Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 28423 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 28423 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 05/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CATANZARO il 27/02/1997
avverso la sentenza del 23/09/2024 della CORTE APPELLO di CATANZARO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
COGNOME Andreupropone ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro GLYPH dichiarava non doversi procedere per i reati ascritti ai capi B) e C) poiché estinti per intervenuta prescrizione e conseguentemente riduceva la pena a mesi 8 di reclusione ed euro 1.700,00 di multa per il solo reato di cui al capo A), previsto dall’art. 73, comma 5, d.P.R. d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309.
Il ricorso lamenta, con un primo motivo, la violazione degli artt. 32, comma 1, e 111, comma 6, Cost., 49 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990 nonché carenza e contraddittorietà della motivazione ex artt. 125, comma 3, cod. proc. pen., 111, comma 6, Cost. e 546 cod. proc. pen. in relazione all’art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen..
In particolare, la difesa e in relazione all’effettiva prova della natura stupefacente della sostanza che l’imputato deteneva, evidenzia che la motivazione, ritenendo sufficiente per la prova il narcotest, è fortemente contraddittoria in quanto lega l’applicabilità dell’esito del narcotest, ovvero la non necessità di accertare il principio attivo (rectius, la effettiva capacità drogante) alla riqualificazione del fatto in quello di lieve entità ex art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990. Si censura, quindi, che tale capacità drogante si basi sulla descrizione riportata nella informativa della p.g, riferendosi in astratto al tipo di sostanza e non all’effettiva e concreta idoneità a indurre una modificazione dell’assetto neuropsichico dell’utilizzatore. In proposito, ritiene la difesa che il problema è esattamente il contrario, nel senso che proprio quando il quantitativo di sostanza è, come nel caso di specie, di modestissimo valore è assolutamente necessario stabilire se la poca sostanza possieda livelli di principio attivo tali da avere concreti effetti stupefacenti e da comportare quelle possibili alterazioni dell’organismo che costituiscono l’offesa al bene protetto oggetto di sanzione penale. Uno stupefacente non psicoattivo o lievemente psicoattivo non risulta neppure astrattamente pericoloso per la salute ed in conseguenza, fa venir meno la piena rilevanza penalistica della fattispecie ex art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, legata alla ratio della tutela della salute pubblica ai sensi dell’art. 32 Cost.. Da qui, dunque, l’importanza della consulenza tecnica ovvero della perizia, che vengono disposte ogni qual volta vi è la necessità di svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze, integrando le conoscenze di una delle parti del processo.
Con un secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 157 e 159 cod. pen. e il travisamento del fatto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen. con riguardo alla mancata declaratoria di prescrizione del reato di cui al capo A). Il ricorrente lamenta che la motivazione della sentenza ritiene non prescritto il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, sub capo A) della rubrica, sulla base del fatto che tutti i rinvii (compresi quelli per la richiesta di messa alla prova dell’imputato), sarebbero stati richiesti dalla difesa al solo scopo dilatorio.
La difesa ritiene che tale motivazione sia “oltremodo oltraggiosa per lo scrivente difensore posto che sostiene che l’attività difensiva sia stata dolosamente rivolta ad ottenere dei rinvii”. In proposito, nel ricorso viene esposto che i rinvii richiesti ed ottenuti dal Tribunale sono da attribuirsi esclusivamente all’inerzia dell’UEPE. Il fatto che l’imputato abbia violato il programma e, quindi, che la messa alla prova sia stata revocata, non è circostanza dipesa da alcuna scelta o addirittura “strategia dilatoria”, posto che in tutta evidenza si è trattato di una evenienza non preventivabile e neppure auspicabile dal difensore.
Osserva, inoltre, la difesa che il periodo intercorrente tra la fase della richiesta e quella in cui viene disposta l’ammissione della messa alla prova non sospende la prescrizione. Cosicché è errato il calcolo posto in essere dalla Corte di appello di Catanzaro, di sospensione di mesi tredici del primo periodo più sei mesi e mezzo del secondo periodo, atteso che andavano calcolati semmai soltanto i sei mesi e mezzo della sospensione con messa alla prova ed i novantuno giorni di rinvio per l’adesione del difensore allo sciopero di categoria.
Con un terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 131-bis cod.pen. in relazione all’art. 606, comma 1, lett. B) ed E) cod. proc.pen. avendo la Corte di appello di Catanzaro escluso l’applicabilità dell’ipotesi di particolare tenuità del fatto sulla scorta di una motivazione foriera di violazioni di legge, anche ove saldata con quella di primo grado.
La difesa critica la motivazione ove al foglio 5 si legge testualmente: “Anche le residue richieste non possono essere condivise: non solo l’operato della p.g. ha consentito di svelare la contestuale commissione di più reati (e la verosimile consumazione di altri episodi di piccolo spaccio per come è agevole ricavare dall’appunto sequestrato nell’abitazione), quanto il COGNOME annovera nel casellario altro precedente per articolo 4 legge 110/75 sebbene accertato in un secondo momento rispetto ai fatti di causa”.
Ebbene, la prima delle argomentazioni potrebbe in astratto essere valida solo nella misura in cui la Corte avesse dato contezza del fatto che le
plurime violazioni fossero il sintomo di una serialità, ovvero di una progressione criminosa indicativa di particolare intensità del dolo. Ma rileva la difesa che ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardano azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo, di luogo e nei confronti della medesima persona, elementi da cui emerge una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131-bis cod.pen..
Ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto ex art. 131bis cod.pen. deve guardarsi alla globalità del fatto, ai profili della condotta, nonché all’atteggiamento soggettivo dell’agente e dell’evento da questi determinato anche in relazione al tempo di esecuzione. Nel caso che ci occupa non solo il fatto più grave è rappresentato dalla detenzione di un modico quantitativo di sostanza stupefacente ma, soprattutto, le altre violazioni di tipo contravvenzionale (peraltro estinte per prescrizione) non disvelano una progressione criminosa indicativa di particolare intensità del dolo o versatilità offensiva. Sul punto il ricorrente evidenzia un evidente travisamento fattuale.
Per tali ragioni la motivazione appare al ricorrente del tutto erronea sia in fatto sia in diritto, e non ha dato atto di avere operato una valutazione sulla scorta della condizione socio-familiare dell’imputato, dell’intensità del dolo, del carattere e della personalità del reo nel suo complesso, al fine di stabilire, mediante un compiuto e ponderato giudizio prognostico, rispettoso dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen., se l’imputato si asterrà o meno in futuro dal commettere altri reati.
Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
La motivazione della Corte di appello ha spiegato che la presenza di una serie di circostanze (bilancino, suddivisione in dosi, elenco di acquirenti) depone a favore della considerazione della finalità di spaccio per la detenzione della sostanza valorizzando in modo logico tali circostanze per ricondurre il fatto alla fattispecie del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 e spiegando altresì che in tema di reati concernenti le sostanze stupefacenti, l’accertamento svolto con “narcotest” consente di provare la natura stupefacente di una
determinata sostanza, ancorché non fornisca la prova relativa alla quantità del principio attivo contenuto. La decisbne è in linea con il principio dettato riguardo una fattispecie sovrapponibile a quella in giudizio in cui la Corte ha derubricato la contestazione originaria nell’ipotesi meno grave prevista dall’art.73, comma 5, d.P.R. n.309 del 1990 che, invece, non era stata riconosciuta sulla base del solo “narcotest”, senza che fosse stata accertata la quantità di principio attivo/ (Sez. 6, n. 6069 del 16/12/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269007-01). In proposito il Collegio intende ribadire l’orientamento giurisprudenziale per cui, per stabilire l’effettiva natura stupefacente di una determinata sostanza è sufficiente il narcotest, senza che sia indispensabile far ricorso ad una perizia chimica tossicologica, che è necessaria, invece, ove occorra valutare l’entità o l’indice dei principi attivi contenuti nei reperti. (Sez. 3, n. 22498 de 17/03/2015, COGNOME, Rv. 263784 – 01).
Ulteriormente, la Corte di legittimità ha ritenuto che, in tema di reati concernenti le sostanze stupefacenti, il giudice non ha alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualità e la quantità del principio attivo di una sostanza drogante, in quanto, da un lato, egli può attingere tale conoscenza dalle diverse fonti di prova acquisite agli atti, e, dall’altro, grava sul pubblico ministero il rischio di mancata prova in ordine agli elementi a carico dell’imputato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva affermato la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, anche perché il mancato accertamento della percentuale di principio attivo, per il principio del favor rei, doveva risolversi a favore dell’imputato). (Sez. 6, n. 47523 del 29/10/2013, P.m. in proc. COGNOME, Rv. 257836-01).
La giurisprudenza di legittimità con tali pronunce ha considerato la non necessità della consulenza tossicologica escludendo che l’accertamento scientifico sia l’unico in grado di poter consentire la sussumibilità della detenzione di sostanza all’interno dell’alveo della norma penale di riferimento e, quindi, disancorando la prova dello specifico dato scientifico dall’effettiva messa in pericolo del bene tutelato della salute pubblica.
Il motivo di ricorso de quo non si confronta, se non con mere asserzioni, con tale orientamento che depone per escludere che l’effettiva messa in pericolo del bene tutelato dalla norma può essere provata solo ed esclusivamente attraverso un esame scientifico effettuato da un consulente esperto che si giova di strumentazioni tecniche. E non si confronta, soprattutto, con gli univoci elementi esposti nella sentenza di primo grado da cui il giudice di merito ha
dedotto la cornice probatoria per affermare la sussistenza del reato di detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente.
Ne consegue la manifesta infondatezza e quindi l’inammissibilità del primo motivo di ricorso.
Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Sul punto, nella motivazione impugnata si legge testualmente che: “tutti i rinvii ottenuti dalla difesa dall’udienza del 14/11/2016 a quella dell’11/12/2017 e motivati dalla richiesta di produrre documentazione o comunque perfezionare la procedura per richiedere la messa alla prova (invero il 12/6/2017 si annovera anche un rinvio per adesione allo sciopero di categoria), sono da considerarsi dilatori nella misura in cui la richiesta dell’elaborazione di un programma di trattamento all’U.E.P.E., venne formalizzata dal difensore solo 1’11/12/2017”.
Al riguardo il Collegio osserva che dopo quasi tredici mesi di rinvii, avvenuti su richiesta del difensore, la messa alla prova veniva disposta all’udienza del 26/3/2018 e in quella sede il procedimento veniva sospeso; all’udienza dell’8/10/2018 veniva revocata la sospensione in ragione delle gravi trasgressioni al programma da parte dell’imputato.
Il Collegio ritiene che la prospettazione difensiva sia errata. Premesso che non è valutabile in sede di legittimità l’eventuale intento meramente dilatorio delle richieste di rinvio, si deve mettere in evidenza il disposto dell’art. 168-ter cod. proc. pen. ove prevede che i termini per la prescrizione sono sospesi durante il periodo di sospensione del procedimento per la messa alla prova. Nella fattispecie in giudizio, pertanto, rileva innanzi tutto un periodo di sospensione della prescrizione di sei mesi e quindici giorni, nel periodo che decorre dal 26/03/2018 all’8/10/2018, quando, atteso il mancato rispetto delle prescrizioni, veniva revocata l’ammissione alla messa alla prova.
Inoltre, rileva anche un altro periodo di sospensione della prescrizione di un anno e ventisette giorni dal 14/11/2016 all’11/12/2017, trattandosi di rinvii richiesti dal difensore ai sensi dell’art. 159, comma 1, n. 3) cod. proc. pen. Al riguardo il Collegio intende dare continuità all’orientamento per cui il rinvio del processo, disposto su richiesta del difensore dell’imputato per consentire di dare corso alla procedura di messa alla prova e all’elaborazione, da parte dell’ufficio di esecuzione penale esterna, del programma di trattamento, comporta la sospensione del termine di prescrizione, ai sensi dell’art. 159, comma primo, n. 3), cod. pen., per tutta la durata del rinvio, senza necessità di un provvedimento formale del giudice. (Sez. 4, n. 13469 del 19/11/2019, dep. 2020, Agnelli, Rv. 279001 – 01).
Pertanto, al tempo di prescrizione massima di anni sette e mesi sei deve sommarsi un anno e ventisette giorni relativi al periodo di rinvio nelle more dell’ammissione alla messa alla prova nonché mesi sei e giorni quindici relativi al secondo periodo di effettiva sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen.. Atteso che il fatto per cui si procede sub capo A) è stato consumato in data 8/03/2016 alla data odierna non si può ritenere estinto il delitto, pur ricondotto nell’alveo del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.
Di conseguenza il secondo motivo di impugnazione volto alla richiesta dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione è manifestamente infondato e quindi inammissibile.
Il terzo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione dell’art. 131bis cod. pen. deve essere rigettato.
Il Collegio evidenzia che la motivazione impugnata, conformemente a quella di primo grado, espone anche la contestuale constatazione di vari altri reati e di episodi di spaccio di stupefacenti (come si ricava dall’appunto sequestrato) e il porto ingiustificato di un pugnale con lama affilata, nonché di un manufatto esplodente, che complessivamente nell’economia della motivazione depongono contro la tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen..
A fronte di tale passaggio motivazionale, a parte le generiche osservazioni difensive sulla gravità della condotta, si deve rilevare che ai fini della configurabilità della causa. di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuit richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo. (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590 – 01).
La tenuità del fatto può essere riconosciuta (o disconosciuta) dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che salve le condizioni ostative tassativamente previste dall’art. 131-bis cod. pen. per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale – tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti i continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi
ai fatti. (Sez. U, n. 18891 del 27/01/2022, COGNOME, Rv. 283064 – 01). Tale paradigma ermeneutico si deve fondare anche su una valutazione circa
l’inserimento della condotta in un contesto più articolato, e sulla eventuale espressione di una situazione episodica, e, in definitiva, se il fatto nella sua
complessità sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
(Sez. 4, n. 36534 del 15/09/2021, COGNOME, Rv. 281922-01).
18.
A tale paradigma si allinea la motivazione impugnata, sebbene con espressioni sintetiche ma logiche e argomentate esposte nell’ultimo capoverso,
che resistono alle generiche osservazioni critiche presentate con il ricorso che pertanto merita il rigetto.
19.
In conclusione, il Collegio rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 5 marzo 2025 Il Consigliere estensore