Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 13365 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 13365 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/02/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a TORINO il DATA_NASCITA
NOME COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/05/2023 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del AVV_NOTAIO COGNOME
Il PG conclude chiedendo annullarsi il provvedimento impugnato, con rinvio alla Corte d’Appello di Torino.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza del 24 maggio 2023 la Corte di appello di Torino ha accolto l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cuneo e, in riforma della sentenza di assoluzione ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen. emessa dal Tribunale di Cuneo il 9 dicembre 2019, ha condannato NOME COGNOME, ritenuta sussistente la recidiva contestata ex art. 99, commi 1 e 2, n. 1), cod. pen., alla pena di 1 anno e 9 mesi di reclusione e NOME COGNOME ad 1 anno e 2 mesi di reclusione.
La Corte territoriale ha anche disposto la confisca dei beni degli imputati sino alla concorrenza dell’imposta evasa ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati condannati – per il reato ex artt. 110 cod. pen. e 4 d.lgs. n. 74 del 2000 – per avere, in concorso tra loro – quali amministratori della RAGIONE_SOCIALE, gestore del locale Wasabi, società operativa dal 2009 e da allora priva di ogni bilancio pubblicato – presentato la dichiarazione dei redditi Unico sc 2014, per l’anno 2013, materialmente sottoscritta dal solo COGNOME, ma compilata con i dati della società dichiarante, rivelatasi infedele, in quanto, a fronte di importi dichiarati pari a zero, in se tributaria, è stato ricostruito un volume di affari, ai fini IRES, per C 721.252,00 con evasione di imposta per C 198.344,00, e, a fini IVA, per C 928.109,00, con imposta evasa pari a C 197.242,00 (in Cuneo il 29 settembre 2014).
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati.
Nella prima parte del ricorso, si ricostruisce l’iter del procedimento. Il Tribunale avrebbe assolto gli imputati rilevando che l’ammontare dell’imposta evasa sarebbe stato determinato in modo presuntivo, sulla scorta dell’accertamento induttivo bancario, senza, tuttavia, che fosse stata prodotta in giudizio la relativa documentazione bancaria, non consentendo in tal modo di poter procedere ad una sua valutazione autonoma.
Inoltre, nell’atto di accertamento sarebbero stati indicati soltanto gli import complessivi dei prelievi e dei versamenti: il Tribunale non sarebbe stato in grado di esaminare gli estratti dei singoli conti correnti e le descrizioni RAGIONE_SOCIALE relat movimentazioni bancarie.
Da ultimo, il Tribunale avrebbe ritenuto che il fascicolo storico della CCIAA della società, prodotto dal Pubblico ministero,, e attestante un’incongruenza tra il numero dei dipendenti e le spese dichiarate per il personale, non costituisse un riscontro all’atto di accertamento, dal momento che tale visura camerale sarebbe stata riferita all’anno 2017, mentre il reato contestato sarebbe stato commesso in
relazione all’anno di imposta 2013. Non sarebbero stati noti neppure gli orari di lavoro, né i giorni e gli orari di apertura del night Wasabi.
La Corte territoriale, nel riformare la pronuncia assolutoria – rigettando la richiesta di rinnovazione istruttoria proposta dal Pubblico ministero e dallo stesso difensore degli imputati – avrebbe considerato non necessario acquisire in giudizio la documentazione bancaria, giacché i dati utilizzati per l’accertamento induttivo non sarebbero stati contestati dalla società contribuente, rimasta inerte alla richiesta dell’Amministrazione tributaria.
L’accertamento sarebbe stato ritenuto fondato su basi empiriche e dati certi.
Si sostiene, infine, che all’esito RAGIONE_SOCIALE pronunce di merito sarebbero stati accertati i seguenti fatti: l’accertamento fiscale sarebbe stato svolto ai sensi degl artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 d.P.R.. n. 633 del 1972, con ricorso alle presunzioni proprie dell’accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973; mancherebbe agli atti del giudizio la documentazione bancaria su cui si fonda il predetto accertamento; in tale ultimo atto, i dati bancari sarebbero riportati in un prospetto riepilogativo indicando unicamente i saldi dei conti correnti considerati (uno solo dei quali intestati aila RAGIONE_SOCIALE), con l’ammontare complessivo dei prelievi e dei versamenti; nella visura carnerale storica della società l’indicazione dei n. 36 dipendenti sarebbe riferita all’anno 2017.
2.1. Con il primo motivo, dunque, si deducono, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione, per la sua inidoneità a superare l’assoluzione quanto al superamento RAGIONE_SOCIALE soglie di punibilità, e la violazione dell’art. 192, commi 1 e 2, cod. proc. pen.
La Corte di appello avrebbe recepito il contenuto dell’accertamento induttivo senza procedere ad una autonoma valutazione degli elementi su cui si fonderebbe e non avrebbe acquisito, pur a fronte della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, gli elementi documentali necessari ai fin della decisione.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe dato indebito rilievo all’inerzia de imputati nel corso del procedimento amministrativo-tributario, senza considerare che la teste, dott.ssa COGNOME, avrebbe dichiarato che gli inviti ad interloquire con l’Amministrazione sarebbero stati inviati a mezzo raccomandata alla sede della società e non sarebbero stati ritirati dal destinatario. I contribuenti avrebbero anche rifiutato l’accertamento con adesione e avrebbero presentato ricorso.
Da ultimo, la Corte di appello si sarebbe limitata ad indicare, quale argomento a sostegno della tesi accusatoria, l’intento fraudolento perseguito dai ricorrenti nel presentare una dichiarazione «infedele», in luogo di omettere la dichiarazione.
Tale elemento non assumerebbe alcuna rilevanza logico-argomentativa ai fini della sussistenza del reato e del superamento RAGIONE_SOCIALE soglie di punibilità, né potrebbe rilevare la produzione in giudizio, da parte dell’accusa, RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni IVA per
gli anni dal 2014 al 2016, difformi da quelle prodotte dalla difesa, in quanto, in ogni caso, anche dai documenti offerti dal Pubblico ministero emergerebbe un’IVA dovuta pari a zero, inidonea a dimostrare il superamento RAGIONE_SOCIALE soglie di punibilità.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione sulla mancata concessione della sospensione condizionale della pena: la Corte di appello avrebbe fatto riferimento a condotte dei ricorrenti in frode alla legge tributaria, successi a quella contestata, senza specificare a quali condotte si riferisse e senza che risultino altre pendenze a carico degli imputati.
2.3. Con il terzo motivo, infine, si deducono la violazione dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 e il vizio della motivazione sull’applicazione della confisca per equivalente sui beni degli imputati. La Corte non avrebbe motivato sulla impossibilità di procedere con la confisca diretta nei confronti della società.
Con la requisitoria scritta depositata in data 26 gennaio 2024, il Procuratore generale ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, in ragione dell’assenza della motivazione rafforzata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è fondato perché la sentenza impugnata non rispetta l’obbligo di motivazione rafforzata.
1.1. Secondo il costante orientamento RAGIONE_SOCIALE Sezioni Unite, la Corte di appello, ove proceda alla condanna, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero, in riforma della sentenza di assoluzione emessa in primo grado, è tenuta anche ad un più elevato standard argomentativo, in grado di superare il principio del ragionevole dubbio e la presunzione di innocenza.
Per Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679 – 01, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto RAGIONE_SOCIALE ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.
Per Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 26978601, dal canone decisorio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio deriva che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello deve essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria.
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Per riformare l’assoluzione, pertanto, non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice, ma occorre una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni dubbio ragionevole.
Questi principi sono poi stati ulteriormente sviluppati da Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 2018, Troise, Rv. 27243101, che ha ribadito che la «decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa. Dubbio che può ragionevolmente essere superato solo attraverso una concreta variazione della base cognitiva utilizzata dal giudice d’appello, unitamente ad una corrispondente “forza persuasiva superiore” della relativa motivazione, quando il meccanismo della rinnovazione debba essere attivato in relazione ad una prova dichiarativa ritenuta decisiva nella prospettiva dell’alternativa decisoria sopra indicata».
Come affermato dalle Sezioni Unite, con la sentenza Troise, nella valutazione degli elementi di prova è lo stretto collegamento fra la regola del «ragionevole dubbio» e il principio costituzionale della presunzione di innocenza ad imporre al giudice d’appello il rispetto di un più elevato standard argomentativo per la riforma di una sentenza assolutoria.
1.2. Come correttamente riportato dal ricorrente, il Tribunale ha assolto gli imputati in quanto ha ritenuto che l’ammontare dell’imposta evasa fosse stato determinato in modo presuntivo, sulla scorta di un accertamento induttivo, senza che fosse stata prodotta in giudizio la relativa documentazione bancaria.
Nell’atto di accertamento, secondo il Tribunale, sono stati indicati soltanto gli importi complessivi dei prelievi e dei versamenti, con conseguente impossibilità di esaminare gli estratti dei singoli conti correnti, le descrizioni e le causali movimenti bancarie.
Da ultimo, il Tribunale ha ritenuto che la visura camerale storica della RAGIONE_SOCIALE, che avrebbe attestato un’incongruenza tra il numero dei dipendenti e le spese dichiarate per il personale, non costituisse un riscontro all’atto di accertamento poiché tale documento si riferiva all’anno 2017, mentre il reato contestato sarebbe stato commesso per l’anno di imposta 2013. Non erano neppure noti gli orari di lavoro, né i giorni e gli orari di apertura del night.
1.3. Rispetto a tale motivazione, la Corte di appello, rigettando le richieste del Pubblico ministero e della difesa, non ha rinnovato l’istruttoria dibattimentale e non ha acquisito la documentazione bancaria alla base dell’atto di accertamento dell’Amministrazione, affermandone la non necessità.
La Corte territoriale ha ritenuto di non dover neppure disporre la rinnovazione della prova dichiarativa acquisita nel giudizio di primo grado, in quanto non «oggetto di contestazione valutativa» (cfr. pag. 3).
1.4. La Corte di appello ha, dunque, proceduto a rivalutare le stesse prove già acquisite in primo grado, non ha effettuato quella concreta variazione della base cognitiva che avrebbe potuto superare il ragionevole dubbio sollevato dal Tribunale proprio sulla concreta validità del metodo seguito per determinare l’entità dell’imposta evasa.
1.5. La Corte territoriale si è limitata ad asserire l’esistenza di un intent fraudolento dei ricorrenti e a ritenere che «In sede di accertamento il volume di affari per l’anno di imposta 2013 era stato verificato su basi del tutto empiriche, in particolare i dati certi dei conti bancari e postali nonché quelli relativ personale avviato al lavoro e ciò nell’assoluta inerzia degli imputati » (cfr. pa 3). Tanto è stato ritenuto sufficiente dalla Corte di appello per assolvere l’onere di motivazione rafforzata, giacché la decisione di primo grado sarebbe stata fondata «sull’erroneo presupposto che la verifica fiscale avesse a fondamento solo presunzioni e non, come detto, dati tangibili e certi, ricostruiti dall’ente accertato con rigore » (cfr. pag. 4).
Tale motivazione, come sottolineato anche dal Procuratore generale, è inidonea ad integrare una motivazione rafforzata, secondo i principi di diritto sopra richiamati.
1.5.1. La circostanza che l’accertamento sia stato svolto dall’Amministrazione sulla scorta di dati emergenti RAGIONE_SOCIALE movimentazioni bancarie dei ricorrenti e della società non supera logicamente il rilievo mosso dal Tribunale, per cui, in assenza della documentazione relativa alla movimentazione e in presenza dei soli dati aggregati dei prelevamenti e dei versamenti dai e sui conti correnti presi in esame, l’accertamento debba considerarsi basato su presunzioni tributarie.
1.5.2. Soprattutto, la motivazione non supera la valutazione del Tribunale che ha rilevato che l’assenza della documentazione – in particolare degli estratti dei conti correnti e la descrizione analitica RAGIONE_SOCIALE relative movimentazioni bancarie non consentisse il controllo RAGIONE_SOCIALE valutazioni effettuate in sede di accertamento.
Va ricordato che, in materia di reati tributari, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata, suscettibile dapprima di sequestro e, poi, di confisca, in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (così Sez. 3, n. 50157 del 27/09/2018, COGNOME, Rv. 275439 – 01)
Si è anche affermato, cfr. Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016, COGNOME, Rv. 266817 – 01, che ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione IRPEF o IVA, il giudice, nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa, sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, può fare ricorso al
risultanze RAGIONE_SOCIALE indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari unitamente ad elementi di riscontro, eventualmente acquisiti anche aliunde, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, privilegiando il dato fattuale reale rispett a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale (in applicazione del principio, la Corte ha annullato la sentenza di condanna che assumendo quale prova della commissione del reato le sole emergenze dei dati bancari – aveva attribuito valenza di riscontro al silenzio serbato dall’imputato e alla deposizione dell’operatore dell’amministrazione finanziaria, che si era limitato ad illustrare le modalità dell’accertamento induttivo seguito per la determinazione dell’imponibile).
1.6. La Corte territoriale, inoltre, non ha superato l’argomentazione del Tribunale sull’irrilevanza della visura camerale storica della società prodotta dal Pubblico ministero, né ha indicato ulteriori riscontri probatori, ad eccezione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni relative agli anni di imposta dal 2014 al 2016, successive alla annualità oggetto di imputazione, e dell’inerzia dei ricorrenti nel procedimento amministrativo avanti l’RAGIONE_SOCIALE.
1.6.1. Quanto al primo elemento, deve rilevarsi che le dichiarazioni fiscali per gli anni di imposta successivi a quello considerato nell’imputazione non sono di per sé logicamente idonee ad assurgere a riscontro oggettivo dalla sussistenza del reato, non potendo comprovare i reali volumi d’affari dell’anno contestato.
1.6.2. Quanto al silenzio dei contribuenti-ricorrenti, invece, a prescindere dall’avere o meno gli imputati esperito il ricorso giurisdizionale, va ribadito che tale elemento non può sorreggere il dato indiziario costituito dell’atto d accertamento, stante il principio di diritto, connaturato al diritto al sile spettante al reo (nemo tenetur edere contra se), secondo cui non è consentito al giudice desumere, dalla rinuncia dell’imputato a rendere l’interrogatorio, elementi o indizi di prova a suo carico, atteso che allo stesso è riconosciuto il diritto silenzio e che l’onere della prova grava sull’accusa (cfr. Sez. 6, n. 8958 del 27/01/2015 – dep. 27/02/2015, COGNOME, Rv. 262499-01, richiamata da Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016, COGNOME, Rv. 266817-01, in un caso analogo a quello in esame).
In tema di valutazione della prova, la negazione o il manc:ato chiarimento, da parte dell’imputato, di circostanze valutabili a suo carico, infatti, può fornire giudice elementi di prova di carattere residuale e complementare solo in presenza di univoci elementi probatori d’accusa, in quanto la valutazione del comportamento processuale dell’imputato non può risolversi nell’inversione dell’onere della prova né sostanzialmente condizionare l’esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 19216 del 06/11/2019, dep. 2020, Ascone, Rv. 279246-02).
1.7. Pertanto, deve ritenersi che la motivazione della sentenza di condanna non abbia superato le argomentazioni dell’assoluzione, non abbia i caratteri della motivazione rafforzata e non sia in grado di superare il ragionevole dubbio che emerge dalla sentenza di assoluzione del Tribunale.
L’accoglimento del primo motivo, restando assorbiti i successivi, determina l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata ad altra sezione della Corte di appello di Torino.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino.
Così deciso il 14/02/2024.