Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7054 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7054 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/02/2025
Anche il contesto normativo – ha proseguito la Corte Costituzionale – in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU non depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di ‘bis in idem’ in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, Rv. 231799); tanto a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere mera rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 cod. proc. pen. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni di tipo strettamente giuridico ancorate alla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, ai beni giuridici offesi, alla natura giuridica dell’evento, al ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, alle implicazioni penalistiche del fatto e a quant’altro concerne i singoli reati; considerazioni di tipo giuridico che, in quanto, appunto, astratte, investendo il profilo normativo e non quello fattuale del caso concreto, finirebbero col tradire la ratio del divieto del bis in idem che mira ad inibire che si possa essere giudicati per il medesimo fatto, e non riduttivamente per il medesimo reato, indipendentemente, cioè, dalla sua qualificazione giuridica.
Sicché, con riferimento al caso del concorso formale ha coerentemente affermato la Corte Costituzionale che ‘n definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico’.
Nel caso in esame è proprio sulla base del giudizio sul fatto storico che la Corte di appello ha concluso per la insussistenza del ‘bis in idem’.
Essa, di là della corretta affermazione dell’ esistenza di un rapporto di specialità reciproca tra i due reati in argomento – che tendenzialmente si traduce in fattispecie concrete differenziabili anche sul piano fattuale – non fermandosi a tale premessa, ha proceduto, come doveva, a comparare in concreto i fatti refluiti nei diversi procedimenti, giungendo alla conclusione indicata (per l’esclusione del bis in idem con riferimento alle fattispecie in argomento, si è peraltro già pronunciata questa Corte con la risalente pronuncia Sez. 5, Sentenza n. 16360 del 01/03/2011, Rv. 250175 – 01, che si è tuttavia limitata ad esaminare la questione attraverso la comparazione delle fattispecie astratte, concludendo sulla sola base della specialità reciproca esistente tra le due fattispecie).
È solo il caso di aggiungere che oltre agli elementi, fattuali, differenziali individuati nella sentenza impugnata (condotte, rispettivi eventi, elemento soggettivo e soggetti lesi) vi è quello, parimenti pregnante ai fini che occupano, della sentenza di fallimento, che, quale elemento costitutivo del reato di bancarotta, si risolve in un ‘fatto’ avente rilievo giuridico.
Ed invero, la condotta di occultamento-sottrazione dei libri e delle scritture contabili posta in essere in relazione alla procedura fallimentare, diversamente da quella, antecedente, finalizzata a non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume di affari nell’ottica di evadere le imposte, che gravita nell’ambito dell’evasione fiscale e dell’offesa all’erario, si connota proprio per il dato della sentenza di fallimento, rimasto estraneo all’altro procedimento.
Il momento qualificante e rilevante dell’occultamento/sottrazione delle scritture contabili nell’ambito dell’accertamento oggetto del presente procedimento è costituito dalla dichiarazione di fallimento, intervenuta successivamente ai fatti confluiti nell’altro procedimento (come si apprende anche dallo stesso atto di appello).
A fronte di tali eloquenti elementi differenziali, l’eventuale coincidenza dell’oggetto della sottrazione, costituito dalle scritture contabili, non è quindi un dato di per sé sufficiente per potersi parlare di medesimo fatto, che nel caso di specie si contraddistingue, come già evidenziato anche dalla Corte di appello, innanzitutto per la rinnovata sottrazione/mancata consegna delle scritture contabili in relazione e funzione della procedura fallimentare, ossia per essere in definitiva ulteriore e distinta la stessa condotta di reato.
In definitiva, mentre l’altro procedimento ha avuto ad oggetto l’accertamento, nell’ambito di una verifica fiscale, della sottrazione delle scritture contabili e dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari nell’ottica di evadere – o far evadere – le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ai danni dell’erario, nel presente procedimento
il fatto devoluto ed accertato afferisce alla diversa condotta di sottrazione dei libri e delle scritture contabili in riferimento al diverso momento della intervenuta dichiarazione di fallimento, e della conseguente apertura della procedura fallimentare, nel cui ambito i libri, le scritture e i documenti contabili avrebbero dovuto confluire in considerazione degli obbiettivi e degli interessi propri di tale procedura (idonei a ripercuotersi anche sull’elemento soggettivo del recare pregiudizio ai creditori o di trarre ingiusto profitto dall’occultamento, e sullo stesso evento costituito dalla lesione o esposizione a pericolo degli interessi dei creditori).
È evidente, in conclusione, che il fatto della sottrazione delle scritture contabili, sia pure da parte del medesimo soggetto, odierno imputato, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento nel 2015 – rimasta estranea al precedente giudizio che ha avuto ad oggetto unicamente la sottrazione delle scritture contabili rispetto alla verifica fiscale del 2014 – si è arricchito di tale ulteriore dato storico – fattuale, giuridicamente rilevante secondo la legge penale fallimentare.
Nè potrebbe deporre in senso contrario la pronuncia di questa Corte, Sez. 5 22486 del 6.7.2020 (indicata in ricorso, erroneamente, come Sez. 5, 22486/22) le cui conclusioni – alla luce di tutto quanto sopra osservato – non sono condivise dal Collegio.
Ed invero, tale pronuncia parte dall’errato presupposto che ‘la Corte Costituzionale, poi, manipolando l’art. 649 cod. proc. pen., ha statuito, con la pronuncia sopra menzionata, che “il fatto” è il medesimo anche quando sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale’ (laddove, come visto, non è così). E conclude che nel caso di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74/2000 e della bancarotta fraudolenta documentale ricorre il concorso formale e, passando alla valutazione in concreto, assume che tuttavia, nel caso sottoposto alla sua attenzione, si tratta di medesimo fatto sol perché l’occultamento ha avuto ad oggetto le stesse scritture contabili, gli stessi documenti, dimenticando che vi sono ben altri elementi fattuali differenziatori (l’elemento costitutivo del reato, i soggetti, l’elemento oggettivo e quello soggettivo, l’interesse tutelato), che peraltro la stessa pronuncia indica sia pure sul piano meramente astratto del concorso formale.
Si può dunque affermare che non sussiste la violazione del principio del “ne bis in idem” (art. 649 cod. proc. pen.), qualora alla condanna per illecito tributario di occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 74 del 2000, faccia seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, stante la diversità delle fattispecie incriminatrici, richiedendo quella penale tributaria la impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi o il volume degli affari, intesa come impossibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta; diversamente, l’azione fraudolenta sottesa dall’art.
216, n. 2 l. fall. si concreta nella lesione degli interessi creditori, rapportata all’intero corredo documentale, risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta, ben potendosi apprezzare la lesione anche dalla sottrazione di scritture meramente facoltative. Inoltre, nell’ipotesi fallimentare la volontà del soggetto agente si concreta nella specifica volontà di procurare a sé o ad altro ingiusto profitto o, alternativamente di recare pregiudizio ai creditori, finalità non presente nella fattispecie fiscale.
Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così è deciso, 05/02/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME