Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20018 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20018 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: dalla parte civile COGNOME nato a AGROPOLI il 07/02/1980 nel procedimento a carico di: NOME COGNOME nato a AGROPOLI il 06/11/1986 NOME COGNOME nato a POLLA il 22/07/1985 COGNOME nato a SARNO il 07/07/1981 nel procedimento a carico di questi ultimi
avverso la sentenza del 06/05/2024 della CORTE APPELLO di SALERNO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto P.G. COGNOME che conclude per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di COGNOME e COGNOME nonché nei confronti di COGNOME limitatamente ai capi 2, 3 e 4 con riferimento, per quest’ultimo reato, alla condotta del 05/12/2017; rigetto nel resto del ricorso di COGNOME e inammissibilità del ricorso della parte civile.
uditi i difensori:
L’avvocato COGNOME in difesa della parte civile COGNOME chiede il rigetto dei ricorsi , si riporta alle conclusioni scritte che deposita unitamente alla not spese.
L’avvocato COGNOME in difesa di NOME COGNOME, l’avvocato COGNOME in difesa di NOME COGNOME e l’avvocato COGNOME in difesa di NOME COGNOME insistono per l’accoglimento dei ricorsi.
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RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME e NOME COGNOME a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, ricorrono per cassazione avverso la sentenza in data 6 maggio 2024 della Corte di appello di Salerno (fascicolo pervenuto in Corte di cassazione 1’8 gennaio 2025) che, in riforma della sentenza del Tribunale di Salerno, li ha condannati in ordine ai reati di cui ai capi 2 (artt. 110, 56-629, commi 1 e 2 in relaz. all’art. 628, commi 3 e n. 3-bis, cod. pen.) e 3 (artt. 110 cod. pen., 10 e 12 legge n. 497 del 1974 e 61 n. 2 cod. pen.), da cui erano stati assolti all’esito del giudizio di primo grado. La Corte di appello ha, invece, confermato, quanto al reato di cui al capo 2), l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso nel senso già ritenuto dal Tribunale.
La Corte territoriale ha poi confermato l’affermazione di responsabilità, anche agli effetti civili, nei confronti di NOME COGNOME in ordine ai reati di cui ai ca (artt. 81 cpv., 56-629 cod. pen.), 4 (art. 81 cpv., 513-bis cod. pen.), e 5 (art. 697 cod. pen., capo non oggetto di appello e di ricorso per cassazione).
Tutti e tre gli imputati sono stati, altresì, condannati, in relazione ai capi 2) 3) in solido tra loro al risarcimento del danno cagionato alla parte civile NOME e alle spese di giudizio.
Ricorre per cassazione anche il difensore e patrono della parte civile COGNOME COGNOME nella parte in cui la sentenza della Corte d’appello ha escluso l’aggravante del metodo mafioso in relazione ai reati di cui ai capi 1) e 2).
I difensori degli imputati affidano i ricorsi a diversi motivi, in par sovrapponibili, che ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Ricorso dell’avv. NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME (capi 1 e 4 conferma; capi 2 e 3 riforma in punto di responsabilità; capo 5 non oggetto di ricorso, già coperto da giudicato).
4.1. Inosservanza dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., “per avere la Corte d’appello adeguato il fatto contestato al capo 2) ad un nuovo ragionamento probatorio senza avvedersi della modifica sostanziale del fatto, con grave detrimento sul diritto al contraddittorio dell’imputato”.
Premesso che anche la Corte d’appello aveva confermato l’assoluzione del coimputato COGNOME additato nell’imputazione come colui che avrebbe fornito l’arma al COGNOME e al COGNOME per esplodere i colpi di arma da fuoco contro l’autovettura della p.o. (la perizia balistica aveva, infatti, escluso che il fucil possesso dello COGNOME fosse stata utilizzata nella presunta azione di fuoco), si lamenta che la Corte di appello, escludendo financo che COGNOME e COGNOME siano stati gli esecutori materiali, relegandoli al ruolo di vedette, introducendo quale
autore un altro ignoto complice (che avrebbe sparato con un solo fucile), abbia finito per operare una trasformazione radicale del fatto, in modo del tutto incompatibile ed eterogeneo con la contestazione, con conseguente lesione del diritto di difesa considerato che l’immutatio facti non si prestava ad essere prevedibile anche per il ricorrente che è ritenuto il mandante dell’azione delittuosa.
4.2. Violazione degli artt. 178, comma 1, lett. c), 180 e 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., 6 CEDU, in relazione alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sui temi trattati con la consulenza tecnica.
4.2.1. Vizio di motivazione in relazione agli argomenti utilizzati per superare le obiezioni poste dalla consulenza tecnica (premesse fattuali apparenti, ricorso a petizioni di principio, conclusioni attraverso leggi scientifiche prive di copertura).
La censura attiene al mancato rispetto dell’obbligo di rinnovazione istruttoria in ordine all’esclusione della valenza della principale fonte di prova a discarico costituita dagli esiti della consulenza della difesa che aveva financo escluso che l’autovettura della p.o. fosse stata attinta ckfolpi di arma da fuoco nelle circostanze di cui al capo di imputazione, le cui conclusioni erano state ritenute non idonee. La verifica o l’erroneo utilizzo del metodo scientifico a cui era ricorso il consulente di parte avrebbe dovuto imporre la rinnovazione della prova. Né risultava confacente, in quanto fondata anche su un dato travisato e su elementi non supportati da dati fattuali certi, la motivazione resa dalla sentenza impugnata per superare le conclusioni a cui era pervenuto il perito di parte.
4.3. Violazione del principio dell’obbligo di motivazione rafforzata, non avendo il percorso argomentativo seguito dalla Corte d’appello confutato specificamente e in modo adeguato i capisaldi della decisione assolutoria, né fatto ricorso ad argomenti di maggiore efficacia persuasiva rispetto a quelli indicati dal Tribunale.
La difesa passa anzitutto in rassegna (alle pagine 17-29 del ricorso) le argomentazioni in forza dei quali il primo giudice aveva disconosciuto rilievo probatorio agli elementi, per lo più indiziari, posti a fondamento della ricostruzione accusatoria, evidenziando come la sentenza impugnata abbia svalutato con una motivazione non persuasiva il giudizio operato dal Tribunale, soffermandosi sull’aporia costituita dall’avere introdotto la Corte di merito, al fine di confutare la conclusione dei primi giudici, una ricostruzione alternativa dello svolgersi della vicenda e del ruolo che i protagonisti avrebbero svolto frutto di un ragionamento astratto privo delle necessarie informazioni fattuali di riferimento e financo fondato su vistosi difetti di informazione (29-36).
4.4. Vizio di motivazione rafforzata nella parte in cui la sentenza impugnata aveva omesso di confrontarsi con i contributi offerti dalla difesa, anche a mezzo di memoria, in ordine agli esiti di consulenza che escludevano che l’autovettura della p.o. fosse stata attinta da colpi di arma da fuoco nelle circostanze di tempo e di
4- luogo di cui al capo di imputazione, con conseguente violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 546 lett. e) cod. proc. pen.
4.5. Vizio di motivazione sulla coartazione subita dalla vittima e sulla non equivocità degli atti posti in essere.
La censura attiene alla qualificazione giuridica del fatto: materialmente si era al cospetto di un danneggiamento aggravato; la sussunzione del fatto nell’alveo estorsivo avrebbe richiesto da un lato che si desse conto che la vittima, in conseguenza dell’azione, si fosse sentita coartata e, dall’altro, che la condotta fosse univocamente volta a costringerla ad abbandonare il mercato dei prodotti ittici, quale atto di disposizione patrimoniale (al riguardo si precisa che il COGNOME aveva ammesso nell’immediatezza di aver temuto di essere vittima di rapina).
4.6. Vizio di motivazione (carenza) “in ordine alle censure di merito poste con i motivi di appello ed in grado – se valutate – di sovvertire l’esito del giudizio, sia quanto a ricostruzione fattuale che con riferimento a più corretta sussunzione del fatto”.
Il motivo investe l’affermazione di responsabilità in ordine al capo 1) della rubrica e, in particolare, si censura la valenza confermativa alle dichiarazioni della p.o. che i giudici di merito avevano ritenuto di ricavare dalle dichiarazioni del teste COGNOME, della figlia NOME e del COGNOME.
Difettava, poi, il profitto illecito dell’estorsione se considerato come volontà del ricorrente di accaparrarsi quote di mercato, dovendosi semmai la condotta inquadrarsi nell’alveo dell’art. 513-bis cod. pen.
Ricorso dell’avv. NOME COGNOME (poi revocato nelle more del procedimento di legittimità) nell’interesse di NOME COGNOME
5.1. Inosservanza dell’art. 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. per non avere dichiarato inammissibile l’appello del pubblico ministero, in quanto proposto oltre il termine di cui all’art. 585, comma 2, lett. c) cod proc. pen.
5.2. Vizio di motivazione in ordine alla configurazione quale minaccia costitutiva della tentata estorsione e dell’illecita concorrenza (capi 1 e 4 della rubrica) delle prospettazioni rivolte dall’imputato a COGNOME NOME e NOME, rispettivamente negli incontri di fine agosto e ottobre 2017.
In particolare, la censura fa leva sulla circostanza che fosse stato disatteso il tema se le prospettazioni rivolte dall’imputato ai fratelli COGNOME (connesse all’ingresso di questi ultimi nel mercato ittico di Salerno) potessero assumere valenza di minaccia in quanto non dipendenti dalla sua volontà, né da lui stesso realizzabili, posto che era la stessa sentenza impugnata ad avere rappresentato che il male futuro poteva essere realizzato da persone che frequentavano il mercato ittico.
5.3. Erronea interpretazione dell’art. 629 cod. pen. nella parte in cui si sono
ravvisate due condotte di tentata estorsione nei due episodi ascritti all’imputato al capo 1) dell’imputazione.
Si era dato rilievo, a fini dell’esclusione dell’unitarietà del reato, alla distan temporale delle due condotte, di circa un mese una dall’altra e alla diversità dei soggetti destinatari, dovendosi, invece, valorizzare il parametro dell’unicità del fine sottostante alle plurime minacce, tanto più che la COGNOME NOME non era la diretta destinataria della minaccia, bensì solo un veicolo per far recapitare il messaggio agli effetti destinatari (COGNOME NOME e COGNOME NOME).
5.4. Vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità del ricorrente nei reati di cui ai capi 2) e 3) della rubrica.
Memoria con motivi nuovi nell’interesse di NOME COGNOME presentata dall’avv. NOME COGNOMEnominato a seguito di revoca dell’avv. COGNOME).
6.1. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione tra esclusione del metodo mafioso e incongruenze argomentative in relazione alla tentata estorsione di cui al capo 1) della rubrica.
In particolare, si era esclusa la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso sul rilievo che NOME non aveva pronunciato alcuna minaccia mafiosa, essendosi piuttosto limitato ad avvertire i COGNOME che l’ingresso nel mercato di Salerno non sarebbe stato affatto conveniente, in quanto la malavita locale gli avrebbe richiesto il pagamento di un obolo idoneo a condizionare l’economicità dell’attività di impresa. L’esclusione in parola si poneva, però, in manifesto contrasto con la conferma dell’ipotesi estorsiva: l’editto accusatorio è infatti formulato in modo circolare, vale a dire che la presunta intimidazione ex art. 629 cod. pen. si risolve nella contestazione dell’aggravante mafiosa, e viceversa, e quindi ritenere integrata l’estorsione, escludendone il carattere mafioso, priva inesorabilmente la minaccia della “mafiosità” in cui però si sostanzia la vis costrittiva per cui è condanna.
Inoltre, le sentenze di merito offrivano due valutazioni inconciliabili: nell’escludere l’aggravante, le parole del Mauro assumono la consistenza di una denuncia accorata sul malcostume del “pizzo” che i mercanti erano costretti a pagare, mentre con riferimento alla tentata estorsione gli stessi epiteti acquistano nuovamente la sinistra dignità di una minaccia mafiosa, come tale idonea a condizionare la scelta del COGNOME di fare ingresso nel mercato.
Il male minacciato (pagare il pizzo) era rappresentato come gestito autonomamente dalla malavita, senza alcun apporto – reale o millantato – da parte del Mauro. Quindi l’oggetto della minaccia non dipendeva dalla volontà del ricorrente. In tale dinamica posto che l’imposizione del pizzo non dipendeva dalla volontà del ricorrente, si sarebbe dovuto ricondurre il fatto nell’alveo di fattispecie meno gravi quali la cd. truffa vessatoria aggravata.
Gli avvertimenti del ricorrente, poi, erano privi di reale efficacia coercitiva per come riscontrato dal fatto che i COGNOME decisero comunque di entrare nel mercato, nonché di nesso eziologico con il danno che quest’ultimi avrebbero subito, in quanto il detrimento – consistente nel pagamento del pizzo – non sarebbe dipeso dalla volontà del ricorrente.
Si lamenta, infine, l’erronea interpretazione dell’art. 629 cod. pen. nella parte in cui si sono ravvisate due condotte di tentata estorsione nei due episodi ascritti all’imputato al capo 1) dell’imputazione (sul punto può farsi integrale riferimento all’analogo motivo speso sub 5.3. dal codifensore).
6.2. Violazione degli artt. 192 e 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. e vizio di motivazione con riferimento ai motivi rispettivamente numero 4 ricorso avv. COGNOME e 3, 4 e 5 ricorso dell’avv. COGNOME
Il motivo attiene alla riforma della sentenza assolutoria con riguardo alla vicenda relativa all’agguato che avrebbe subito la p.o. il 5 dicembre 2017 ed oggetto delle contestazioni di cui ai capi 2) e 3) della rubrica.
Richiamati gli argomenti in forza dei quali il primo giudice era pervenuto ad un giudizio assolutorio (v. pagg. 10-13) si lamenta la violazione del principio della motivazione rafforzata per come sancito dalla giurisprudenza di legittimità espresso anche a Sezioni unite.
In particolare, la Corte d’appello, anziché operare un puntuale confronto con gli esiti conseguiti dal Tribunale al fine di metterne in luce le carenze argomentative, era ricorsa all’elaborazione di ipotesi inedite e congetturali non solo prive di riscontro indiziario, ma financo operando una alternativa ricostruzione accusatoria del fatto non assentita dal capo di imputazione.
Passata in rassegna l’assenza di decisività indiziaria degli elementi additati dalla Corte di merito a fondamento dell’overturning sfavorevole, la memoria affronta anche la mancanza di decisivo rilievo attribuito all’esistenza del movente economico pure accertato dal primo giudice, in ipotesi valorizzare quale epilogo della valutazione probatoria ma mai il punto di partenza.
6.3. Violazione degli artt. 81, 629 e 513-bis cod. pen. e vizio di motivazione con riferimento al primo motivo di ricorso dell’avv. COGNOME e del settimo motivo del ricorso dell’avv. COGNOME
Il motivo attiene alla riconosciuta sussistenza del delitto di illecita concorrenza con violenza e minaccia di cui al capo 4) e al concorso formale con l’estorsione.
La censura attiene al mancato assorbimento del delitto estorsivo nel reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. tenuto conto che la vicenda, per come descritta dai giudici di merito, rivela una dinamica concorrenziale già tutelata da quest’ultima disposizione.
Ai fini della configurabilità dell’estorsione, in particolare, si evidenzia come
non sia sufficiente individuare la presenza del comune segmento di condotta che realizza l’allontanamento coattivo di un concorrente, ma è necessario che sia ravvisabile in concreto l’ulteriore elemento rappresentato dal verificarsi di un evento pregiudizievole per il patrimonio della persona offesa, in conseguenza di un atto dispositivo o, comunque, del trasferimento di un bene o di un’altra utilità dal soggetto passivo a quello attivo.
Ben diverso è, invece, il caso oggi sub iudice, nel quale all’evidenza non ricorrono gli estremi del delitto di estorsione – e quindi il concorso tra le du fattispecie – perché difetta l’evento del profitto ingiusto con altrui danno.
Orbene, nella facoltà di acquistare le quote della società RAGIONE_SOCIALE non può ravvisarsi un elemento attivo del patrimonio dei COGNOME, che a fronte della condotta del Mauro non subivano la necessaria deminutio patrimoniale utile a integrare, oltre al reato di illecita concorrenza, anche il delitto di estorsione.
L’allontanamento coatto di un potenziale acquirente non realizza un atto di disposi-zione patrimoniale con il trasferimento di un bene o altre utilità dal soggetto passivo a quello attivo.
Né la vicenda estorsiva può tradursi nella perdita di chance che avrebbe avuto il COGNOME nel vedersi impedito l’acquisto del banco al mercato, con il conseguente e ipotetico maggiore profitto che NOME avrebbe potuto conseguire in assenza del concorrente, trattandosi di eventi astratti e ipotetici, condizionati da innumerevoli ulteriori variabili e come tali insuscettibili di integrare il precetto criminoso.
Queste ultime, poi, sono dinamiche concorrenziali già tutelate dall’art. 513bis cod. pen.
Ricorso di COGNOME NOME COGNOMEin riforma della sentenza assolutoria, condanna in relazione ai capi 2 e 3).
7.1. Inosservanza dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla valutazione degli elementi indiziari indicati a corredo dell’affermazione di responsabilità e violazione dell’art. 603-comma 3-bis, cod. proc. pen., stante la mancata rinnovazione delle prove dichiarative ritenute decisive di cui era stata operata una differente valutazione.
La censura investe anzitutto il rilievo che la Corte d’appello aveva attribuito al dato – costituito dalla presenza del ricorrente, unitamente al NOME, a distanza di 537 metri dal /ocus commissi delicti la sera del fatto – che era stato ricavato dal dichiarato testimoniale del COGNOME NOME, del COGNOME NOME e del COGNOME NOME (in particolare, i testi avrebbero dichiarato di avere visto l’auto degli imputati pochi minuti prima del passaggio di quella della vittima).
In realtà, posto che il Tribunale di Salerno aveva escluso che tali prove dichiarative confermassero la presenza dell’imputato e del COGNOME in prossimità del luogo ove è avvenuto il fatto, ciò avrebbe imposto la riassunzione della prova,
avendo proceduto la Corte d’appello ad una diversa valutazione del portato di tali testimonianze.
Si lamenta, altresì, la violazione dei canoni valutativi della prova con riguardo alle dichiarazioni della p.o., posto che il COGNOME NOME, pur avendo riferito di avere notato un’Audi TT di colore grigio chiaro e con i cerchioni scuri parcheggiata circa 500 metri prima del luogo in cui la sua auto sarebbe stata attinta da colpi di arma da fuoco, aveva specificato al dibattimento, contrariamente a quanto riferito nelle prime s.i. (poi subito corrette in un verbale successivo), di non essere in grado di identificare le persone che si trovavano a bordo.
Si segnalano, poi, altre aporie nella valutazione della prova: la Corte di appello aveva attribuito valenza determinante ai risultati dei tabulati telefonici, pu ammettendo implicitamente che tali dati non fornivano indicazioni precise sulla posizione degli imputati; si era ignorato il dato a discarico costituito dall’assenza di tracce evidenti nelle riprese delle telecamere di sorveglianza.
7.2. Vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità che era stata ricavata sulla scorta di elementi indiziari oggetto di una valutazione contraria all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., nonché col ricorso ad argomentazioni di carattere apodittico.
Si era dato risalto all’esito degli accertamenti sulle celle telefoniche al fine d collocare l’imputato ed il correo sul luogo del fatto (precisamente a 537 metri dalla rotatoria incriminata), nonostante gli stessi testi di P.G. avessero attribuito a quel dato valenza non univoca al fine di stabilire l’esatto percorso compiuto e gli imputati avessero dichiarato di trovarsi nelle vicinanze (presso il mercato ittico di Salerno) in quelle circostanze di tempo. Sul punto maggiormente persuasive e aderenti alle emergenze processuali erano state le conclusioni in termini di assenza di decisività di tale indizio operate dai giudici di primo grado.
Anche il riferimento contenuto nella sentenza agli esiti restituiti dalla visione delle immagini tratte dagli impianti di video sorveglianza, citato dalla Corte d’appello a riscontro della presenza degli imputati sul luogo del fatto, si prestava a rilievi non solo per i riferimenti approssimativi contenuti nella valutazione della prova (dalle immagini si intravede tutt’al più la sagoma di un’auto), tenuto conto che la valenza di tale prova ai fini della certa individuazione dell’auto in uso agli imputati era stata esclusa dal giudice di primo grado previo esame del video e delle immagini estrapolate nel contraddittorio delle parti. Peraltro, il dato probatorio era stato anche travisato, posto che l’autovettura per quanto statuito dalla Corte di merito si dirigeva in direzione opposta alla telecamera, ovvero verso Capaccio, e non invece verso Salerno, così ponendosi in insanabile contrasto con l’ulteriore dato dell’arrivo degli imputati, come da costoro ammesso, presso il mercato ittico alle ore 4:00 del mattino.
Del tutto assertiva, poi, era la ricostruzione che, dinanzi al deficit probatorio in ordine al ruolo di esecutori materiali che il ricorrente ed il NOME avrebbero svolto, vede invece attribuir loro quello di vedette, individuando in un terzo ignoto colui che avrebbe fatto ai danni dell’auto della p.o.
Parimenti, si sostiene, in ordine alla lacuna relativa alla mancata registrazione di chiamate al momento del fatto – che sarebbe stato logico attendersi tra soggetti a cui è attribuito il ruolo di vedette – sull’utenza telefonica dell’imputato, che Corte d’appello aveva colmato facendo riferimento al dato del tutto indimostrato dell’uso di walkie talkie.
Analogamente con riguardo al motivo per cui i due si erano recati dal NOME, presso il mercato ittico di Salerno, ricondotto alla richiesta del versamento di quanto pattuito per l’operazione estorsiva, disattendendo il dato pure favorevole che gli imputati, pure avendo scorto il COGNOME che li si era subito portato dopo l’agguato, anziché allontanarsi permanevano al cospetto delle telecamere.
Ricorso di NOME
8.1. Carenza di motivazione rafforzata.
Nel ripercorrere gli esiti assolutori cui era giunto il Tribunale (indicati in be quattrodici ragioni), si lamenta l’assenza nella motivazione dotata di una forza persuasiva superiore resa dalla Corte d’appello a sostegno del ribaltamento della pronuncia di primo grado, rilevandosi l’inconferenza degli elementi ritenuti decisivi dalla Corte di merito, quali la certa presenza dell’auto in uso agli imputati al momento del fatto e all’essersi recati, dopo l’agguato, presso il mercato ittico ove erano stati visti colloquiare con il NOMECOGNOME indicato quale presunto mandante.
8.2. Inosservanza dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. stante l’assenza di correlazione tra l’imputazione e il fatto per come ricostruito nella sentenza impugnata, sulla scorta di fatti nuovi mai rilevati dal dibattimento o dai gravami presentati.
8.3. Inosservanza dell’art. 526 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta presenza di un terzo ignoto quale autore materiale dell’esplosione dei colpi, a fronte dell’assoluta insussistenza di una discendenza dibattimentale della già menzionata circostanza, in quanto mai sottoposta previamente alla dialettica processuale e, dunque, inutilizzabile a sostegno della decisione.
Ricorso della parte civile COGNOME NOME.
9.1. Inosservanza ed erronea applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nella declinazione del metodo, in relazione ai reati di cui ai capi 1) e 2) della rubrica.
In particolare, si sostiene che anche la sentenza impugnata, nell’escludere l’aggravante speciale in relazione ai due episodi estorsivi, abbia fatto mal governo
dei principi affermati in materia dalla Corte di legittimità in ordine ai presuppost per affermarne la sussistenza e alla natura oggettiva da riconoscersi a detto elemento circostanziale. Si rappresenta, inoltre, che l’evocazione della destinazione dei profitti che il Mauro conseguiva alla criminalità organizzata per il mantenimento delle famiglie dei carcerati era elemento idoneo ad ingenerare nella persona offesa quel particolare assoggettamento e coartazione psicologica e, dunque, quegli stati soggettivi tipici dell’aggravante del cd. metodo mafioso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente va esaminato il primo motivo sollevato dalla difesa di NOME COGNOME (avv. COGNOME), avente carattere pregiudiziale, in quanto si deduce la tardività dell’appello presentato dal pubblico ministero con riferimento all’assoluzione dell’imputato dai reati di cui ai capi 2) e 3) della rubrica (motivo estensibile ai presunti correi COGNOME e NOME COGNOME analogamente destinatari dell’impugnazione della pubblica accusa).
La difesa, infatti, assume la tardività dell’appello sul rilievo che il dies a quo per impugnare dovrebbe cominciare a decorrere dalla scadenza del termine stabilito dal giudice per il deposito della sentenza e non dal giorno successivo in applicazione della regola dies a quo non computatur.
La censura è manifestamente infondata alla luce dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di computo dei termini processuali, ai fini della tempestività dell’impugnazione, il termine per il deposito del gravame inizia a decorrere dal primo giorno successivo alla scadenza di quello previsto per il deposito della sentenza, in virtù del principio generale di cui all’art. 172, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 25598 del 27/05/2020, R., Rv. 279874 – 01; in termini con riferimento al caso di specie, con imputato presente al dibattimento e con riserva del termine di deposito, vedi anche Sez. 5, n. 30723 del 21/06/2021, S., Rv. 281683 – 01).
In ordine logico e seguendo il capo di imputazione vanno esaminati i motivi, sviluppati anche mediante la memoria difensiva dell’avv. COGNOME, relativi all’affermazione di responsabilità di NOME COGNOME in ordine alla tentata estorsione continuata di cui al capo 1) della rubrica.
2.1. Manifestamente infondate sono le censure articolate dalle difese nei motivi principali dei ricorsi (in particolare sub 4.6 e 5.2), dedotte anche sotto il profilo del travisamento della prova, con riguardo all’esistenza di una valida ed attendibile base probatoria a corredo dell’affermazione di responsabilità.
Le doglianze, infatti, tendono, anche mediante una lettura parcellizzata delle fonti di prova richiamate dai giudici di primo e secondo grado a sostegno del
giudizio di attendibilità del narrato svolto dalla principale persona offesa (COGNOME Augusto), a sollecitare una rivalutazione del risultato della prova, preclusa alla Corte di legittimità, a fronte di una motivazione che ha apprezzato in modo penetrante e congruo le dichiarazioni dell’offeso e ne ha ricercato elementi di conforto, rinvenendoli:
nelle altre fonti di prova dichiarative, anche ulteriori rispetto alle propalazion dell’altra parte offesa COGNOME COGNOME le quali non debbono essere dotate di valenza ‘autosufficiente’, altrimenti la prova si fonderebbe su tali elementi e non sulla testimonianza principale;
nel contenuto delle intercettazioni, da cui si è ricavato che l’imputato avesse risentimento e fastidio per l’attivismo del COGNOME a fare ingresso nel mercato ittico e, dunque, non fosse affatto vero che l’ingresso di un nuovo potenziale concorrente era per lui neutro o addirittura vantaggioso (v. pag. 46 della sentenza di primo grado). Tale giudizio è stato anche condotto alla luce delle spiegazioni fornite dall’imputato, ritenute non esaustive e inattendibili.
Il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito appare, quindi, conforme ai criteri dettati da questa Corte e secondo cui le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. – possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (ex multis Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104).
Infine, non va trascurato che la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, COGNOME, Rv. 257241).
2.2. Infondate risultano le censure relative alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto estorsivo di cui al capo 1), su cui si è compiutamente diffusa la memoria della difesa.
Invero, contrariamente a quanto prospettato, la minaccia rivolta dal ricorrente non si esaurisce nel ‘mero’ avvertimento delle conseguenze che il COGNOME (e il suo socio COGNOME) avrebbero subito laddove il primo avesse omesso di pagare il pizzo a cui erano, per come rappresentato dall’imputato, tenuti tutti coloro che lavoravano all’interno del mercato ittico del pesce di Salerno, ma si nutre, sia negli accadimenti modali che in punto di disvalore, di un quid pluris che ne sancisce piena autonomia rispetto alla prospettata necessità di mantenere le famiglie dei carcerati.
In particolare, l’intimazione si sostanzia anche nella declinazione “vedi che la zappa nell’orto degli altri non si mette, altrimenti ti possono capitare delle cose non buone” e, dunque, persegue anche il primario obiettivo – attraverso la prospettazione di un male ingiusto direttamente rivolto alla persona del COGNOME – di scansare un concorrente dalla vendita del congelato che era il settore di primario interesse del Mauro, per come ricavato dall’elemento – perfettamente logico rispetto alle conclusioni raggiunte – che fu reiteratamente il NOME a sollecitare dapprima un incontro con la p.o. e, successivamente anche con la sorella di questi che era fidanzata con l’altro socio (il COGNOME), coinvolto ne progetto del COGNOME NOME di acquisire la totalità delle quote della società di NOME COGNOME che già operava all’interno del mercato ittico.
Peraltro, precisano i giudici di merito, all’iniziale prospettazione minacciosa rivolta dal NOME al COGNOME NOME si accompagnò anche quella, avente carattere del tutto conseguenziale, contro la sorella, ove l’intimazione di riferire al fratello di ritirarsi e di non completare l’acquisto delle quote dell’COGNOME, accompagnata anche dal richiamo, senza ragione alcuna, alla circostanza che la donna e l’altro socio erano prossimi a sposarsi, affermazione dal chiaro contenuto minatorio, per come inteso dalla NOME che l’ha riferita alla possibilità che accadesse qualcosa anche al Coviello in caso di acquisto delle quote (sull’idoneità di tale riferimento a concretizzare la minaccia, va richiamato il consolidato orientamento di legittimità secondo cui non va trascurata la rilevanza da attribuire al contesto in cui le frasi sono proferite, in ordine alla loro potenzial capacità ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo; cfr. Sez. 5, n. 8193/2019; Sez. 6, n. 35593/2015; Sez. 5, n. 392 del 16/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278664 – 01).
Di conseguenza non si registra alcun corto circuito motivazionale nell’avere il giudice del merito escluso l’aggravante del metodo mafioso a corredo della minaccia inizialmente rivolta dal ricorrente al COGNOME, in quanto la circostanza che alcuni dei proventi della p.o. sarebbero stati destinati alla camorra non esaurisce i profili di disvalore e di danno alla persona a cui la minaccia era rivolta, in quanto eziologicamente diretta, in via primaria ed antecedente, a precludere l’ingresso e la permanenza del COGNOME in quel settore del mercato, con conseguente pregiudizio a carattere più ampio che avrebbe investito il valore delle quote della società che la p.o. ed il suo socio si apprestavano a rilevare, unitamente al progetto di riuscire comunque a vendere il pescato che avevano in precedenza acquistato per il Natale.
La minaccia, dunque, si nutre anche di propositi ingiusti che sono direttamente riferibili al ricorrente e dipendenti dalla sua volontà e, come tali prospettati e percepiti dalle persone offese con dirette ricadute nella loro sfera
giuridica e personale, a nulla valendo che queste abbiano continuato nel loro proposito, non solo e non tanto perché si è contestato il tentativo, ma perché, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 cod. pen., che costituisce re di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario neppure che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima (ex multis, v. Sez. 2 , n. 21684 del 12/02/2019, COGNOME, Rv. 275819 – 02; Sez. 1, n. 44128 del 03/05/2016, Nino, Rv. 268289 – 01).
2.3. Infondata è anche la censura volta a ricondurre i due episodi di cui al capo 1) ad un unico fatto estorsivo in virtù dell’unicità del fine che li accomuna.
Al riguardo, va precisato – e in ciò può concordarsi con la difesa – che in tema di tentativo di estorsione, il ripetersi delle minacce da parte dell’estortore non dà luogo, di per sé, ad una pluralità di reati, occorrendo prima accertare se ci si trovi in presenza di una azione unica o meno, e ciò alla stregua del duplice criterio: finalistico e temporale. Azione unica, infatti, non equivale ad atto unico, ben potendo la stessa essere composta da una molteplicità di “atti” che, in quanto diretti al conseguimento di un unico risultato, altro non sono che un frammento dell’azione, una modalità esecutiva della condotta delittuosa. L’unicità del fine a sua volta non basta per imprimere all’azione un carattere unitario essendo necessaria, la così detta contestualità, vale a dire l’immediato succedersi dei singoli atti, sì da rendere l’azione unica (in termini, v. Sez. 6, n. 2070 de 10/11/1994, dep. 1995, COGNOME, Rv. 200554 – 01).
Ne consegue che, in caso di estorsione tentata, i diversi conati posti in essere per procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonomi tentativi di reato, unificabili con il vincolo della continuazione, quando singolarmente considerati in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e soprattutto all’elemento temporale, appaiono dotati di una propria completa individualità. Mentre si ha un solo tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici atti di minaccia, allorché gli stessi, alla stregua dei criteri so enunciati, costituiscono singoli momenti di un’unica azione.
Nel caso in esame le minacce, seppur unitariamente riconducibili allo stesso disegno criminoso, sono state non solo rivolte contro due soggetti differenti (COGNOME NOME e NOME), ma neppure può ritenersi che quelle indirette ventilate ai danni della sorella del COGNOME fossero unicamente strumentali a coartare la volontà di costui, in quanto, per come spiegato dai giudici di merito, l’obiettivo avuto di mira passava anche attraverso la compromissione dell’area decisionale attribuita al COGNOME, socio del COGNOME nell’impresa e fidanzato, all’epoca dei fatti, con colei che risulta essere stata destinataria dell’ulterior
condotta minacciosa dell’imputato. La minaccia profferita nei confronti della COGNOME NOME si ammanta, pertanto, di connotati di disvalore propri che escludono trattarsi di un mero segmento di un’unitaria condotta tentata.
Correttamente, pertanto, i giudici di merito hanno ritenuto concorrere autonome ipotesi di reato, tentate, unificabili con il vincolo della continuazione, facendo applicazione del principio a mente del quale «quando le diverse condotte di violenza o minaccia poste in essere per procurarsi un ingiusto profitto, singolarmente considerate, in relazione alle circostanze del caso concreto, alle modalità di realizzazione e all’elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità» (Sez. 2, n. 37297 del 28/06/2019, C., Rv. 277513 – 01; Sez. 2, n. 23396 del 12/01/2017, COGNOME, Rv. 270310 – 01, nell’ipotesi in cui le condotte minacciose siano dirette nei confronti di diverse persone offese. In termini, da ultimo, Sez. 2, n. 41822 del 19/04/2024, COGNOME, n.m.).
Fondati risultano, invece, sotto diversi profili, i motivi dedotti dalle difese in ordine al ribaltamento del giudizio assolutorio a cui era giunto il Tribunale all’esito del processo di primo grado.
3.1. Anzitutto la sentenza impugnata incorre nella violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata a cui è tenuto il giudice di appello nel caso di ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado.
Al riguardo, è necessario ripercorrere le argomentazioni che hanno condotto il Tribunale a ritenere l’assenza di elementi di prova univocamente dimostrativi dell’attribuibilità agli imputati dell’agguato ai danni del Ferrigno Augusto verificatosi il 5 dicembre 2017.
Nella specie, il primo giudice, all’esito dell’istruttoria, ha rappresentato che: a) gli accertamenti balistici avevano escluso che i fucili trovati a casa di NOME COGNOME, originario coimputato additato di avere fornito al COGNOME e al COGNOME l’arma utilizzata per l’agguato ai danni del Ferrigno, erano stati impiegati nell’attentato del 5 dicembre 2017;
b) gli unici indizi a carico di COGNOME erano deboli, come contatti telefonici con gli imputati prima e dopo l’attentato, ma senza riscontri concreti sull’impiego del fucile o sull’organizzazione dell’attentato, tanto che se ne è fatta conseguenzialmente derivare, in assenza di altri decisivi elementi di congiunzione, l’assoluzione di tale coimputato (confermata dalla sentenza impugnata che ha rigettato l’appello del p.m.);
le immagini e i video prodotti dall’accusa – il cui contenuto in termini di inconferenza era stato anche direttamente saggiato dai giudici nel corso del processo – non permettevano di identificare con certezza l’auto ripresa nel luogo dell’attentato come l’Audi TT di Lammardo, «ameno non senza un accertamento di natura tecnica, che però nel caso di specie non è stato eseguito» (accertamento
in prima battuto disposto in sede di rinnovazione dalla Corte d’appello, ma successivamente revocato, perché ritenuto superfluo, dal collegio in diversa composizione che ha deliberato la sentenza impugnata);
dal luogo in cui l’accusa contesta si trovassero COGNOME e COGNOME per l’appostamento, risultava impossibile identificare l’auto del COGNOME mentre questa percorreva a forte velocità la litoranea, prima di giungere – e decelerare – alla rotonda dove venivano esplosi i colpi;
il posizionamento dell’Audi TT (ad oltre 500 metri dalla rotatoria, e parcheggiata in un punto visibile dalla carreggiata) e l’assenza di prove su di un contatto telefonico tra COGNOME e COGNOME per coordinare l’attentato sollevavano ulteriori dubbi sulla esecuzione dell’agguato da parte degli imputati;
dopo la sparatoria, COGNOME e COGNOME si recavano dal NOME presso il mercato ittico, mettendosi in una posizione vulnerabile e ben visibile, cosa che appariva illogica per due presunti esecutori di un attentato e il loro mandante, tanto che la loro presenza era stata anche percepita da diversi testimoni;
non era chiaro perché NOME COGNOME, una persona additata di avere presunti legami con la camorra, avrebbe incaricato per un attentato così complesso proprio COGNOME e NOME, due sprovveduti (alla luce dei precedenti penali annoverati del tutto distonici rispetto ad un’inclinazione ad assolvere compiti di tal fatta entrambi certamente estranei al circuito criminale a cui veniva accostato il NOME);
l’intercettazione n. 9901 del 9 marzo 2018 – che secondo la prospettazione accusatoria doveva costituire una sorta di confessione da parte del NOME di essere stato il mandante dell’attentato a Ferrigno – aveva tutt’altro tenore letterale rispetto a quello desumibile dalla trascrizione del perito del Tribunale: NOME non aveva detto “L’ho sparato io, l’ho fatto sparare io”, come sostenuto dall’accusa, bensì “il fatto che lui è andato dicendo che l’ho sparato io, l’ho fatto sparare io”;
il Tribunale si era premurato in camera di consiglio di ascoltare direttamente l’audio della conversazione e «ha potuto constatare attraverso un ascolto ripetuto e attento, che effettivamente l’imputato pronunci la frase – più estesa – riportata da COGNOME , e peraltro in un contesto del quale si può apprezzare, se così si può dire, un tono sostanzialmente canzonatorio ed irridente NOME COGNOME non ammette affatto in questa telefonata di avere organizzato un attentato ai danni di COGNOME NOME»;
anche le intercettazioni del 20 dicembre 2017 e del 4 gennaio 2018, quelle relative a colloqui tra NOME COGNOME e COGNOME non contenevano elementi a riscontro della paternità dell’agguato fatto del 5 dicembre 2017; anzi, le due captazioni venivano interpretate come «idonee, di contro, a depotenziare l’argomento»;
l’intercettazione ambientale eseguita il 12 ottobre 2018 all’interno della
Caserma INDIRIZZO tra COGNOME e COGNOME non conteneva nulla di compromettente, anzi, gli imputati rappresentavano «esattamente ciò che li scagionerebbe» quando ipotizzano di essere stati convocati “per essere andati a comprare il pesce da NOME“;
n) il fatto che i cellulari di NOME e COGNOME, il 5 dicembre 2017, avevano agganciato delle celle compatibili con il luogo e l’orario dell’agguato non era dirimente, in quanto la rilevazione de qua, per sua natura, non è sufficientemente precisa, per come conclamato anche mediante l’esame dei testi di p.g. che quelle rilevazioni avevano operato.
o) nessun decisivo elemento a sostegno della ricostruzione accusatoria poteva trarsi dalle dichiarazioni rese nell’interrogatorio di garanzia dal COGNOME, al di là dei profili di utilizzabilità di tale propalato nei confronti del COGNOME e del COGNOME ex art. 513, comma 1, cod. proc. pen. (v. pag. 54).
L’analisi condotta dal Tribunale aveva quindi esaminato tutte le fasi dell’attentato, evidenziando – per ognuna – la non univocità (e la non idoneità) degli elementi indiziari raccolti dall’accusa: il ruolo di mandante del NOME, smentito dalle intercettazioni; la fornitura dell’arma, esclusa dalla consulenza balistica (l’assoluzione di COGNOME, peraltro, è divenuta cosa giudicata); la partecipazione di NOME e COGNOME, che è stata respinta per le diverse ragioni fattuali sopra riportate.
Di contro la Corte territoriale, lungi dall’affrontare i temi sopra indicati al fi di sconfessarli sotto il profilo logico-deduttivo e conseguenzialmente conferire ai fatti di riferimento una piena efficacia probante, ha invece imposto l’utilità discriminante di alcune circostanze empiriche, peraltro non processualmente emerse, omettendo di fornire qualsiasi valutazione giustificativa della relativa proficuità.
Da ciò ne deriva un primo vizio di legittimità della sentenza impugnata, correttamente ravvisato anche dal P.G. di udienza nella violazione dell’obbligo di fornire una motivazione rafforzata.
In tema di giudizio di appello, la motivazione rafforzata, richiesta nel caso di riforma della sentenza assolutoria o di condanna di primo grado, consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanzial processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (ex multis, Sez. 6, n. 51898 dell’11/07/2019, P., Rv. 278056 – 01; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679 – 01)
Non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa
valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia dì colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio.
Occorre, quindi, che il giudice della riforma proceda a confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato, mettendo alla luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni.
Nulla di tutto ciò si ricava dalla sentenza impugnata. La Corte distrettuale, infatti, non solo ha omesso di prendere in disamina tutti i passaggi argomentativi in forza dei quali il primo giudice era pervenuto all’epilogo assolutorio, saggiandone la portata dimostrativa, ma, dando per assodate le lacune probatorie asseverate da quel giudice, ha ritenuto di porvi rimedio attraverso il ricorso ad informazioni probatorie non tanto sfuggite al Tribunale, ma neppure mai raccolte nel corso del lungo dibattimento di primo grado.
Così, a fronte dell’aporia costituita dal fatto che gli esecutori materiali avevano lasciato l’autovettura parcheggiata ad oltre 500 mt di distanza e non erano inquadrati dalla telecamera, né nel tragitto auto-azione di fuoco, né al ritorno verso la macchina e che dai tabulati telefonici non si ricavavano contatti tra i due in quel frangente, il giudice di appello congegna, senza neppure tener conto dell’effetto devolutivo dell’appello del pubblico ministero e delle parti civili c neppure si erano spinte a tanto, l’intervento di un terzo ignoto autore materiale, capace di sfuggire all’occhio della telecamera ‘posizionandosi’ in una posizione nascosta, teorizzando un precedete (e indimostrato) sopralluogo.
A questo punto, al fine di non relegare gli altri due al ruolo di meri compartecipi che sarebbero rimasti nell’auto parcheggiata, il giudice di appello colloca nelle loro mani dei walkie-talkie, con i quali avrebbero avvisato l’ignoto complice del sopraggiungere del COGNOME.
E tanto con buona pace del capo di imputazione secondo cui il mandato ad eseguire l’azione di fuoco sarebbe stato dato dal NOME – che in origine aveva potuto contare sulle armi che lo COGNOME, assolto, avrebbe fornito ai due esecutori – e i due coimputati avrebbero eseguito l’ordine impartito realizzando l’azione intimidatoria ai danni del COGNOME.
Non si è, pertanto, al cospetto di una reinterpretazione della medesima
piattaforma probatoria – e tanto basterebbe a configurare il vizio denunciato – ma di una motivazione di condanna che finisce per ‘arricchirsi’ di alternative del tutto ipotetiche, nemmeno esplorate nel corso delle indagini, né tantomeno vagliate nel contraddittorio delle parti e non supportate da elementi processualmente accertati.
3.3. Fondato è anche il vizio di violazione dell’obbligo di rinnovazione istruttoria ex art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen.
Dalla lettura della sentenza impugnata si ricava che i giudici di appello hanno ritenuto di superare l’assenza di una prova che collochi esattamente un’auto del modello di quella in uso ai due imputati al momento del fatto (posto che gli stessi giudici di secondo grado danno atto che dalle immagini tratte dalle telecamere si intravede una “sagoma di un’auto”), facendo ricorso al dichiarato testimoniale della p.o. e di altri tre testi (COGNOME Pasquale, COGNOME NOME e COGNOME Marcello. Hanno, però, ritenuto non necessario procedere alla riassunzione della prova, in quanto il Tribunale avrebbe ritenuto credibili i suddetti testimoni.
Si tratta di una conclusione che collide con l’esigenza di garanzia sottesa alla disposizione processuale in oggetto. Nel caso in esame, infatti, la sentenza impugnata, a differenza di quella di primo grado, ha utilizzato la prova dichiarativa per mettere in discussione le premesse fattuali e ricostruttive a cui era pervenuta in senso favorevole agli imputati la sentenza di primo grado. La rinnovazione, pertanto, si imponeva in quanto occorreva riesaminare quelle fonti di prova alla luce del nuovo dato ricostruttivo che il giudice di appello ha ritenuto di dare alla vicenda proprio in forza di una valorizzazione di tali dichiarati che il primo giudice, invece, aveva escluso.
Peraltro, la differente ricostruzione in peius a cui è pervenuta la Corte di appello si nutre anche di una differente valutazione delle dichiarazioni rese dai due coimputati COGNOME e COGNOME nel corso delle indagini. Di conseguenza, occorreva procedere anche su tale aspetto, al fine di assicurare il compiuto esercizio del diritto di difesa e al contraddittorio, alla rinnovazione della prova i ossequio al principio affermato dalla Corte di legittimità a mente del quale «nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere all’esame dell’imputato, anche se non sia comparso e non abbia chiesto di essere sentito, nel solo caso in cui effettui un diverso apprezzamento delle dichiarazioni decisive dallo stesso rese in precedenza. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta e in linea con la giurisprudenza convenzionale la decisione dei giudici di appello che, ribaltando la sentenza assolutoria di primo grado e senza procedere al suo esame, avevano condannato l’imputato, che era rimasto assente e non aveva mai reso dichiarazioni)» (Sez. 5, n. 47794 dell’11/11/2022, COGNOME, Rv. 283981 – 01).
E tanto, in conclusione, a prescindere dall’ulteriore rilievo che può muoversi all’ordinanza di revoca dell’unica prova che aveva formato oggetto in prima battuta di rinnovazione istruttoria da parte del giudice di appello e relativa alla necessità di esplorare la possibilità tecnica di identificare compiutamente quella ‘sagoma’ di autovettura che sarebbe stata ripresa dalle telecamere al momento del fatto.
Alla revoca, infatti, si sarebbe potuto giungere laddove il giudice di appello, all’esito dell’istruttoria, avesse ritenuto l’assenza di decisività degli argoment prospettati dalle parti appellanti rispetto alle conclusioni raggiunte dal primo giudice e, dunque, superflua la prova, ma non allorché l’espunzione del dato tecnico oggetto della rinnovazione fosse destinato a riverberarsi ai danni degli imputati.
3.4. Manifestamente infondate, invece, sono le censure poste con i motivi di ricorso in ordine alla rinnovazione istruttoria a cui la Corte d’appello avrebbe dovuto ricorrere con riguardo agli esiti della consulenza tecnica della difesa (su cui ha riferito al processo il consulente), volta a dimostrare l’insussistenza di un agguato ai danni dell’auto della p.o. nelle circostanze di tempo e di luogo di cui all’imputazione.
Sul punto, infatti, nessuna discrasia vi è tra le sentenze di merito che hanno concordemente escluso qualsiasi paventata verosimiglianza dell’ipotesi alternativa sostenuta dalla difesa che esclude si sia financo verificato un agguato nelle circostanze di tempo e di luogo di cui all’imputazione.
Nel caso in esame, poi, le doglianze difensive finiscono per attaccare, con richiami di merito, il risultato della prova, non scrutinabile in questa sede alla luce della congrua motivazione che ha supportato l’esito confermativo del fatto a cui è pervenuto il giudice del merito con doppia conforme.
Infondati sono i rilievi delle difese in punto di qualificazione giuridica de fatti di cui ai capi 1) e 4) con particolare riguardo al mancato assorbimento nella fattispecie di cui all’art. 513-bis cod. pen. delle condotte estorsive di cui al capo 1) della rubrica, essendo stato ritenuto da entrambe le sentenze di merito il concorso formale di reati.
Al riguardo, va anzitutto premesso che l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in relazione alla tentata estorsione di cui capo 2) della rubrica determina che anche il relativo tema legato alla sussistenza del delitto di cui all’art. 513-bis cod. pen., contestato in relazione a tale episodio criminoso gdel 5 dicembre 2017), sia devoluto alla Corte di rinvio.
Venendo alla questione relativa all’assorbimento delle due ipotesi estorsive di cui al capo 1) nell’ambito del delitto di cui all’art. 513-bis cod. pen., la censur difensiva è infondata.
Per come affermato dalle Sezioni unite Guadagni (sentenza n. 13178 del
28/11/2019, dep. 2020, Rv. 278735 – 01), la descritta tipicità del reato di illecita concorrenza impedisce di ritenerne la condotta esecutiva assorbita nella più grave fattispecie dell’estorsione (consumata o tentata) in base al criterio di specialità (art. 15 cod. pen.). I due reati, aventi diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi: la libera concorrenza nel primo caso; il patrimonio del singolo soggetto passivo nel secondo caso. Di tal che, ove siano realizzati in modo contemporaneo gli elementi costitutivi dell’uno e dell’altro reato (come nella vicenda per cui è processo), gli stessi reati sussistono entrambi secondo i consueti canoni del concorso apparente di norme (ex pluribus, Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263165 – 01; e per l’affermazione del principio, seppur in fattispecie differente, Sez. 2, n. 5793/14 del 24.10.2013, COGNOME, Rv. 258200 – 01).
Ciò premesso, dalla lettura delle sentenze di merito risulta che la condotta minacciosa attribuita al ricorrente fu volta a far desistere il COGNOME ed il suo soci COGNOME dal fare ingresso nel mercato ittico di Salerno per la vendita del congelato, mediante l’acquisizione delle quote di maggioranza della società di NOME COGNOME che conduceva uno stand all’interno del mercato (v. pagg. 12-17 della sentenza di primo grado).
Ciò ha sicuramente determinato una lesione dell’oggettività giuridica propria del delitto di cui all’art. 513-bis cod. pen., da ravvisarsi anche nella libertà d illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l’esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti utilizzano anche in favore della collettività, e dove quella libertà non solo viene generalmente regolata e promossa, ma deve anche lecitamente attuarsi.
Quanto, poi, agli ulteriori effetti di ricaduta sul patrimonio della persona offesa, le minacce, depurate dall’ulteriore segmento relativo all’episodio del 5 dicembre 2017, si collocano nell’ambito dell’insuccesso commerciale che si deve al ‘ripensamento’ del socio di maggioranza della società RAGIONE_SOCIALE (NOME COGNOME, il quale dopo un’avviata trattativa, proprio a cavallo delle minacce rivolte al COGNOME e alla sorella, si tirò indietro dalla cessione della maggioranza delle quote che avrebbe consentito al COGNOME e al suo socio COGNOME di controllare una società già avviata nelle forniture del pesce all’interno del mercato ittico.
La sentenza del Tribunale precisa, poi, che il progetto del COGNOME e del COGNOME di fare ingresso a tutto tondo nel mercato ittico mediante l’acquisizione della totalità delle quote della società dell’COGNOME era diffusamente noto nell’ambiente e certamente anche all’imputato che all’interno del mercato ricopriva una posizione dominante. La teste COGNOME COGNOME nel riferire sulla minaccia larvata ricevuta dal NOME, ha precisato che costui le riferì di essere a conoscenza che COGNOME, all’epoca suo fidanzato e successivamente divenuto suo marito,
aveva formulato una proposta di acquisto delle quote di COGNOME (v. pag. 13).
Di conseguenza, la minaccia rivolta dall’imputato alle persone offese non solo è diretta a precludere loro l’ingresso nel settore di mercato ove egli aveva una posizione consolidata, ma anche ad incidere sull’esito del progetto negoziale volto all’acquisizione delle quote delle società che avrebbe loro consentito di fargli concorrenza.
Vi è, pertanto, una diretta ricaduta, in termini di pregiudizio e alla stregua di una valutazione di idoneità ed univocità degli atti (essendosi al cospetto di un tentativo di estorsione), sul patrimonio delle persone offese che, in conseguenza di ciò, vedono deprezzarsi il valore delle quote di minoranza (pari al 45%) che le stesse avevano già acquistato dal fallimento della società RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, il quale, invece, ne deteneva in bonis (non essendo state oggetto di apprensione fallimentare) il restante 55% oggetto di contrattazione.
Inoltre, può anche ravvisarsi un ulteriore pregiudizio, in termini di perdita di chance, che avrebbero sofferto il COGNOME ed il suo socio nel vedersi impedito l’acquisto del banco al mercato, con il conseguente maggiore profitto che NOME avrebbe conseguito in assenza del nuovo concorrente, tenuto conto che si era al cospetto di un mercato ove gli equilibri commerciali nella fornitura del pesce sia fresco che congelato erano ben definiti.
Escluso, quindi, l’assorbimento, va anche sottolineato – seppur non oggetto di specifica censura – che correttamente le sentenze di merito hanno ravvisato due episodi di illecita concorrenza con minaccia in relazione alla vicenda di cui al capo 1) della rubrica, alla luce del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità a mente del quale «Il reato di cui all’art. 513 bis cod. pen. è un reato complesso di pericolo che può essere integrato anche da un solo atto di concorrenza illecita caratterizzato da violenza o minaccia perché il nucleo fondamentale del suo elemento oggettivo è costituito dalla realizzazione di un atto di illecita concorrenza. Ne consegue che, quando gli atti di concorrenza illecita siano plurimi e sussista l’identità del disegno criminoso, trova applicazione l’istituto della continuazione e il termine di prescrizione decorre dalla data di consumazione di ciascuno dei reati che compongono la sequenza». (Sez. 3, n. 39784 del 16/05/2013, Trabujo, Rv. 257417 – 01; in termini Sez. U, COGNOME, cit., in motivazione a pag. 22).
5. Il ricorso della parte civile è inammissibile.
Il motivo, scrutinabile in relazione al capo 1) della rubrica in quanto per il capo 2), in accoglimento dei ricorsi degli imputati, si è pervenuti ad un annullamento idYna rinvio della sentenza impugnata, è generico.
Seppur si registra nella giurisprudenza della Corte di legittimità un contrasto in ordine alla sussistenza dell’interesse della parte civile a dolersi del mancato riconoscimento a carico dell’imputato di elementi circostanziali del fatto al
medesimo addebitato, vuoi affermandosi che quest’ultima, pur determinando un aggravamento della pena, non influisce sull’entità del risarcimento del danno (Sez. 5, n. 36045 del 09/07/2024, COGNOME, Rv. 286894 – 01; Sez. 1, n. 31843 del 01/03/2011, COGNOME, Rv. 250769 – 01), vuoi sostenendosi che, trattandosi di elementi direttamente incidenti sulla concreta dimensione offensiva del fatto, assumono rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità civile (Sez. 2, n. 23970 del 31/03/2022, COGNOME, Rv. 283392; Sez. 1, n. 574 del 09/07/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278492 – 01), resta il dato, di carattere dirimente che, a norma dell’art. 568, comma 3, cod. proc. pen., la parte, per proporre impugnazione deve avervi interesse.
Nel caso in esame, il motivo di ricorso è unicamente incentrato sul richiamo ad orientamento di legittimità e su profili di merito in forza dei quali la Cort d’appello avrebbe dovuto riconoscere l’aggravante speciale, ma privo dell’indicazione delle dirette ricadute che tale riconoscimento opererebbe ai fini della responsabilità civile e, in particolare, sul quantum di risarcimento che la parte civile potrebbe esigere nella competente sede a seguito del maggior patema d’animo conseguente alla minaccia così caratterizzata, le cui ricadute nella sfera soggettiva della parte civile vengono implicitamente ricavate in re ipsa.
Si è, quindi, al cospetto di un motivo di doglianza che finisce per essere incentrato unicamente sugli effetti penali della condanna pure assentita dalla sentenza impugnata di cui poteva dolersi, in questa sede, unicamente il pubblico ministero.
E tanto a prescindere dall’assenza nella motivazione della sentenza impugnata di manifeste illogicità che hanno condotto i giudici di merito ad escludere la sussistenza dell’aggravante speciale, essendosi precisato come l’evocazione della necessità del mantenimento delle famiglie dei carcerati non costituiva l’oggetto diretto della minaccia estorsiva, quanto piuttosto fosse un espediente per far desistere il suo interlocutore dall’ingresso nel mercato ittico, rappresentando che egli stesso era costretto a sottostare alle richieste della camorra.
Di conseguenza la prospettazione minacciosa, seppur corredata da quel riferimento, si appalesa priva, in ragione delle circostanze di fatto enunciate dal giudice del merito (che ha escluso che il ricorrente avesse in qualche modo rappresentato ai COGNOME un contiguità con un’associazione di stampo camorristico operante su quel territorio, adducendosi, invece, come lo stesso ricorrente si fosse presentato come vittima della criminalità organizzata), di quella connotazione finalistica di maggior disvalore che richiede la circostanza in esame.
Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, con orientamento citato dal Tribunale (alle cui motivazioni rinvia la sentenza impugnata), l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., è configurabile
nel caso di condotte eziologicamente collegate all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole commissione del reato e non in
quello di mera connotazione mafiosa dell’azione o mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti dell’organizzazione mafiosa (Sez. 1,
n. 37621 del 14/07/2023, C., Rv. 285761 – 01).
Si è al cospetto, pertanto, di una valutazione che traducendosi in un accertamento di fatto è insindacabile in sede di legittimità allorché, come
osservato, sia resa con una motivazione congrua e scevra da vizi logici.
6. In conclusione:
– va annullata la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME COGNOME
NOME e NOME COGNOME (alias NOME) in ordine reati di cui ai capi 2) e 3) della rubrica e nei confronti di NOME COGNOME anche con riguardo al capo 4) limitatamente
ai fatti di cui al 5 dicembre 2017, con rinvio alla Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio su detti capi;
– va rigettato il ricorso di NOME COGNOME nel resto, dichiarandosi irrevocabile l’affermazione di responsabilità in ordine ai capi 1), 5) e 4) limitatamente agli
episodi di cui al capo 1);
va dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile, con condanna di COGNOME NOME al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati;
vanno rimesse al definitivo le statuizioni sulle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME con riguardo ai reati di cui ai capi 2) e 3) e nei confronti del NOME anche con riguardo al capo 4) limitatamente ai fatti di cui al 5.12.2017 con rinvio per nuovo giudizio su detti capi alla Corte di appello di Napoli.
Rigetta nel resto il ricorso di NOME COGNOME dichiarando irrevocabile l’affermazione di responsabilità con riguardo ai capi 1), 5) e 4)- limitatamente agli episodi di cui al capo 1)-.
Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile COGNOME Augusto che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, l’11 aprile 2025.