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Ne bis in idem: due condanne per mafia sono possibili?

La Corte di Cassazione ha stabilito che non viola il principio del ne bis in idem la doppia condanna per associazione di tipo mafioso a carico di un soggetto che abbia partecipato a due distinte consorterie criminali. Anche se i clan sono territorialmente vicini e operano in cooperazione, la diversità di struttura, ruolo dell’imputato e periodi temporali non coincidenti configurano due fatti di reato separati, legittimando così due distinti giudizi.

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Pubblicato il 29 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ne bis in idem: due condanne per mafia sono possibili?

Il principio del ne bis in idem, che vieta di processare una persona due volte per lo stesso fatto, rappresenta un pilastro fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Tuttavia, la sua applicazione può diventare complessa, specialmente in relazione a reati associativi come quello previsto dall’art. 416 bis del codice penale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti, stabilendo che un soggetto può essere legittimamente condannato in due processi distinti se ha partecipato a due diverse organizzazioni mafiose, anche se queste sono tra loro collegate.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un individuo condannato in due separati procedimenti per il reato di associazione di tipo mafioso. La prima condanna, nell’ambito del processo “Plinius 2”, riguardava la sua partecipazione a un clan operante in un comune della costa tirrenica, con una condotta accertata dal 2012 al maggio 2015. La seconda condanna, nel processo “Frontiera”, lo riconosceva colpevole di aver partecipato con un ruolo organizzativo a un altro clan, territorialmente limitrofo ma distinto, con una condotta protrattasi fino al luglio 2019.

L’imputato ha presentato ricorso sostenendo la violazione del principio del ne bis in idem. A suo dire, era stato giudicato due volte per la stessa partecipazione alla medesima compagine associativa, dato che i due clan erano strettamente collegati e il suo ruolo era sostanzialmente quello di fungere da raccordo tra di essi. La Corte di Appello, in sede di esecuzione, aveva però respinto la sua richiesta, ritenendo che i fatti contestati nei due processi non fossero identici. Di qui il ricorso in Cassazione.

L’applicazione del ne bis in idem e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la decisione dei giudici di merito e fornendo una chiara interpretazione dei limiti di applicabilità del principio del ne bis in idem nel contesto dei reati associativi.

I giudici di legittimità hanno sottolineato che, per poter parlare di “stesso fatto” (idem factum), non basta una generica somiglianza delle accuse. È necessaria una piena corrispondenza storico-naturalistica degli elementi costitutivi del reato: la condotta, l’evento e il nesso causale, oltre alle circostanze di tempo, luogo e persona.

Nel caso di specie, la Corte ha concluso che l’imputato non era stato giudicato due volte per lo stesso fatto, bensì per due fatti di reato distinti e autonomi.

Le motivazioni

La decisione della Cassazione si fonda su un’analisi dettagliata degli elementi emersi nei due procedimenti. Le motivazioni principali del rigetto sono le seguenti:

1. Distinzione tra le associazioni criminali: Sebbene operanti in territori vicini e in cooperazione, i due clan sono stati riconosciuti come due associazioni ‘ndranghetistiche distinte, con differente struttura organizzativa, composizione e territori di influenza. La prima operava principalmente nel comune di Scalea, la seconda nei comuni di Guardia Piemontese e San Nicola Arcella, con estensioni in altre aree.

2. Diversità dei ruoli ricoperti: Nei due sodalizi, l’imputato ricopriva ruoli diversi. Nel primo, era un semplice “partecipe”, mentre nel secondo agiva come “promotore/organizzatore”, con compiti di maggior rilievo, come la supervisione del traffico di stupefacenti e la sostituzione dei vertici in caso di arresto.

3. Periodi temporali non coincidenti: Le condotte contestate si riferivano a periodi di tempo diversi. La partecipazione al primo clan era stata accertata fino al 2015, mentre quella al secondo clan era proseguita fino al luglio 2019.

La Corte ha quindi ribadito che, ai fini dell’applicazione del ne bis in idem per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., l’identità del fatto sussiste solo se al condannato viene contestata, nel secondo giudizio, la partecipazione a una consorteria con la medesima sfera operativa, gli stessi interessi, la stessa compagine sociale e gli stessi organi di vertice. Condizioni che, nel caso in esame, non sono state ravvisate.

Le conclusioni

Questa sentenza chiarisce in modo inequivocabile che la partecipazione a due distinte organizzazioni criminali, anche se alleate, costituisce due reati separati. Il principio del ne bis in idem non può essere invocato per unificare condotte che, sebbene simili nella tipologia, si riferiscono a entità associative diverse e si sono sviluppate con ruoli e in periodi temporali differenti. La decisione rafforza un approccio rigoroso nella valutazione dell'”idem factum”, impedendo che legami o collaborazioni tra clan possano essere usati per eludere le responsabilità penali derivanti dalla partecipazione a ciascuno di essi.

Si può essere condannati due volte per associazione mafiosa senza violare il principio del ne bis in idem?
Sì, è possibile. La sentenza chiarisce che ciò avviene quando le condanne si riferiscono alla partecipazione a due organizzazioni criminali distinte, anche se operanti in territori limitrofi e in cooperazione. La diversità delle associazioni, dei ruoli ricoperti e dei periodi temporali configura due fatti di reato separati.

Cosa intende la giurisprudenza per ‘identità del fatto’ ai fini del ne bis in idem?
Per ‘identità del fatto’ si intende una piena corrispondenza storico-naturalistica del reato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e nelle circostanze di tempo, luogo e persona. Non è sufficiente una mera somiglianza delle accuse.

La partecipazione a due clan mafiosi alleati è considerata un unico reato?
No. Secondo la Corte, anche se i clan agiscono in cooperazione, rimangono entità distinte per struttura, composizione e territorio. Pertanto, la partecipazione a ciascuno di essi costituisce un reato autonomo e non un’unica condotta criminosa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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