Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 30934 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 30934 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME nato il DATA_NASCITA a Pozzuoli; nel procedimento a carico del medesimo; avverso la sentenza del 18/09/2023 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del AVV_NOTAIO che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Napoli, adita nell’interesse di NOME, confermava la sentenza del tribunale di Napoli Nord del 11 maggio 2021, con la quale NOME era stato condannato in relazione al reato ex art. 44 lett. b) del DPR 380/01.
Avverso la predetta sentenza NOME COGNOME, tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un solo motivo di impugnazione.
Deduce vizi di violazione di legge e di motivazione, sostenendo che la Corte di appello avrebbe trascurato, con analisi carente e contraddittoria, il principio del divieto di secondo giudizio, essendo emersa la già intervenuta
decisione assolutoria in ordine al medesimo fatto naturalistico poi deciso con la sentenza qui impugnata. Divenuta irrevocabile la prima decisione di assoluzione, il ricorrente avrebbe ripreso lavori di definizione di un gazebo non ancora terminato e già esaminato in via giurisdizionale. Si osserva che la predetta attività di prosecuzione dell’opera non assumerebbe autonomia rispetto a quanto già giudicato e quindi l’azione penale andava ritenuta improcedibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. COGNOME Il ricorso è infondato.
Va premesso che le Sezioni Unite di questa corte hanno innanzi tutto affermato che ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 Rv. 231799).
Successivi interventi giurisprudenziali hanno allargate la nozione di medesimo fatto anche alle ipotesi di reato diversamente qualificato; si è così statuito che per medesimo fatto, ai fini dell’applicazione del principio del “ne bis in idem” di cui all’art. 649 cod. proc. pen., deve intendersi l’identità degli elementi costitutivi del reato, con riferimento alla condotta, all’evento e al nesso causale, nonchè alle circostanze di tempo e di luogo, considerati non solo nella loro dimensione storico-naturalistica ma anche in quella giuridica, potendo una medesima condotta violare contemporaneamente più disposizioni di legge (Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, Rv. 255837).
Inoltre, la stessa pronuncia delle Sezioni Unite in precedenza citata, sganciando il principio della preclusione processuale al secondo giudizio dal giudicato formale, ha pure affermato che non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 cit.).
Tale affermazione risulta confermata anche da numerose pronunce successive, secondo le quali in caso di contestuale pendenza presso lo stesso ufficio (o presso uffici diversi della stessa sede giudiziaria), di più procedimenti penali per uno stesso fatto e nei confronti della stessa persona, una volta esercitata l’azione penale nell’ambito di uno di tali procedimenti, deve considerarsi indebita la reiterazione dell’esercizio del potere di promuovere
l’azione, assumendo, in assenza di un’espressa disposizione normativa, diretto rilievo il principio di “consumazione” del potere medesimo, correlato a quello di “preclusione”, del quale costituisce espressione il divieto di “bis in idem” dopo la formazione del giudicato; ne consegue che, nell’ambito del secondo procedimento, va chiesta e disposta l’archiviazione ovvero, nel caso in cui l’azione penale sia già stata esercitata, ne va dichiarata l’improcedibilità con sentenza (Sez. 4, n. 25640 del 21/05/2008, Rv. 240783).
COGNOME Quanto sopra riassunto non ricorre nel caso in esame. Questa Corte ha già precisato che, con riguardo ai reati permanenti quale quello di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001, nella specie in contestazione, occorre fare delle distinzioni. La permanenza della contravvenzione si protrae sino a che la costruzione sia ultimata, ovvero, in alternativa, sino a che cessino i lavori, spontaneamente o coattivamente ed il precedente processo aveva valutato le condotte commesse sino al 14 agosto 2015, quali iniziative edili realizzate in assenza di permesso di costruire. I lavori sub iudice sarebbero proseguiti ed in tal senso accertati il 7 dicembre 2020.
In via preliminare, deve allora evidenziarsi che non può ipotizzarsi la violazione del principio di cui al brocardo ne bis in idem rispetto alla condanna per lavori abusivi (in quanto eseguiti in assenza di permesso) e alla successiva prosecuzione degli stessi sul medesimo immobile, pur dopo il giudicato. Il principio è ben espresso nella sentenza in cui si è affermato che il divieto di un secondo giudizio per il reato di abuso edilizio di cui all’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riguarda soltanto la condotta posta in essere nel periodo indicato nell’imputazione ed accertato con la sentenza irrevocabile, ma non anche l’eventuale prosecuzione o la ripresa degli interventi edificatcri in un periodo successivo, attesa la natura permanente della fattispecie e la conseguente scomponibilità giuridica dei comportamenti posti in essere dall’imputato (Sez. 3, ord. n. 19354 del 21/04/2015, Rv. 263514).
Nella motivazione del citato provvedimento si legge che il reato urbanistico ha natura permanente e la sua consumazione ha inizio con l’avvio dei lavori di costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, per l’oggettiva destinazione alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla cessazione dell’attività edificatoria abusiva. Si è poi precisato (ex pl. Sez. 3, n. 38136 del 25/9/2001, Triassi, Rv. 220351) che la cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l’accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v. anche Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498) .
Si è poi specificato, in linea generale, che non vi è “identità del fatto”, rilevante ai fini dell’operatività del principio del ne bis in idem, nel caso in cui uno stesso reato permanente sia contestato in relazione a periodi diversi, ancorché parzialmente sovrapposti, poiché in tal caso il fatto, pur essendo naturalisticamente unico, risulta giuridicamente scomponibile in due fatti diversi in considerazione delle diverse circostanze di tempo (Sez. 2, n. 33838 del 12/7/2011, COGNOME, Rv. 250592); ciò in quanto detta identità sussiste soltanto quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (cfr. Sez. 5, n. 52215 del 30/10/2014, Rv. 261364; Sez. 2, n. 292 del 4/12/2013 (dep.2014), Rv. 257993; Sez. 4, n. 4103 del 06/12/2012 (dep. 2013), Rv. 255078; Sez. 5, n. 28548 del 01/07/2010, Rv. 247895; Sez. 2, n. 26251 del 27/5/2010, Rv. 247849; Sez. 2, n. 21035 del 18/4/2008, Rv. 240106). Per ciò che riguarda, in particolare, l’operatività del principio in parola con riferimento al reato urbanistico, si è affermato che il divieto di un secondo giudizio riguarda la condotta delineata nell’imputazione ed accertata con la sentenza, di condanna o di assoluzione, divenuta irrevocabile e non anche la prosecuzione della stessa condotta o la sua ripresa in epoca successiva, trattandosi, in tal caso, di fatto storico diverso non coperto dal giudicato e per il quale non vi è impedimento alcuno a procedere (così, Sez. 3, n. 15441 del 13/3/2001, Rv. 219499; Sez. 3, ord. n. 19354 del 21/04/2015, in motivazione).
I principi affermati dalla giurisprudenza appena richiamata valgono, tuttavia, soltanto per l’ipotesi, che è quella statisticamente più ricorrente, in cui il reato urbanistico consista nella realizzazione di opere in (pacifica) assenza del necessario permesso di costruire. Solo in tal caso il giudicato sulla realizzazione di talune opere non impedisce il nuovo esercizio dell’azione penale qualora la condotta di costruzione abusiva, non portata a termine, prosegua.
Gli stessi principi, invece, non possono essere tal quali riproposti laddove l’imputazione (ed il conseguente giudicato) abbia avuto riguardo non tanto (e non soltanto) alla (parziale) realizzazione di un’opera contestata come avvenuta in assenza del necessario permesso di costruire, quanto al fatto assorbente e qualificante la stessa illiceità/liceità della condotta – che l’opera fosse assoggettata a quel titolo edilizio (piuttosto che, ad es., a semplice s.c.i.a.), ovvero il titolo rilasciato fosse da ritenersi mancante perché tamquam non esset (ad es.. per, inefficacia, illiceità, macroscopica illegittimità…). [n questi casi, giudicato formatosi sulla porzione di condotta omissiva che integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 (vale a dire aver eseguito lavori “in assenza” del necessario permesso a costruire) è da ritenersi preclusivo della possibilità di un nuovo esercizio dell’azione penale quand’anche la porzione
di condotta commissiva necessaria per l’integrazione del reato (vale a dire l’esecuzione di lavori) sia diversa ed ulteriore, sempreché, beninteso, riconducibile al titolo edilizio oggetto di definitiva valutazione. Se la condotta omissiva – necessaria per l’integrazione dei reato ed assorbente rispetto alla valutazione di liceità/illiceità – è già stata giudicata in termini tali da rendere penalmente irrilevante il profilo commissivo connesso all’esecuzione di lavori (perché l’accertamento ha appunto avuto riguardo all’esistenza/necessità del permesso di costruire), qualora quest’ultimo assuma una diversa connotazione materiale ma “coperta” dal primo accertamento (ciò che accade laddove vi sia un mero proseguimento della medesima attività già fatta oggetto di valutazione) non può infatti dirsi che si tratti di condotta diversa ai fini della non applicazione dell’istituto processuale del ne bis in idem (cfr. Sez. 3 – n. 36215 del 15/05/2019 Rv. 277582 – 01).
COGNOME Diverso rispetto a quanto da ultimo illustrato, è tuttavia il caso di specie. La prima sentenza, di assoluzione, è intervenuta sul rilievo, invero erroneo, e in proposito correttamente evidenziato nella sentenza qui in esame, per cui il carattere in legno dell’opera avrebbe escluso di per sé la stessa dal necessario ricorso al permesso di costruire.
Con la sentenza in contestazione, pronunziandosi condanna in rapporto alla contestazione di prosecuzione dell’opera in assenza di permesso di costruire, non solo si è sottolineato il carattere di per sé non preclusivo della natura in legno di opere edili, in funzione del necessario rilascio del permesso di costruire, ma si è altresì anche ulteriormente descritta l’opera come consistita in una struttura oltre che di rilevanti dimensioni e collocata su una base in calcestruzzo, delimitata ai lati con pannelli in alluminio. In particolare, quest’ultima connotazione materiale, in uno con i corretti rilievi circa la consistenza e stabilità dell’opera, lascia emergere non solo la diversità di quanto realizzato in prosecuzione, ma anche, per quanto qui di interesse diretto alla luce delle problematiche giuridiche prima evidenziate, che anche il giudizio, pregresso, di assoluzione, fondato esclusivamente sul materiale, in legno, dell’immobile, risulta superato dalla distinta valutazione di un’opera anche materialmente diversa, stante la presenza anche di componenti in alluminio. Cosicchè, il giudicato assolutorio, anche nella parte involgente la non necessità del permesso di costruire in ragione della natura in legno della struttura, non risulta preclusivo, a fronte di una nuova e diversa vicenda che si connota anche per la valutazione della necessità del titolo edilizio rispetto ad un opera dalle caratteristiche materiali non identiche a quelle poste a base dell’esclusione della necessità del titolo abilitativo funzionale, per la sua assenza, alla configurazione del reato.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 17/04/2024.