Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22502 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22502 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
dalla parte civile COGNOME NOME NOME a GIOIA TAURO il DATA_NASCITA nel procedimento a carico di:
COGNOME NOME NOME a TAURIANOVA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/07/2023 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
uditi i difensori:
nessuno è presente per la parte civile, ricorrente.
AVV_NOTAIO preliminarmente fa presente che la mancata presenza del difensore della parte civile e di conclusioni scritte deve considerarsi come revoca della parte civile, e priva di effetti il ricorso della parte civile, e conclude chiede l’inammissibilità del ricorso della parte civile
AVV_NOTAIO‘AVV_NOTAIO COGNOME conclude chiedendo l’inammissibilità del ricorso della parte civile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 13 luglio 2023 la Corte di appello di Reggio Calabria, riformando la sentenza emessa in data 08 novembre 2022 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palmi, ha assolto NOME COGNOME, per non avere commesso il fatto, dai reati di tentato omicidio in danno di NOME COGNOME e di porto illegale dell’arma da fuoco usata per commettere tale reato, fatti commessi il 18/05/2020.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto provata la responsabilità del COGNOME dalle risultanze delle intercettazioni ambientali svolte a carico della vittima COGNOME, che agli inquirenti aveva detto di essere stato bersaglio di spari da parte di uno sconosciuto, mentre conversando con parenti ed amici, in ospedale, aveva indicato chiaramente l’imputato quale autore di tali spari. Era emerso, inoltre, che la mattina del fatto lo COGNOME aveva avuto una lite con NOME COGNOME, figlio dell’imputato, il quale, al termine di essa, aveva minacciato di chiamare suo padre; pochi minuti dopo lo COGNOME era stato raggiunto dai colpi di pistola, e subito prima che egli venisse accompagNOME in ospedale da un conoscente, una telecamera di sorveglianza aveva ripreso, in transito su quella medesima strada, un’auto compatibile con quella in uso all’imputato.
La Corte di appello, invece, ha ritenuto il materiale probatorio insufficiente per la condanna, in quanto le intercettazioni ambientali sono contraddittorie, avendo lo COGNOME talvolta detto di avere visto il COGNOME affrontarlo con la pistola in pugno, ed altre volte, invece, di essere stato colpito da un ignoto che si era nascosto dietro una siepe o sotto un muro, circostanza che gli avrebbe reso impossibile vedere l’autore degli spari. Vi sono, poi, motivi per sospettare che lo COGNOME sapesse di essere intercettato, mentre si trovava in ospedale, e che avesse motivi di risentimento verso il COGNOME, ragioni che, unitamente alle predette contraddizioni e ad altre incongruenze, fanno dubitare della piena attendibilità delle sue dichiarazioni. Anche le consulenze della difesa contribuiscono a rendere incerta la prova della colpevolezza, dal momento che mettono in dubbio l’asserita compatibilità con l’auto del COGNOME del veicolo visto transitare nei pressi del luogo dell’agguato in un tempo prossimo ad esso, e l’asserita compatibilità tra la telefonata intercorsa tra l’imputato e suo figlio e il tempo necessario per raggiungere il luogo della sparatoria.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso la parte civile NOME AVV_NOTAIO, per mezzo del proprio difensore AVV_NOTAIO, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., in relazione ai principi in materia di “doppia difforme”.
Le Sezioni Unite hanno stabilito che sussiste l’obbligo della motivazione rafforzata ogni volta che il giudice di appello ribalti la sentenza del grado precedente, ma la Corte di appello non si è conformata a tale principio, precisato nella sentenza Sez. 6, n. 41094 del 31/03/2022. In merito alla ricostruzione del fatto, essa si è sostanzialmente fondata sulle dichiarazioni del teste COGNOME, che però è poco attendibile atteso che, a suo dire, non si era neppure accorto che lo COGNOME fosse stato ferito. Inoltre ha ritenuto insufficiente la prova perché ha valutato non credibili le dichiarazioni intercettate nei confronti dello COGNOME, senza però fornire, sul punto, una motivazione rafforzata che ribalti, con maggiore persuasività, l’opposta valutazione del giudice di primo grado.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce il travisamento della prova e l’illogicità della motivazione, con violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., in merito alle conversazioni intercettate.
L’asserita contraddittorietà di tali conversazioni consiste solo nella naturale propensione di qualunque uomo a non descrivere un fatto in modo sempre identico, come ben valutato dal giudice di primo grado, e la sentenza non spiega perché ritenga poco credibile un soggetto che, invece, ha sempre raccontato l’evento ad amici e parenti in modo sostanzialmente analogo, rispetto al movente dell’agguato e al suo autore. L’affermazione che lo COGNOME potrebbe avere saputo di essere intercettato è apodittica e priva di supporto probatorio, ed anzi una sua affermazione, nella quale dice che gli inquirenti avrebbero potuto acquisire i filmati dell’acquedotto, che avevano presumibilmente ripreso l’intera scena, dimostra la sua sicurezza e la sua sincerità. Il percorso argomentativo del giudice di primo grado è sicuramente più logico, e la sentenza assolutoria non lo ribalta in modo più persuasivo.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce l’illogicità della motivazione e l’omessa analisi della sentenza di primo grado, con violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen.
Il confronto tra le due sentenze, che il ricorso effettua riportando ampi stralci di entrambe, dimostra che quella di appello non ribalta in modo plausibile e convincente quella di primo grado. La ricostruzione operata dalla sentenza assolutoria, secondo cui lo COGNOME sarebbe arrivato nel luogo dell’agguato alle ore 10.45, dopo la telefonata fatta da NOME COGNOME a suo padre, è illogica perché incompatibile con il litigio avvenuto tra i due prima di quella telefonata, e con le testimonianze delle persone presenti a detta lite. Del tutto illogico, poi, è motivare la non credibilità dello COGNOME per il fatto di essersi costituito parte civil
L’imputato, attraverso i propri difensori, ha depositato una memoria di replica, nella quale chiede dichiararsi l’inammissibilità o almeno il rigetto del ricorso, affermando che la sentenza impugnata presenta una motivazione rafforzata, e illustrando, con riferimento ai singoli motivi del ricorso, le ragion della sua maggiore correttezza.
Il Procuratore generale, nella discussione orale, ha chiesto il rigetto del ricorso.
La parte civile, ricorrente, non ha partecipato alla disc:ussione orale.
I difensori dell’imputato hanno concluso chiedendo di valutare l’assenza della parte civile quale revoca tacita della costituzione, ai sensi dell’art. 82, comma 2, cod.proc.pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente deve essere respinta, perché manifestamente infondata, la richiesta formulata in udienza dai difensori dell’imputato, di ritenere tacitamente revocata la costituzione di parte civile, a seguito della mancata formulazione delle conclusioni. La norma dell’art. 82, comma 2, cod.proc.pen. attribuisce l’effetto di revoca tacita della costituzione solo alla mancata presentazione delle conclusioni ad opera della parte civile «a norma dell’art. 523», e quindi esclusivamente nel corso della discussione finale del giudizio di primo grado. Una norma analoga non è stata prevista per i gradi successivi del procedimento, durante i quali, perciò, vige il generale principio della immanenza della costituzione, stabilito dall’art. 76, comma 2, cod.proc.pen. L’assenza della parte civile all’udienza di discussione del ricorso da lei proposto, e la mancata presentazione delle conclusioni finali, non producono perciò alcun effetto sulla procedibilità del giudizio di legittimità dalla stessa introdotto.
L’impugnazione è stata proposta dalla sola parte civile, esercitando il potere attribuitole dall’art. 576 cod.proc.pen., contro i capi della sentenza relativi all’assoluzione dell’imputato, e non per gli interessi civili. Non sorge, quindi, alcun dubbio circa la competenza del giudice penale, non sussistendo il caso di cui all’art. 573, comma 1 -bis, cod.proc.pen., introdotto dal d.lgs. n. 150/2022. Tale norma, che attribuisce la competenza al giudice civile, si applica nel caso di un’impugnazione che riguardi i soli interessi civili, e cioè riguardi «capi della decisione di contenuto extrapenale, ossia concernenti, fondamentalmente, la
richiesta di risarcimento dei danni, le spese sostenute dalla parte civile e i danni conseguenti a lite temeraria» (così Sez. U, n. 38481 del 25/05/2023, D., Rv. 285036, in motivazione). Peraltro la sentenza delle Sezioni Unite qui citata ha stabilito che la norma di nuova introduzione deve applicarsi alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione d parte civile sia intervenuta in epoca successiva alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022.
Il ricorso proposto, pertanto, deve essere trattato dal giudice penale, e nelle forme ordinarie del processo penale, anche se l’impugnazione, in virtù del limite stabilito dall’art. 576 cod.proc.pen., mira ad ottenere il ribaltamento della decisione di proscioglimento dell’imputato ai soli effetti della responsabilità civile: l’art. 622 cod.proc.pen., infatti, stabilendo la procedura da applicare nel caso di accoglimento, da parte del giudice di legittimità, del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento, conferma indirettamente la competenza del giudice penale in questa fase processuale. L’assoluzione pronunciata dal giudice di appello, quindi, è definitiva e irrevocabile quanto ai suoi effetti penali stante la mancanza di impugnazione da parte della pubblica accusa.
E’ opportuno, comunque, sottolineare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 176/2019 ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod.proc.pen. nella parte in cui attribuisce alla parte civile la facolt di impugnare una sentenza di proscioglimento, sia pure ai soli effetti civili, davanti al giudice penale anziché davanti al giudice civile, in quanto ciò costituisce una forma di tutela per la parte civile e i suoi interessi, e in ogni caso non distoglie il giudice penale dalla sua funzione giurisdizionale, venendo egli chiamato a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, già valutato secondo le norme del codice di procedura penale. Peraltro, mutuando le conclusioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 182/2021, che ha respinto le questioni di legittimità della diversa norma di cui all’art. 578 cod.proc.pen., anche nel caso dell’impugnazione, ai soli effetti civili, proposta contro una sentenza di proscioglimento il giudice dell’impugnazione penale non deve procedere all’accertamento incidentale della responsabilità penale dell’imputato, ormai definitivamente esclusa, ma deve accertare la sussistenza degli elementi costitutivi di un illecito civile aquiliano, che dà diritto risarcimento di un danno subito dalla parte civile, applicando, sia pure con le regole processuali e probatorie del processo penale, il criterio della causalità civilistica della “probabilità prevalente” (vedi, per l’applicazione di tale criter ermeneutico, Sez. 2, n. 11808 del 14/01/2022, Rv. 283377)
Il ricorso è infondato, in tutti i suoi motivi, e deve essere rigettato.
4. Il primo motivo di ricorso è infondato.
4.1. La parte civile ricorrente afferma, correttamente, che il giudice di appello che ribalti la sentenza di primo grado è tenuto a fornire una motivazione rafforzata, che risulti cioè dotata di una maggiore forza persuasiva rispetto a quella della pronuncia ribaltata, anche se venga riformata in senso assolutorio una sentenza di condanna: tale principio, presente da tempo nella giurisprudenza di legittimità, ha trovato una precisa elaborazione dapprima, indirettamente, con la sentenza Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, e quindi con la sentenza Sez. U, n.14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv.272430. In tutte le pronunce, peraltro, si è sottolineato che, essendo la necessità della motivazione rafforzata una elaborazione conseguente, per molti aspetti, all’introduzione del criterio di decisione dell -oltre ogni ragionevole dubbio”, sussiste una differenza tra il ribaltamento in peius di una sentenza di assoluzione e il ribaltamento in senso assolutorio di una sentenza di condanna, in quanto solo la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (vedi Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Rv. 251066, in motivazione).
Anche la sentenza Sez. 6, n. 41094 dep. 31/03/2022, citata dal ricorrente, nella parte motiva spiega che, pur essendo necessaria una motivazione rafforzata anche nel caso di ribaltamento di una sentenza di condanna, il giudice di appello può limitarsi ad evidenziare la sussistenza di un ragionevole dubbio, purché dimostri di avere ben analizzato la sentenza impugnata e spieghi perché non ne condivida il ragionamento ovvero perché sussista il ragionevole dubbio, ovvero perché dia ad una prova una valenza diversa. Pertanto non è condivisibile l’assunto, contenuto in questo motivo di ricorso, di un obbligo di motivazione rafforzata che si configuri nello stesso modo e con la medesima ampiezza anche nel caso di una riforma in senso assolutorio della precedente sentenza di condanna, essendo in realtà sufficiente motivare circa la sussistenza di un ragionevole dubbio, diversamente dal caso inverso, in cui deve dimostrarsi che non residua alcun dubbio ragionevole in merito alla colpevolezza dell’imputato.
4.2. La sentenza impugnata si è conformata ai predetti principi, in quanto ha analizzato le medesime prove poste a base della condanna dal giudice di primo grado e ne ha evidenziato le contraddizioni e la non decisività, ha esamiNOME le prove non approfonditamente valutate nella sentenza di condanna, in particolare le consulenze della difesa, ha rilevato in taluni casi la plausibilità di una ricostruzione alternativa o di una diversa interpretazione della prova stessa. A
seguito di questa complessa ricostruzione dell’istruttoria ha ritenuto sussistere un ragionevole dubbio in merito alla colpevolezza dell’imputato, che le prove e la loro valutazione contenuta nella sentenza di primo grado non hanno superato, in quanto pur sussistendo, a carico del predetto, «un quadro indiziario di un certo rilievo», costituito dalla sussistenza di un movente, dalla compatibilità tra la sua auto e quella ripresa nei pressi del luogo dell’agguato, dalle telefonate del figlio (ma non dalle dichiarazioni accusatorie della vittima, ritenute contraddittorie e non credibili), i riscontri a tali indizi sono risultati privi di una adeguata soli dimostrativa e non sono stati chiariti i molti aspetti dubbi, sui quali le indagini sono state lacunose, lasciando così possibile ipotizzare una ricostruzione del fatto alternativa e una plausibile responsabilità di altri soggetti.
La conclusione della Corte di appello, di un’assoluzione dell’imputato «per non aver commesso il fatto, ai sensi dell’art. 530, comma 2 c.p.p.», risulta quindi conseguente ad un’analisi attenta e ad una confutazione persuasiva dell’apparato argomentativo che ha portato alla sentenza di condanna, e consente di affermare che è sorretta dalla necessaria motivazione rafforzata.
4.3. In particolare, per quanto riguarda le censure contenute nel primo motivo di ricorso, nessuna perplessità o contraddittorietà si rileva nella ricostruzione oggettiva del fatto, che non avviene sulla base delle dichiarazioni del teste COGNOME, come asserito nel ricorso: costui viene indicato solo quale soggetto che trasportò la vittima in ospedale, a suo dire intorno alle 11.00, orario ritenuto compatibile con le riprese di una telecamera che ha registrato il passaggio della sua auto in una zona prossima al macello, luogo dell’agguato, alle ore 10.55.50. La sentenza indica chiaramente che l’unico teste diretto della sparatoria, oltre alla vittima, è tale COGNOME, che però non vide l’autore degli spari (e ne sentì cinque, mentre la vittima ha parlato agli inquirenti di “circa tre”, e di cinque o sei solo nelle intercettazioni), e riporta, così come la sentenza di primo grado, le dichiarazioni delle altre persone informate sul fatto, nessuna delle quali, però, ha dato informazioni utili per ricostruire la dinamica della sparatoria e l’identità del suo autore.
Non sussiste quindi, nella motivazione relativa alla ricostruzione del fatto, alcun vizio motivazionale ed in particolare alcuna violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, non venendo modificata la ricostruzione effettuata dal giudice di primo grado. In ordine a tale aspetto, infatti, la sentenza impugnata afferma che l’orario dell’aggressione ed il suo esito lesivo, la precedente lite della vittima con il figlio dell’imputato e la telefonata fatta subito dopo da quest’ultimo al padre, e le convergenti dichiarazioni dei testi presenti in quel breve lasso di tempo costituiscono il solo «nucleo fattuale che può dirsi dimostrato con certezza sulla base delle prove a disposizione» (pag. XII della sentenza impugnata).
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Anche il secondo motivo di ricorso, che, approfondendo una censura già esposta nel precedente motivo, lamenta il travisamento della prova e l’illogicità della motivazione in relazione alle conversazioni intercettate a carico della vittima, è infondato.
La sentenza impugnata ripercorre le intercettazioni effettuate nei confronti della vittima COGNOME e ne evidenzia le contraddizioni, solo in parte sottolineate nella sentenza di primo grado. Quella più rilevante consiste nel fatto che, mentre nella prima conversazione del 20/05/2020, con alcuni familiari, lo COGNOME descrive la sparatoria con estrema precisione, indicando chiaramente sia il suo autore, cioè l’imputato in quanto padre del giovane con cui egli aveva appena discusso, sia il numero degli spari, sia la presenza di un terzo, tale “NOME COGNOME” ovvero “NOME NOME“, che sarebbe intervenuto ad abbassare la mano dello sparatore, così salvandogli la vita, e ripete tale descrizione in più conversazioni successive, in altre conversazioni svolte in quel giorno e il giorno dopo, sempre con i propri familiari, egli inizia a dire che gli spari sarebbero arrivati da dietro una siepe, e non fa più alcun riferimento al soggetto che, oltre ad essere presente, avrebbe interrotto la sparatoria, descrivendo invece di essersi salvato con manovre diversive, girando intorno al camion.
Correttamente, poi, la sentenza impugnata evidenzia che le contraddizioni in merito alle modalità della sparatoria, che sussistono anche con riferimento alle dichiarazioni rese dallo COGNOME agli inquirenti, nelle quali egli ha sempre sostenuto di non avere visto lo sparatore e di ignorarne l’identità, e di avere sentito sparare solo tre colpi, non sono state chiarite dalle indagini della polizia scientifica neppure quanto al numero dei colpi, perché sul piazzale del macello sono stati recuperati solo due bossoli (e un’ogiva è stata estratta dal corpo della vittima), non i cinque o sei che si sarebbero dovuti trovare se i colpi fossero stati sparati tutti in quel punto, in rapida successione. La sentenza di primo grado, su tale aspetto, è contraddittoria, perché mentre alla pag. 30 parla di una descrizione di cinque/sei colpi, da parte della vittima, corroborata dalle indagini, alla pag. 34, nel riferire l’esito di queste ultime, afferma che sono stati rinvenuti solo due bossoli cal. 7.65 Browning.
La sentenza impugnata evidenzia inoltre, alle pagine da XV a XVII, le altre conversazioni che fanno sorgere dubbi circa l’attendibilità dello COGNOME, anche per il sospetto, fondato su specifici passaggi di una lunga conversazione con il fratello NOME intercettata il 22/05/2020, che egli fosse consapevole di essere intercettato, nonché per l’esistenza di pregresse ragioni di risentimento nutrite verso l’imputato, che avevano causato non solo la lite verbale con il figlio di questi, ma una vera e propria aggressione fisica dello COGNOME contro un suo collaboratore.
La sentenza di primo grado, in realtà, non ha valutato le contraddizioni rilevate dalla sentenza di appello, in quanto si è soffermata solo sulla «diversa terminologia impiegata per descrivere i passaggi del litigio» tra la vittima e il figlio e il collaboratore dell’imputato (così a pag. 49), che è effettivamente irrilevante. Essa, inoltre, non ha approfondito l’esame circa l’attendibilità dello COGNOME, né ha valutato se fosse realmente possibile una univoca ricostruzione del fatto, alla luce delle sue diverse modalità, come da lui narrate ai suoi stessi familiari: egli, come detto, ha parlato di spari iniziati di fronte, oppure alle spall oppure da dietro una siepe, e dell’intervento salvifico o meno del “NOME NOME“, descrizioni oggettivamente molto diverse, non giustificabili, come fa la parte ricorrente, con la «naturale disposizione umana a non ripetere l’esposizione dei fatti in modo del tutto mnemonico», e scarsamente conciliabili anche con i rilievi della polizia scientifica, quanto al numero di bossoli rinvenuti. Sul punto della contraddittorietà delle dichiarazioni intercettate nei confronti dello COGNOME, e della impossibilità di ricostruire con certezza lo svolgimento del fatto attraverso di esse, la sentenza di appello risulta, quindi, logica e approfondita, nonché basata sulla medesima fonte di prova utilizzata dal giudice di primo grado, cioè le intercettazioni a carico della vittima, che non vengono interpretate diversamente o travisate, attesa anche la chiarezza del loro contenuto, bensì analizzate nel dettaglio, evidenziandone gli aspetti critici.
La stessa valutazione di logicità e accuratezza riguarda il dubbio di genuinità delle stesse, ritenuto sussistente dalla sentenza impugnata. Il giudice di primo grado ha respinto tale dubbio esaminando solo il riferimento a “NOME” contenuto nella conversazione del 22/05/2020 tra lo COGNOME e il fratello NOME, e sostenendo che l’affermazione della difesa, che si trattasse di un appartenente alle Forze dell’ordine che aveva informato i familiari della vittima dell’intercettazione in corso, era una mera congettura. Il dubbio evidenziato dalla Corte di appello si fonda, invece, sulle peculiarità di quella intera conversazione, che vengono specificate alla pag. XV: si tratta di peculiarità effettivamente presenti, stante il testo riportato in modo quasi integrale nella sentenza di primo grado, dalle quali la deduzione della sussistenza di un dubbio di genuinità appare logica e non meramente congetturale. Il motivo di ricorso è infondato, quindi, laddove sostiene che il sospetto che lo COGNOME fosse consapevole di essere intercettato, avanzato dalla sentenza di appello, sia un’affermazione «apodittica e illogica», trattandosi al contrario di una valutazione basata su un elemento oggettivo, non travisato ed anzi esamiNOME nel contenuto esposto nella sentenza di primo grado, ma di cui quest’ultima non risulta avere colto tutte le peculiarità, idonee a far sorgere il dubbio evidenziato.
La motivazione della sentenza impugnata risulta quindi, anche su questo punto, conforme al canone della maggiore persuasività, in quanto si confronta con la sentenza di primo grado, approfondisce l’esame di una prova di cui questa non ha colto tutti gli aspetti critici, e spiega le ragioni per cui non condivida l valutazione di piena attendibilità delle parole della vittima, captate attraverso l’intercettazione. Deve peraltro ribadirsi che, riformando in senso assolutorio una sentenza di condanna, la sentenza di secondo grado può limitarsi a valutare la sussistenza di un ragionevole dubbio, sufficiente per impedire la condanna dell’imputato: in questo caso, poiché la prova principale a suo carico consiste nelle accuse formulate dalla vittima solo in queste conversazioni, la valutazione della loro non piena credibilità, e di un dubbio non superabile circa l’attendibilità dell’accusatore, può legittimamente giustificare il ribaltamento della decisione.
Infine è infondato il terzo motivo di ricorso, con cui la parte ricorrente, mettendo a confronto brevi stralci delle due sentenze, afferma che quella di appello non ricostruisce il fatto con la precisione e l’approfondimento della sentenza di condanna.
Ancora una volta la parte ricorrente lamenta la mancanza di una motivazione rafforzata, che individui una ricostruzione alternativa altrettanto certa o almeno plausibile, senza valutare che la mera individuazione di un ragionevole dubbio, dimostrata in modo logico e non congetturale, è sufficiente per giustificare il ribaltamento della decisione di condanna.
6.1. Il ricorso, in questa parte, non si confronta con la sentenza impugnata, in particolare in merito alla diversa valutazione della compatibilità tra la localizzazione dell’imputato nell’orario dell’agguato, tratta dagli agganci delle celle telefoniche da parte del suo telefono cellulare, e il luogo della sparatoria.
La Corte di appello ha evidenziato che, essendo accertato che questa si è verificata tra le ore 10.45 e le ore 10.55.50, essendo il primo orario quello in cui il figlio dell’imputato ha telefoNOME al padre, dopo la sua discussione con lo COGNOME, e la seconda quella in cui l’auto del COGNOME, che sta trasportando la vittima in ospedale, è transitata davanti ad una telecamera posta a circa 600 metri di distanza dal macello, luogo dell’agguato, risulta fortemente dubbia la possibilità che l’imputato sia giunto ivi in quel lasso di tempo. Ciò perché nel momento della telefonata intercorsa alle ore 10.45.30 tra il figlio e l’imputato, entrambi i loto telefoni hanno agganciato la medesima cella di Laureana di Borrello, dove si trova il macello teatro della sparatoria, ma poco dopo, alle ore 10.47.36, il telefono del figlio (spostatosi verso una cella di Rosarno) ha chiamato una diversa utenza del padre, la quale aggancia però una diversa cella di Rosarno, corrispondente ad un punto che, secondo la consulenza della difesa citata dal
giudice di primo grado alla pag. 39, dista circa quindici minuti dal luogo dell’agguato. La sentenza conclude, alla luce di questo accertamento riferito dalla sentenza di primo grado, che, mentre l’aggancio della cella di Laureana di Borrello alle ore 10.45.30 rendeva possibile che l’imputato giungesse al macello pochissimi minuti dopo, forse nell’orario delle 10.48 in cui un’auto Fiat Punto simile alla sua viene ripresa dalla telecamera posta a circa 600 metri di distanza, l’aggancio di una cella di Rosarno alle ore 10.47 rende impossibile che egli sia giunto sul posto prima delle ore 10.55.50. Tale conclusione è logica e fondata, e altrettanto logicamente il giudice di appello ne trae un ragionevole dubbio circa l’essere l’imputato l’autore della sparatoria.
Sul punto la sentenza di primo grado non effettua alcun approfondimento, né spiega perché l’imputato, tra le ore 10.45 e le ore 10.47, si sarebbe allontaNOME dal luogo dell’agguato, spostandosi a Rosarno, invece di avvicinarvisi al fine di compiere l’azione criminosa. La valutazione della sentenza impugnata, pertanto, risulta più completa e plausibile, nonché idonea quanto meno a confermare la sussistenza di un ragionevole dubbio, non esamiNOME né risolto dalla pronuncia di condanna.
Il ricorso, come detto, non si confronta con questa parte della sentenza impugnata, e si limita ad una affermazione generica circa la mancanza di analisi della ricostruzione della sparatoria e dei suoi tempi, esposta alla pagina 51 della sentenza di primo grado. La parte ricorrente non tiene conto, però, del fatto che il giudice di appello ha evidenziato la non corretta indicazione della localizzazione del telefono dell’imputato, che dopo le ore 10.45.30, come detto, aggancia celle più lontane rispetto a quella del luogo dell’agguato, e soprattutto ha evidenziato come la vittima abbia descritto, ai familiari, modalità della sparatoria diverse e incompatibili tra loro, così che la ricostruzione finale contenuta nella sentenza di condanna è solo una di quelle possibili, ma è smentita da altre dichiarazioni dello stesso COGNOME.
6.2. GLYPH Non è compito di questa Corte, peraltro, procedere ad una ricostruzione del fatto, o valutare quale delle divergenti prospettazioni contenute nelle due sentenze debba essere ritenuta la più corretta. Costituisce, infatti, un principio consolidato quello secondo cui «L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali» (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944).
Anche nel presente caso, quindi, il controllo sulla motivazione è circoscritto, alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità e, quindi, alla verifica della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione, dal testo impugNOME, dei vizi indicati nei motivi di ricorso. La sentenza impugnata risulta conforme ai principi relativi alla necessità di una motivazione rafforzata, apparendo maggiormente aderente alle risultanze processuali la sua valutazione della non piena credibilità delle dichiarazioni della vittima, per la loro contraddittorietà, e dell’assenza di validi riscontri ad esse quanto alla ritenuta responsabilità dell’imputato. La sua motivazione, inoltre, non è manifestamente illogica né contraddittoria, e pertanto la sua decisione finale non è sindacabile da questa Corte.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e la parte civile ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali, per il criterio della soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 22 marzo 2024
GLYPH
Il Consigliere estensore
Il Presidente