova contestazione, emerga l’identità dell condotta e dell’evento naturalistico che ne è derivato.
Nella fattispecie in esame occorre, infatti, considerare specificamente il dato dell’intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società spoliata successivamente all’appropriazione – all’evidenza non considerato nel giudizio ex art. 646 c.p.- sentenza che, indubbiamente, si pone come un dato storico ulteriore, aggiuntivo, dotato dì una proprìa rilevanza non solo sotto il profilo giuridico ma anche naturalistico-fenomenico quale momento accertativo dello stato d’insolvenza in cui sì è venuto a trovare il soggetto che ebbe a subire la spoliazione del bene, idoneo a far risaltare, ove esistente, l’esposizione a pericolo delle ragioni creditor che l’atto spoliativo avesse determinato.
Ciò che rileva infatti ai fini della valutazione ex art. 649 cod. proc. pen. è fatto concreto, ed il fatto in concreto delineatosi nel presente procedimento – che si inserisce peraltro nel ben più ampio contesto prefallimentare costituito dalle ulterior
plurime condotte descritte in imputazione e ravvisate dal giudice – sì connota, appunto, per la presenza della dichiarazione di fallimento.
E’ evidente allora che il fatto dell’essersi l’Incarnato appropriato di somme di proprietà della società, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento comporta una nuova e diversa conformazione del fatto rispetto alla mera appropriazione di somme altrui, non solo dal punto di vista strettamente giuridico, ma, per quanto qui rileva, anche sotto un profilo naturalistico avente rilievo giuridico.
Invero, il fatto storico appropriativo, in rapporto alla dichiarazione di fallimen ed al conseguente suo inquadramento nell’ambito della vicenda prefallimentare, si arricchisce della componente dell’esposizione a pericolo delle ragioni creditorie (invece estranea al fatto appropriativo in sé), ossia dell’impatto della spoliazion del bene sul patrimonio della società, con relativa riduzione della garanzia patrimoniale che ne è scaturita, segmento, questo, rimasto del tutto estraneo all’altro procedimento, conclusosi con la declaratoria di estinzione del reato, di mera – appropriazione indebita, per prescrizione.
In altri termini, la circostanza che per la bancarotta fraudolenta distrattiva no è necessario che sia derivato un danno ai creditori, essendo sufficiente la esposizione a pericolo, in concreto, delle loro ragioni non consente di concludere che non ricorre, rispetto ad essa, alcuno degli aspetti che assumono rilievo ai fini della valutazione della diversità del fatto, risolvendosi la messa in pericolo dell ragioni creditorie comunque in un connotato distintivo della condotta (che peraltro si ripercuote anche sulla dimensione soggettiva del fatto-reato), e ciò non solo sotto il profilo strettamente giuridico ma anche dal punto di vista fenomenico-giuridico (la natura di reato di pericolo concreto, oramai unanimemente attribuita nella giurisprudenza di questa Corte al reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, impone di tener conto di tale risvolto fattuale ai fini della integrazione del reato).
Tale ìmpostazione è in linea con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 21 luglio 2016 la quale ha dichiarato l’illegittimi costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui iniziato il nuovo procedimento penale. In essa si è affermato che deve escludersi che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 cod. pen., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a
procedimento penale per il medesimo fatto”. La giurisprudenza della Corte EDU, ha precisato la Corte Costituzionale, porta solo ad affermare che – per i giudici d Strasburgo – la medesímezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Fatto, in que prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
La Corte Costituzionale ha tuttavia precisato – come ha già avuto modo di osservare questa Corte nella sentenza Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, COGNOME, Rv. 273468 – 01 (su cui si tornerà infra per smentire l’assunto difensivo che su di essa si fonda) – che non vi è alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente.
Anche il contesto normativo – ha proseguito la Corte Costituzionale – in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU non depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatt sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, ness causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, Rv. 231799); tanto a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 cod. proc. pen. – senza compromissione di
altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni di tipo strettamente giuridico ancorate alla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, ai beni giuridici offesi, alla na giuridica dell’evento, al ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, alle implicazioni penalistiche del fatto e a quant’altro concerne i sing reati; considerazioni di tipo giuridico che, in quanto, appunto, astratte, investendo il profilo normativo e non quello fattuale del caso concreto, finirebbero col tradire ratio del divieto del bis in idem che mira ad inibire che si possa essere giudicati pe il medesimo fatto, e non riduttivamente per il medesimo reato, indipendentemente, cioè, dalla sua qualificazione giuridica.
Sicché con riferimento al caso del concorso formale ha coerentemente affermato la Corte Costituzionale che “n definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fatto ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod, proc. pen., una volta che ques disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca i entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva solo il giudizio sul fatto storico”‘
Tanto precisato occorre evidenziare come la sentenza COGNOME n. 25651 del 15/02/2018, Rv. 273468 – citata dalla difesa – non pare essere di ostacolo alla elaborazione sopra riportata. Invero, tale pronuncia nell’affrontare il tema del ‘ne bis in idem’, in relazione al reato di appropriazione indebita e quello di bancarotta distrattiva, pur assumendo che deve essere valorizzata la materialità del fatto concreto, finisce poi per configurare la medesimezza del fatto, ricorrendo però all’espunzione dell’ulteriore elemento conformante il reato di bancarotta, la sentenza dichiarativa di fallimento, dal contesto appropríativo, sul presupposto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarot distrattiva pre-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità. Ma in tal modo, ta sentenza, finisce con l’operare la valutazione del ‘bis in idem’ su un piano esclusivamente giuridico, dando rilievo alla qualificazione giuridica del fatto dichiarazione di fallimento, come condizione obbiettiva di punibilità e non come elemento costitutivo del reato, laddove ciò che rileva, secondo il chiaro tenore della sentenza della Corte Costituzionale suindicata, è precipuamente il segmento storico connotativo. Per di più la medesima sentenza COGNOME evidenzia che l’impostazione che configura la dichiarazione di fallimento quale condizione obbiettiva di punibilità si contrappone ad altro indirizzo di questa Corte (esemplificativamente è stata citata
Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Rv. 269562, ma ad essa sono seguite ulteriori pronunce cfr. Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Rv. 273800; Sez. 5, n. 27426 del 01/03/2023, Rv. 284785) secondo cui la declaratoria di fallimento ha natura di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità (conf. Sez Unite n 2 del 1958, Rv. 098004-01). E con tale indirizzo il ricorrente non si confronta affatto.
Peraltro, quanto al rapporto tra il reato di appropriazione indebita e quello di bancarotta distrattiva, si è già più volte espressa questa Corte rilevandone la sostanziale diversità strutturale. Così, in particolare, Sez. 5, n. 48743 de 29/10/2014, COGNOME, Rv. 261301 – 01 che ha affermato che si tratta di due fattispecie strutturalmente diverse, la realizzazione dei cui elementi costitutivi peraltro luogo, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, ad un reato complesso, con l’unica conseguenza dell’assorbimento del reato di appropriazione indebite in quello di bancarotta (richiamando, Sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, dep. 02/02/2009, COGNOME, Rv. 241887; Sez. 5, n. 37567 del 04/04/2003, COGNOME, Rv. 228297).
Anche più recentemente è stato ribadito (Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, Rv. 266018 – 01) che il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 cod. pen. rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest’ultimo in quello di bancarotta, sicché gli stessi fatti, gi contestati ex art. 646 cod. pen., possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, alla fattispecie di bancarotta.
In tale contesto argomentativo, pertanto, assume rilievo rispetto ad un determinato fatto storico inteso nella sua globalità anche quanto di esso sia già confluito nell’ambito di un determinato procedimento, perché, ove una rilevante componente storica di esso sia rimasta estranea a quel procedimento – vuoi perché ha assunto rilievo solo a seguito del sopravvenire di un determinato fattore storicogiuridico, quale ad esempio la sentenza di fallimento, vuoi perché sebbene già esistente non sia stata trasfusa in esso – non può affermarsi che non si possa procedere a valutare il fatto nella sua globalità in altro procedimento per la sola circostanza che un segmento di esso sia stato già oggetto dell’esercizio dell’azione penale, purché ovviamente non sia già intervenuta una pronuncia definitiva che ne abbia attestato l’insussistenza o la non attribuibilità al medesimo soggetto poi incriminato per il più articolato accadimento che necessariamente lo comprende (a diversa conclusione si sarebbe, in altri termini, dovuto giungere ove nell’altro procedimento in luogo di dichiararsi prescritto il reato di cui all’art. 646 cod. pen. fosse affermata la insussistenza del fatto appropriativo o la sua non attribuibilità a
ricorrente trattandosi di segmento fattuale necessario ai fini della configurazione della bancarotta distrattiva).
In una tale concatenazione storica prende, evidentemente, posto la sentenza di fallimento – e ciò di là di chi o di cosa vi abbia dato causa – quale momento storico-fattuale non privo di rilevanti riflessi giuridici, che finisce col connot fatto nel suo complesso. Fatto che, ove sussista o sopravvenga la sentenza di fallimento, va dunque letto nella sua unitarietà fenomenica, e tale lettura non può prescindere, ai fini che occupano, da un lato, dal dato storico della sentenza di fallimento – che peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è proprio elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta – quale evento fenomenico modificativo della realtà, che tale rimane a prescindere dalla sua genesi e dalla sua qualificazione giuridica, e, dall’altro, dai risvolti caratterizzanti la con appropriativa che assumono rilievo proprio in virtù della dichiarazione di fallimento.
E se è vero che, come rilevato dal ricorrente, l’elemento che strutturalmente differenzia il secondo reato dal primo, ossia l’intervenuta declaratoria di fallimento non integra un evento del reato di bancarotta – come si premura di precisare la sentenza COGNOME suindicata – è vero altresì che, come efficacemente sottolinea tale sentenza, lo stesso qualifica la fattispecie nella sua specifica offensivit modificandola sostanzialmente da quella limitata al patrimonio, propria del reato di appropriazione indebita, alla lesività della garanzia che il patrimonio dell’imprenditore, secondo la previsione dell’art. 2740 cod. civ., offre ai credito (Sez. 5, n. 36629 del 05/06/2003, COGNOME, Rv. 227148), messa in pericolo dalla destinazione di componenti del patrimonio a finalità diverse da quelle inerenti all’attività imprenditoriale (Sez. 5, n. 16759 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879); lesività concretamente attualizzata con l’effettiva apertura della procedura concorsuale (Sez. 5, n. 1354 del 07/05/2014, COGNOME).
Ne consegue pertanto che la questione sollevata col primo motivo è da ritenere, nel suo complesso, infondata.
1.2. Il secondo motivo – con cui si contesta la mancanza di attualità e concretezza delle esigenze cautelari con riferimento a tutte le ipotesi delittuose ravvisate – è generico, non operando un adeguato confronto con le ragioni analiticamente indicate nel provvedimento impugnato a sostegno della sussistenza del pericolo dì recidiva, ampiamente supportata con argomenti specifici idonei a superare il dato meramente temporale su cui insiste I ricorso.
Nel caso di specie la motivazione del provvedimento impugnato è oltre che coerente, logica e completa, anche del tutto esaustiva riguardo ai punti critici posti in rilievo nell’ordinanza che aveva proceduto alla revoca della misura cautelare originariamente disposta, sicché in definitiva la divergente valutazione adottata dal
Tribunale deve ritenersi – addirittura – dotata dì quella maggiore persuasività e credibilità razionale rispetto a quella riformata, necessaria in ogni caso in cui si tr di ribaltare una precedente decisione.
Peraltro il caso di specie si caratterizza per il fatto che vi è stato un origina provvedimento impositivo della misura che era poi revocato all’esito dell’interrogatorio di garanzia alla luce degli argomenti difensivi della c evanescenza il Tribunale ha dato compiutamente conto, passando in rassegna tutti gli eloquenti elementi che inducono a ravvisare la qualità di amministratore di fatto del ricorrente della società RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita il 20.11.2020 – intorno al quale ruotano le plurime condotte di bancarotta contestate – e le singole fattispecie criminose e la elevata pericolosità dell’Incarnato.
In particolare, il Tribunale dopo aver elencato tutte le ipotesi contestate, esaminandole nei dettagli, e mettendo in evidenza il ruolo primario avuto di volta in volta dal ricorrente, ha desunto il pericolo di recidiva dalle specifiche modalità circostanze dei fatti, ritenute – giustamente – indicative della spregiudicatezza dell’indagato, che ha contribuito, nell’indicata veste di dominus della fallita e di altre società ad essa collegate, a condurre al fallimento la RAGIONE_SOCIALE, con correlativo danno dei creditori, tra cui l’Erario. Ha osservato che “Ne modalità dei fatt rimandano ad una accurata pianificazione degli illeciti, ad una consolidata esperienza nel settore, ad una dimestichezza con espedienti di natura fraudolenta, ad una professionalità sintomatiche di un vero e proprio modus operandi, ad un sistema di fare impresa ricorrendo ad una varietà di schemi illeciti che prevedono l’evasione sistematica delle imposte, la creazione di falsa apparenza di affidabilità attraverso l’alterazione dei dati di bilancio in funzione del ricor credito, il costante utilizzo delle risorse per fini estranei all’impresa, la messa sicurezza delle residue attività in prossimità del tracollo, il tutto con gr pregiudizio dei creditori, attestato dall’ingente passivo fallimentare”.
A tutto ciò si aggiunge, secondo la puntuale ricostruzione del Tribunale, “la negativa personalità di COGNOME quale si evince dalla stessa condotta in contestazione, ampiamente sintomatica della sua scaltrezza e della sua capacità di operare “al riparo” di terzi fiduciari, oltre che dalle pendenze a suo carico” (anche per reati tributari e bancarotta fraudolenta).
Il Tribunale ha quindi ritenuto “senz’altro elevato, già sulla scorta di ta circostanze, il pericolo di reiterazione di reiterazione di reati analoghi avu riguardo all’articolazione delle condotte, alla determinazione criminosa dell’indagato, al lungo lasso temporale interessato dagli illeciti, protrattosi dal 201 fino alla dichiarazione di fallimento; e che questo deve essere ritenuto il parametro di riferimento ultimo è evidente se solo si considera la protrazione nel tempo dei
consistenti inadempimenti tributari accumulatisi fino al fallimento, che, come si evidenzia nel provvedimento impugnato, hanno interessato anche altre società riconducibili all’Incarnato (così, ad esempio, la RAGIONE_SOCIALE, in fallimento co debiti erariali maturati nel 2016 e 2017 per oltre un milione di euro, società facente capo allo stesso centro di interessi – Incarnato – utilizzata, come altre, per figurare crediti inesistenti di C.AM.I., anch’essa gestita in evasione di imposta secondo uno schema operativo ampiamente sperimentato dall’indagato nell’ambito di varie società); ciò senza considerare che, a differenza di quanto assume la difesa che si ferma al 2017, sono state registrate condotte illecite anche nel 2018 (così per il falso in bilancio relativo alle immobilizzazioni materiali).
Né potrebbe assumere rilievo la deduzione difensiva secondo cui si tratti di reati tributari ovvero di reati di specie diversa rispetto a quelli oggetto del presen procedimento costituiti da reati fallimentari – bancarotte distrattive, documentali societarie – trascurando la difesa di considerare che rilevanti sono gli inadempimenti tributari anche nella vicenda in esame che pur avendo assunto la veste di vere e proprie operazioni dolose non per questo hanno perso la loro valenza di reati tributari ai fini della valutazione in argomento; laddove peraltro i debiti tribu accumulati anche con riferimento ad altre società – quanto meno ad alcune di esse – cui si riferisce il provvedimento impugnato, sono comunque parimenti emersi nell’ambito di procedure fallimentari.
La pluralità, consistenza e reiterazione nel tempo delle condotte illecite, rispondenti tendenzialmente a schemi precostituiti, che prevedono l’utilizzo, da parte del ricorrente, di intestatari formali per portare avanti i propri tornaco personali adoperando strumentalmente le società a lui riconducibili, è stata in buona sostanza ritenuta tale da superare il dato della mancata emersione di ulteriori comportamenti illeciti prima e dopo la dichiarazione di fallimento – che si colloca comunque a non più di tre anni e sette mesi prima del provvedimento impugnato.
Peraltro – si aggiunge – il ricorso quanto alla condotta successiva del ricorrente si limita ad evidenziare che egli nel 2022 avrebbe dato le dimissioni da determinate società citate; laddove il provvedimento impugnato ha già posto in evidenza come l’Incarnato abbia operato, per anni, con modalità illecite elusive delle intestazion formali sia nell’ambito della fallita che di altre società appartenenti al suo imper industriale, modalità che hanno varie volte condotto le società al fallimento, oberate da ingenti debiti verso l’Erario ed altri creditori.
Indi si conclude coerentemente nel provvedimento impugnato che il pericolo, a dispetto di quanto dedotto dalla difesa, deve ritenersi senz’altro attuale, “avendo l’indagato reiteratamente dato prova di non essere intenzionato a fare impresa in modo trasparente e leale, avendo fatto sistematico ricorso ad espedienti illegali per
massimizzare il proprio profitto a scapito degli altri operatori commerciali (evidentemente danneggiati dalla concorrenza di chi, non pagando le tasse, è in grado di “stare sul mercato” con notevole vantaggio), del sistema bancario (indotto, nel caso di RAGIONE_SOCIALE, a fare credito sulla base di false informazioni sulla solidità del società) e dell’intera collettività (rappresentata dall’Erario), quasi sempr servendosi di fiduciari o prestanome per celare il proprio ruolo gestorio”.
Non è quindi affatto congetturale – osserva infine il Tribunale – ritenere che alla luce del modus operandi dell’indagato messo in luce dalle indagini, che lo stesso replichi anche ad oggi lo stesso schema criminoso, che lo vede all’opera da anni con una galassia di società. Infine, non è privo di rilevanza, nella valutazione del pericolo di recidiva, che, come si evidenzia nel provvedimento impugnato, in sede di esecuzione del titolo cautelare in data 26.3.2024 a casa della Dec – alla quale molte delle fattispecie ipotizzate sono contestate in concorso col ricorrente sia stata rinvenuta una autovettura laguar intestata a RAGIONE_SOCIALE società, questa, nella quale la Dec non risulta avere alcun ruolo e che risulta invece essere stata amministrata da COGNOME (che avrebbe dunque messo il costoso mezzo a disposizione di un soggetto estraneo alla società, assumendo anche di recente un comportamento confermativo del suo modus operandi).
1.3. Con analoghi, congrui, argomenti il Tribunale ha sostenuto la necessità di applicare oltre alla misura interdittiva anche quella degli arresti domiciliari.
D’altra parte, la misura interdittiva – come le dimissioni – impedisce la reiterazione dei reati attraverso la copertura di cariche formali laddove in capo all’indagato è stato ritagliata innanzitutto la qualifica di amministratore di fatto de fallita oltre che più in generale il ruolo di dominus delle società costituenti la galassia di cui si avvaleva per portare aventi i suoi traffici illeciti.
Osserva efficacemente il provvedimento impugnato che per contenere il pericolo che Incarnato replichi, in altre società, in particolare quelle che allo stes risultano o possano ancora far capo, schemi illeciti analoghi a quelli realizzati nell fallita, s’impone il ripristino sia della misura interdittiva che di quella degli ar domiciliari originariamente disposte, necessarie entrambe, la prima per impedire (per la durata di mesi 12) che lo stesso possa rivestire ruoli formali negli uffi direttivi delle persone giuridiche e delle imprese idonei ad agevolare l’amministrazione di società per finì illeciti, la seconda, per impedire che lo stess possa continuare a gestire di fatto altre società avvalendosi, come risulta avere ripetutamente fatto in passato, di prestanome o terzi fiduciari, tra gli altri la ste coindagata Dec, con la quale ha evidentemente tuttora stretti rapporti di collaborazione tanto da averle messo a disposizione la 3aguar della società RAGIONE_SOCIALE
Investimenti (in tali termini congrui e non manifestamente illogici si conclusivamente espresso il Tribunale).
Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pert, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.
Conseguono per la Cancelleria gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Esec. Cod. Proc. Pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Esec. Cod. Proc. Pen.
Così deciso il 17/10/2024.