Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5105 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5   Num. 5105  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto dalla: parte civile COGNOME NOME nata a BOTRICELLO il DATA_NASCITA nel procedimento a carico di:
NOME nato a MESSINA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 03/02/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria a firma del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto di annullare la sentenza impugnata, con rinvio al giudice civile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa il 4 febbraio 2021, il Tribunale di Crotone condannava NOME per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., per avere, nella qualità presidente dell’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, offeso la reputazione di COGNOME NOME, pubblicando – “sull’evento Facebook” denominato “NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME che fine fanno i cani che trasportate dal sud, pretendiamo di sapere la verità” – il seguente “post”: «molti si sono messi in proprio dopo aver imparato come si lucra sui cani, vedi la NOME e la NOME COGNOME di Crotone».
Con sentenza emessa il 3 febbraio 2023, la Corte di appello di Catanzaro ha riformato la sentenza di primo grado, assolvendo l’imputato per non aver commesso il fatto.
Avverso la sentenza della Corte di appello, la parte civile COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia.
2.1. Con un unico motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 595 cod. pen. e 192 e 533 cod. proc. pen.
Rappresenta che: la Corte di appello aveva correttamente ritenuto il messaggio pubblicato su “Facebook” lesivo della reputazione della persona offesa, atteso che quest’ultima era la presidente di un’associazione di volontariato senza scopo di lucro, il cui scopo statutario era quello di tutelare e proteggere i cani, senza perseguire alcuna finalità di guadagno; la Corte di appello aveva correttamente ritenuto che la riconducibilità all’imputato del profilo “Facebook” utilizzato per pubblicare il “post” in questione non richiedesse necessariamente un accertamento tecnico sulla titolarità dell’indirizzo IP collegato al profilo , potendo tale riconducibilità essere basata anche su altri elementi indiziari; la Corte territoriale, tuttavia, aveva ritenuto che, nel caso in esame, mancassero elementi sufficienti per poter ricondurre con certezza il messaggio “incriminato” all’imputato, in considerazione del fatto che il profilo “Facebook” in questione poteva essere utilizzato anche da altri membri dell’associazione.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe caduta in errore, non avendo adeguatamente valutato i seguenti elementi: il legale rappresentante risponde di tutte le comunicazioni provenienti dall’ente da lui rappresentato a meno che egli non provi che esse siano riconducibili ad altri soggetti; l’imputato, nel corso del giudizio, non aveva mai affermato che il profilo in questione fosse stato utilizzato da altre persone o che egli comunque fosse
estraneo al “post” in questione; l’imputato non aveva mai sporto denuncia per un presunto furto di identità del profilo “Facebook” in questione.
Il ricorrente sostiene che alcun elemento probatorio era emerso e neppure alcuna osservazione difensiva era stata dedotta in ordine alla possibile utilizzazione del profilo da parte di soggetti diversi dall’imputato. La Corte di appello, pertanto, avrebbe fondato la sua decisione solo su elementi meramente ipotetici o congetturali.
 Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di annullare la sentenza impugnata, con rinvio al giudice civile.
AVV_NOTAIO, per l’imputato, ha depositato memoria scritta con la quale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso ovvero di rigettarlo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere accolto.
1.1. L’unico motivo di ricorso è fondato.
La sentenza impugnata ha “ribaltato” il giudizio di condanna di primo grado, assolvendo l’imputato per non aver commesso il fatto.
Nel motivare la riforma della sentenza di condanna di primo grado, la Corte di appello si è limitata ad affermare che: non poteva ritenersi accertata, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità del NOME, ben potendo il profilo “Facebook” dell’associazione essere in uso anche altri membri della stessa e non solo al suo presidente»; sarebbe stato necessario un approfondimento istruttorio, in ordine alla detenzione della password di accesso al profilo, che non era stato svolto.
La pronuncia di assoluzione, in sostanza, si fonda su una possibile ricostruzione alternativa (quella che altre persone utilizzassero il profilo) e sull’assenza di una “prova positiva” (quella relativa alla detenzione della password di accesso al profilo).
Alla base della riforma della sentenza di primo grado, dunque, c’è non una rigorosa e analitica critica della sentenza di primo grado o degli elementi esistenti posti a base della decisione del Tribunale, bensì una mera possibilità (quella che altre persone utilizzassero il profilo), peraltro disancorata dalla realtà processuale (nella sentenza impugnata non viene indicato alcun elemento concreto – fossero pure le dichiarazioni dell’imputato – dal quale desumere che altre persone utilizzassero il profilo), nonché la valorizzazione della mancanza di un elemento
non presente nel compendio probatorio (l’accertamento sulla disponibilità della password), che, tuttavia, era acquisibile attraverso l’esercizio dei poteri di integrazione istruttoria d’ufficio che insistono sul giudice di appello.
Al riguardo, deve essere ricordato che, in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di primo grado, la giurisprudenza di legittimità, sebbene non sia giunta a configurare un obbligo di integrazione istruttoria, ha più volte ribadito la necessità che la sentenza di appello si esprima con una motivazione c.d. “rafforzata” che tenga conto non solo degli argomenti esposti nell’atto di impugnazione, ma anche di quelli contenuti nella prima decisione. Si è, infatti, affermato che il giudice di appello, pur non essendo gravato da un obbligo di rinnovazione della prova, è comunque tenuto a offrire una motivazione puntuale e adeguata che giustifichi in modo razionale la difforme conclusione adottata (Sez. U. n. 14800 del 21/12/2017, Troise, Rv. 272430; Sez. 3, n. 6880 del 26/10/2016, D. L., Rv. 269523).
La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, affermato la necessità che la sentenza di riforma si confronti in modo puntuale con quella di primo grado, imponendo al giudice di appello la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni, seguita dall’esposizione delle ragioni della diversa decisione e del privilegio accordato a elementi di prova diversi o diversamente valutati. Conseguentemente, ha affermato che il giudice di appello, allorché prospetti ipotesi ricostruttive del fatt alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti, posti a fondamento di un iter logico che conduca a soluzioni divergenti da quelle prospettate dal precedente giudice di merito. Coerentemente ha affermato che, «nel caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado, pur non potendosi configurare un obbligo di rinnovazione istruttoria ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., sussiste un obbligo di motivazione rafforzata, sicché può incidere negativamente sulla convalida della tenuta logica della decisione, una motivazione fondata sulla decisiva valorizzazione della assenza di una prova acquisibile» (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416).
Ebbene, appare evidente che, nel caso in esame, la Corte di appello non solo è venuta meno all’obbligo di motivazione rafforzata, non avendo adeguatamente dimostrato l’incompletezza, la non correttezza o l’incoerenza delle argomentazioni del giudice di primo grado, ma ha basato la sentenza di assoluzione proprio su una mera possibilità (quella che altre persone utilizzassero il profilo), disancorata dalla realtà processuale, nonché sulla valorizzazione della mancanza di un elemento non
presente nel compendio probatorio (l’accertamento sulla disponibilità delle password), che, tuttavia, era acquisibile attraverso l’esercizio dei poteri di integrazione istruttoria d’ufficio.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per un nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Così deciso, il 20 ottobre 2023.