Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 32336 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 32336 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CERIGNOLA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 13/02/2025 del TRIB. LIBERTA’ di Bari. Udite le conclusioni del Procuratore generale, che ha chiesto il rigetto del ricorso. Sentito il difensore, che ha insistito nell’accoglimento dell’impugnazione.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bari, quale giudice adito ai sensi dell’art.310 cod.proc.pen., ha accolto l’appello proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa il 02/07/2024 dal Tribunale di Foggia e con la quale era stata sostituita la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari -accompagnati da modalità elettroniche di controllo -nei confronti di NOME COGNOME, imputato in ordine ai reati previsti dall’art.74, commi 1, 2 e 4 e 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Il Tribunale ha dato atto della circostanza che il giudice procedente aveva ritenuto rilevante, al fine di giustificare l’attenuazione della misura, il lasso di tempo trascorso dall’esecuzione dell’ordinanza genetica, avvenuta il 13/02/2024 e il correlativo e presumibile effetto deterrente e dissuasivo derivante dalla detenzione subìta; il tutto, anche considerando il ruolo non apicale rivestito dall’indagato all’interno del sodalizio e il tempo decorso della cessazione dell’attività associativa (anni cinqu e e mesi sei).
Il Tribunale ha quindi premesso che all’imputato risultava ascritto un reato, quello di cui all’art.74, T.U. stup., per il quale l’art.275, comma 3, cod.proc.pen.
poneva una presunzione relativa di adeguatezza della sola misura maggiormente gravosa; ha quindi ritenuto non condivisibile la valutazione del giudice procedente in punto di rilevanza del tempo trascorso dalla cessazione della condotta associativa, esponen do che l’unico dato valutabile in sede di richiesta di sostituzione fosse quello del tempo trascorso dalla data di esecuzione della misura, con la necessità comunque di tenere conto di fattori sopravvenuti rispetto a questa; ha quindi ritenuto che il tempo trascorso dall’esecuzione della misura fosse elemento del tutto neutro in assenza di ulteriori elementi positivi, nel caso di specie non ravvisabili alla luce del complessivo comportamento processuale ed extraprocessuale del ricorrente; ritenendo, comunque, non valutabili in senso favorevole gli elementi desumibili dal c.d. tempo silente, in ragione dello stato prolungato di latitanza dell’imputato.
In punto di adeguatezza della misura, ha ritenuto che il provvedimento impugnato fosse sostanzialmente privo di motivazione e comunque contraddittorio, atteso che lo stesso Tribunale aveva ritenuto presente un rischio di recidivanza; esponendo come l’imput ato, già in passato, avesse dimostrato di avere scarsa attitudine al rispetto delle prescrizioni connesse all’applicazione della misura degli arresti domiciliari; ritenendo, quindi, come la misura di massimo rigore fosse l’unica in grado di presidiare le e sigenze ancora ravvisabili.
Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, tramite il proprio difensore, articolando un unitario e complesso motivo di impugnazione; con il quale ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), c) ed e), cod.proc.pen. -la violazione di legge in riferimento agli artt. 274, 275, 299 e 310 cod.proc.pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari e alla adeguatezza della misura carceraria.
Ha dedotto che il Tribunale distrettuale non avrebbe rispettato i canoni relativi alla necessità di una motivazione rafforzata, quindi dotata di una specifica valenza persuasiva, specificamente trascurando di valutare gli elementi dedotti da lla difesa e allegati anche nella presente sede; relativi, tra l’altro, alla condotta processuale collaborativa tenuta dall’imputato, all’evoluzione dell’attività istruttoria, dalla quale era emerso un ruolo sostanzialmente marginale del ricorrente all’int erno del sodalizio, alla già avvenuta concessione di una misura coercitiva domestica nell’ambito di altro procedimento, alle evoluzioni delle vicende cautelari dei coimputati, tutti già beneficiari di misura domiciliare e pur se investiti di ruoli apicali, nonché richiamando l’assoluzione di alcuni presunti sodali. Ne conseguiva, sulla base della prospettazione difensiva, che il percorso motivazionale seguito dal Tribunale non poteva ritenersi congruo e idoneo a
smentire le argomentazioni fatte proprie dal giudice procedente, essendosi il Collegio acriticamente appiattito sulle argomentazioni del pubblico ministero.
In punto di esigenze cautelari, esponeva come il giudice procedente avesse dato atto dell’ampio arco temporale decorso dall’interruzione della condotta criminosa oltre che di ulteriori elementi coincidenti con quelli sopra riassunti; ha contestato la valutazione del Tribunale distrettuale in base alla quale l’unico fattore temporale da prendere in considerazione sarebbe stato quello relativo al tempo trascorso dall’applicazione della misura; ha quindi dedotto che, erroneamente, il Tribunale non si sarebbe adeguatamente confrontato con la notevole distanza temporale intercorrente rispetto ai fatti contestati, dando illogicamente rilievo a elementi quali il periodo di latitanza e a un periodo precedente di irreperibilità, tutti fattori comunque antecedenti rispetto all’esecuzione della misura.
Ha dedotto che il giudice procedente aveva giustamente tenuto conto del tempo trascorso dall’applicazione della misura facendo proprio riferimento a fattori quali la condotta processuale collaborativa, alla posizione non apicale rivestita nel sodalizio e al carattere non decisivo dei suoi precedenti penali.
Sottolineava, in particolare, la rilevanza da attribuire al comportamento processuale del ricorrente mediante il quale questi aveva fornito un contributo al celere accertamento dei fatti; ha dedotto che il Tribunale aveva attribuito rilevanza a due procedimenti ancora pendenti per fatti in materia di stupefacenti in ordine a contestazioni ferme al 2017, non tenendo conto che nell’ambito di uno di questi procedimenti la misura di massimo rigore era stata sostituita con quella degli arresti domiciliari; così come il Collegio non avrebbe tenuto conto della assoluzione, pronunciata in sede di giudizio abbreviato, nei confronti di due soggetti indicati come capi e organizzatori dei sodalizi oggetto del presente procedimento.
In punto di scelta della misura, ha dedotto che il Tribunale non avrebbe adeguatamente tenuto conto del comportamento tenuto durante il periodo di restrizione nonché di quello tenuto nel corso dell’applicazione degli arresti domiciliari nell’ambito di distinto procedimento, non tenendo neanche adeguato conto della posizione di alcuni coimputati assolti nell’ambito del separato giudizio abbreviato.
Ha altresì evidenziato che il Tribunale avrebbe tenuto conto di elementi nuovi posti a sostegno dei motivi di gravame ed estranei al giudizio.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Nel complesso e unitario motivo di ricorso, la difesa dell’imputato ha introdotto tre distinti ordini di argomentazioni; ovvero, rispettivamente, inerenti alla violazione dell’obbligo di c.d. motivazione rafforzata, all’errata valutazione in ordine al grado delle esigenze cautelari e ai criteri della scelta della misura.
Il primo ordine di argomentazioni, inerente alla violazione del canone di motivazione rafforzata, non è fondato.
Sul punto, costituisce principio costantemente enunciato da questa Corte quello in base al quale -fatto salvo il solo caso particolare in cui il provvedimento di primo grado abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice (Sez. 6, Sentenza n. 11732 del 23/11/2022, dep. 2023, S., Rv. 284472) – il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679); parlandosi, in questo caso, di obbligo di una motivazione ‘rafforzata’, che specificamente consiste nella compiuta indicazion e delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore e da rispettare, in tale modo, il canone dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’ (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 262261, tra le altre, principio evidentemente proprio della fase di cognizione).
A propria volta, tali canoni di valutazione sono stati ritenuti applicabili anche alla specifica materia dell’appello cautelare, in particolare quando gli elementi fattuali sottoposti al giudice dell’impugnazione siano coincidenti con quelli sottoposti al giudice procedente (Sez. 1, n. 47361 del 09/11/2022, COGNOME, Rv. 283784; Sez. 6, n. 17581 del 08/02/2017, Pepe, Rv. 269827); anche se, secondo altro orientamento pure avallato da recenti pronunce, la riforma sfavorevole
all’indagato del provvedimento del giudice della cautela non impone una motivazione rafforzata in quanto è sufficiente che il giudice d’appello cautelare compia una valutazione totale, autonoma e completa degli elementi addotti dalle parti nel contraddittorio pieno, confrontandosi con gli argomenti che fondano la decisione impugnata, in quanto, diversamente da quanto richiesto nel giudizio di merito, non è necessaria la dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della insostenibilità della soluzione adottata dal primo giudice (Sez. 3, n. 31022 del 22/03/2023, COGNOME, Rv. 284982 -04; Sez. 5, n. 28580 del 22/09/2020, NOME., Rv. 279593).
Alla luce dei predetti principi, deve ritenersi che il Tribunale si sia pienamente attenuto ai necessari canoni di raffronto con le argomentazioni, comunque di rango sostanzialmente sintetico, operate da parte del giudice procedente, provvedendo a una loro analitica e specifica confutazione tanto in punto di sussistenza e grado delle esigenze cautelari quanto in ordine alla proporzionalità e adeguatezza della misura.
Il profilo di impugnazione con il quale è stata contestata la valutazione del Tribunale distrettuale in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari non è fondato.
A tale proposito -come peraltro sottolineato nell’esposizione del motivo di ricorso -il Tribunale procedente aveva preso in considerazione, in favore dell’imputato, gli elementi rappresentati, in primis , dal tempo trascorso dall’applicazione della misura e ulteriormente avvalorati (pure assumendo quale presupposto negativo il considerevole periodo di latitanza antecedente all’esecuzione della misura cautelare) dal l’emersione di una posizione non apicale all’interno dell’associazione e dalla condotta processuale collaborativa, con valorizzazione, infine, dell’arco di tempo trascorso dalla data della cessazione dell’attività associativa, collocabile nel dicembre 2018, ritenuto tale da non potere ‘non incidere sul quadro cautelare’.
Il relativo profilo di doglianza è infondato, avendo il Tribunale distrettuale adeguatamente confutato, con argomenti logici e consequenziali, le valutazioni compiute da parte del giudice procedente.
Sul punto, il giudice dell’appello cautelare ha dato adeguatamente conto della lettura giurisprudenziale specificamente relativa alla rilevanza del fattore tempo , rispetto all’epoca dei fatti ascritti, in riferimento ai soggetti sottoposti a indagine per i reati previsti dall’art.275, comma 3, cod.proc.pen. (tra cui rientra l’art.74, T.U. stup.) e per i quali opera una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari.
In materia, questa Corte ha evidenziato che la presunzione relativa di pericolosità sociale posta dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. determina la necessità che il giudice, senza dover dar conto della ricorrenza dei pericula libertatis , si limiti ad apprezzare le ragioni della sua esclusione, ove queste siano state evidenziate dalla parte o siano direttamente evincibili dagli atti, tra le quali, in particolare, rilevano sia il fattore “tempo trascorso dai fatti”, che deve essere parametrato alla gravità della condotta, sia la rescissione dei legami con il sodalizio di appartenenza, desumibile da indicatori concreti, quali le attività risocializzanti svolte in regime carcerario, volte al reinserimento nel circuito lavorativo lecito, nonché l’assenza di comportamenti criminali (Sez. 5, n. 806 del 27/09/2023, dep. 2024, S., Rv. 285879; Sez. 5, n. 36891 del 23/10/2020, Quaceci, Rv. 280471).
Si tratta di lettura giurisprudenziale dalla quale il Tribunale ha coerentemente dedotto che il mero fattore tempo costituisce solo uno degli elementi valutabili dal giudice della cautela e che lo stesso assume, quindi, una valenza del tutto ‘neutra’ qualora non accompagnato da ulteriori fattori positivi idonei a indurre una attenuazione del quadro cautelare; e dovendosi, anzi, evidenziare che -secondo una lettura più rigorosa -atteso che la disposizione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., è prevalente, in quanto speciale, rispetto alla norma generale stabilita dall’art. 274 cod. proc. pen., ne consegue che se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. detta presunzione fa ritenere sussistente, salvo prova contraria, non desumibile dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, i caratteri di attualità e concretezza del pericolo (Sez. 2, n. 24553 del 22/03/2024, COGNOME, Rv. 286698; Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, COGNOME, Rv. 282766).
Ma, d’altra parte, il Tribunale ha congruamente evidenziato che vertendosi nella fase subprocedimentale relativa alla richiesta di revoca o di sostituzione di una misura già applicata – il c.d. “tempo silente” trascorso dalla commissione del reato non costituisce oggetto di valutazione, atteso che l’unico tempo che assume rilievo è quello trascorso dall’applicazione o dall’esecuzione della misura, siccome qualificabile, in presenza di ulteriori elementi di valutazione, come fatto sopravvenuto da cui poter desumere il venir meno ovvero l’attenuazione delle originarie esigenze cautelari; ciò in quanto il tempo trascorso dalla commissione del reato deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., da parte del solo giudice che emette l’ordinanza che dispone la misura cautelare (Sez. 2, n. 47120 del 04/11/2021, Attento, Rv. 282590; Sez. 2, n. 12807 del 19/02/2020, Barbaro, Rv. 278999).
Tanto premesso, quindi, devono ritenersi del tutto consequenziali le argomentazioni addotte dal Tribunale in punto di permanente sussistenza delle esigenze cautelari, operate attraverso un puntuale confronto con la motivazione
dell’ordinanza impugnata e in riferimento a fattori posti alla base del successivo motivo di ricorso.
In particolare -previa valutazione della brevità del tempo trascorso dalla data di effettiva esecuzione della misura -il Tribunale distrettuale ha evidenziato che alcuna valenza potesse essere attribuita al comportamento processuale tenuto dall’imputato, atteso che non può riconoscersi il significato di una valenza ‘collaborativa’ rispetto all’esercizio di alcune facoltà processuali inerenti alla rinuncia all’escussione di alcuni testi e al consenso all’acquisizione dei brogliacci delle intercettazioni telefoniche, in quanto non ritenuto il frutto di una vera e propria dissociazione dal contesto criminoso e non comportante l’acquisizione di alcun effettivo elemento di novità rispetto alle indagini; aggiungendo, quale elemento rafforzativo, quello in forza del quale, al momento dell’esercizio di tali facoltà difensive, l’imputato risultasse ancora latitante.
Si tratta di conclusione, quindi, conforme ai principi elaborati da questa Corte, in base ai quali ai fini della revoca di misura cautelare personale, la condotta collaborativa dell’indagato non può comportare, di per sé sola, una riduzione della pericolosità sociale e condurre a un automatismo valutativo delle esigenze cautelari che sostituisca il puntuale accertamento della concreta realtà di fatto, riservato al giudice di merito (Sez. 1, n. 3488 del 02/12/2009, dep.2010, Rana, Rv. 245984; in senso conforme, Sez. 1, n. 9417 del 22/01/2019, Mandrillo, Rv. 276169).
D’altra parte, il Tribunale distrettuale ha pure evidenziato con valutazione riferita a elementi fattuali sopravvenuti -che l’imputato risultava essere stato destinatario di una sentenza di condanna divenuta definitiva il 05/12/2023 per fatti commessi dopo il dedotto scioglimento del sodalizio e che la valutazione del presunto ruolo non apicale ivi tenuto non poteva automaticamente comportare -attesa la condotta contestata nel capo di imputazione, ovvero quello di essere stabile fornitore di stupefacente nei confronti del sodalizio -un giudizio di marginalità.
In conclusione, deve ritenersi che il Tribunale abbia operato una valutazione sinottica del fattore temporale con tutti gli altri necessari elementi di valutazione, del tutto coerente con i principi applicabili nel caso di specie in punto di sussistenza delle esigenze cautelari e di non superamento della presunzione derivante ex lege di adeguatezza della sola misura maggiormente afflittiva .
Deve ritenersi infondato anche il punto di doglianza attinente alla scelta della misura.
Sul punto, va ribadito che, in relazione alla fattispecie associativa contestata ai sensi dell’art.74, T.U. stup., vige in materia la c.d. doppia
presunzione dettata dall’art.275, comma 3, cod.proc.pen., il quale prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati elencati nell’art.51, comma 3 bis , cod.proc.pen. (tra cui rientra quello contestato nella presente sede) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Rilevando, quindi, che il giudice che ritenga non vinta tale presunzione può limitarsi a dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a superarla, dovendo fornire specifica motivazione soltanto quando la difesa abbia evidenziato circostanze idonee a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari e/o abbia dedotto l’esistenza di elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere tutelate con misure diverse (Sez. 3, n. 48706 del 25/11/2015, J.A., Rv. 266029).
Presunzione di adeguatezza in relazione alla quale valgono, per la rilevanza del fattore temporale, le medesime considerazioni sopra svolta in ordine al suo carattere sostanzialmente neutro e alla necessaria sussistenza di elementi sopravvenuti idonei a di mostrare l’eventuale adeguatezza di una misura di minore rigore.
Nel caso di specie -a fronte di una motivazione del giudice procedente facente, pressoché in via esclusiva, riferimento al fattore tempo -il giudice dell’appello ha dato congruamente conto, con valutazione non illogica, di specifici elementi fattuali tali da far ritenere non superata la predetta presunzione di adeguatezza.
In particolare, il Collegio ha evidenziato che -nel regime di applicazione degli arresti domiciliari relativi a pregresso procedimento -l’imputato aveva ripetutamente violato le prescrizioni imposte mantenendo continui contatti, telefonici e diretti, con soggetti coinvolti in dinamiche criminali, emergendo quindi la capacità di curare i propri interessi illeciti anche in regime di restrizione, peraltro sofferta in Comune (quello di Milano) molto distante rispetto a quello di esecuzione della misura applicata del Tribunale, sito in Cerignola, ovvero il luogo ove si assumevano poste in essere le condotte illecite ascritte al prevenuto.
D’altra parte, il giudice dell’appello ha congruamente rilevato il dato non decisivo ricavabile dal rispetto delle prescrizioni imposte, trattandosi di fattore valorizzabile solo nel quadro di un arco temporale adeguatamente esteso; il tutto in coerenza con il principio per cui l’attenuazione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal mero decorso del tempo di esecuzione pur se accompagnato dalla corretta osservanza dei relativi obblighi, i quali costituiscono parte del nucleo essenziale della misura che si chiede di rimodulare (Sez. 5, n. 45843 del 14/06/2018, D., Rv. 274133).
Mentre, come evidenziato dal Tribunale, non assume rilievo il dato dell’avvenuta concessione degli arresti domiciliari nei confronti di coimputati del medesimo reato, essendo il regime cautelare applicabile comunque necessariamente presupponente una valutazione individualizzata, alla quale il giudice dell’appello non si è in alcun modo sottratto.
Infine, deve ritenersi infondata l’ulteriore deduzione difensiva spiegata nell’unitario motivo di ricorso e in base alla quale la decisione del giudice dell’appello sarebbe stata fondata anche su elementi documentali nuovi rispetto a quelli valutati in sede di istanza di sostituzione.
Ricordando, a tale proposito, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto che nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto di appello (Sez. U, n. 15403 del 30/11/2023, dep 2024, COGNOME, Rv. 286155).
Rilevando, in ogni caso, che la censura si appalesa del tutto aspecifica; non avendo il ricorrente individuato il contenuto degli elementi documentali suddetti e la loro effettiva incidenza ai fini della decisione.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Segue altresì la trasmissione degli atti alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg.es. cod.proc.pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28, reg.es. cod. proc. pen..
Così deciso il 18 settembre 2025
Il Consigliere estensore La Presidente NOME COGNOME