Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 4188 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 4188 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Sassuolo il 30/03/1994 NOMECOGNOME nato a Catania il 17/06/1980
avverso la sentenza del 05/06/2024 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME, difensore di Rizzo Salvaore, il quale, nel rappresentare di essere impossibilitato a partecipare alla trattazione orale del procedimento, la quale era stata richiesta dal difensore di Ragusa NOMECOGNOME ha insistito per l’accoglimento del ricorso e ha chiesto di essere sostituito da un altro difensore ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen.;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore 9enerale NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di Ragusa NOMECOGNOME il quale, dopo la discussione, ha insistito per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 05/06/2024, la Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza del 26/06/2023 del G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia, emessa in esito a giudizio abbreviato, con la quale:
NOME COGNOME e NOME COGNOME erano stati condannati per i reati, commessi in concorso tra loro (oltre che con NOME COGNOME, giudicata separatamente), di:
rapina pluriaggravata ai danni di NOME COGNOME di cui al capo A) dell’imputazione;
simulazione di reato di cui al capo B) dell’imputazione;
detenzione e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo di cui al capo C) dell’imputazione;
lesione personale grave ai danni di NOME COGNOME di cui al capo D) dell’imputazione;
NOME COGNOME era stato condannato anche per i reati, commessi in concorso con NOME COGNOME (giudicato separatamente), di:
rapina pluriaggravata ai danni di NOME COGNOME di cui al capo E) dell’imputazione;
detenzione e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo di cui al capo F) dell’imputazione.
La Corte d’appello di Bologna confermava altresì le pene che erano state applicate ai due imputati dal G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia per i suddetti reati, unificati dal vincolo della continuazione, nella misura, rispettivamente, di anni e 4 mesi di reclusione ed C 3.067,00 di multa per NOME COGNOME e di 5 anni e 8 mesi di reclusione ed € 2.000,00 di multa per NOME COGNOME.
Avverso tale sentenza del 05/06/2024 della Corte d’appello di Bologna, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti e per il tramite dei propr rispettivi difensori, NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a due motivi.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo ad alcuni aspetti della determinazione della misura della pena.
Il COGNOME lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Bologna avrebbe reso una motivazione solo apparente del rigetto del suo motivo di appello con il quale aveva lamentato l’eccessività della pena detentiva base di 9 anni e 6 mesi di reclusione
che gli era stata applicata dal G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia per il più grave reato di rapina di cui al capo A) dell’imputazione.
Il ricorrente contesta che la Corte d’appello di Bologna non avrebbe dato alcuna risposta alle doglianze che egli aveva avanzato nei confronti delle motivazioni che avevano indotto il G.i.p. del Tribunale di Bologna a determinare la pena nell’indicata misura di 9 anni e 6 mesi di reclusione, superiore al previsto minimo edittale di 6 anni di reclusione, atteso che la stessa Corte d’appello si sarebbe in proposito limitata ad affermare che la medesima pena era stata «correttamente individuata nella cornice edittale prevista per la rapina monoaggravata» (pag. 12, primo capoverso, della sentenza impugnata), così «limitandosi a confermare tautologicamente la correttezza della pena base, come ascrivibile alla cornice edittale della norma incriminatrice, risultandone una motivazione del tutto illogica, mancante ovvero meramente apparente».
In secondo luogo, il COGNOME contesta la motivazione con la quale la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il suo motivo di appello là dove, con esso, egli aveva dedotto l’eccessività dell’aumento di pena detentiva di un anno e 6 mesi di reclusione che gli era stato applicato dal G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia per la continuazione con il reato di rapina di cui al capo E) dell’imputazione (sulla considerazione che tale rapina sarebbe stata di «gravità pressoché pari» a quella di cui al capo “A” dell’imputazione; pag. 30, primo capoverso, della sentenza di primo grado).
Secondo il ricorrente, la motivazione della Corte d’appello di Bologna, che è esposta nel primo capoverso della pag. 13 della sentenza impugnata, sarebbe meramente apparente, oltre che contraddittoria, in quanto: 1) la vittima della rapina NOME Astrologi non gli aveva consegnato l’incasso giornaliero della sua tabaccheria ma solo la somma di € 100,00, con la conseguenza che «parrebbe che la condotta dell’imputato non avesse poi compresso più di tanto la capacità di reazione della persona offesa»; 2) «la pericolosità delle condotte di violenza e minaccia sono intrinseche al possesso dell’arma, già costituente circostanza aggravante del reato e fattispecie autonoma posta in continuazione».
Il ricorrente conclude sul punto che l’aumento di pena congruo per la rapina di cui al capo E) dell’imputazione «avrebbe dovuto essere contenuto nel minimo edittale».
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Dopo avere esposto che, con il proprio atto di appello, aveva lamentato come il G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia, pur avendogli riconosciuto le circostanze
attenuanti generiche, «le avesse applicate in misura ridotta», il COGNOME lamenta che la motivazione fornita dalla Corte d’appello di Bologna al secondo capoverso del punto 4.3.2 della sentenza impugnata (pag. 11) non avrebbe colto l’oggetto di tale doglianza, che era costituito, come detto, dal fatto che il G.i.p. del Tribunale d Reggio Emilia aveva ritenuto che la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche non potesse essere operata nel massimo consentito a causa della «non spontaneità» della confessione dell’imputato.
A proposito di tale presunta «non spontaneità», il COGNOME evidenzia come egli avesse confessato anche una rapina «per la quale neppure sapeva di essere indagato» (cioè, si deve ritenere, quella di cui al capo “E” dell’imputazione) e avesse anche «collaborato su aspetti del tutto estranei ai reati di cui al presente giudizio, e su fatti addebitabili ad altri, nonostante il timore di ritors (circostanza peraltro sottolineata a più riprese anche nella sentenza qui impugnata!), tanto che, come risulta dagli atti, è stato possibile recuperare sostanze stupefacenti presso l’immobile di Ragusa Francesco proprio grazie alle informazioni fornite dall’imputato».
La motivazione sarebbe quindi contraddittoria là dove la Corte d’appello di Bologna «da un lato afferma l’importanza e la centralità della confessione di COGNOME nel quadro probatorio contro il coimputato e per altro verso non censura la sentenza del primo grado che “svalutava” tale confessione ritenendola insufficiente alla concessione massima della riconoscibilità delle attenuanti di cui all’art 62 bis c.p.».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a tre motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione «in relazio alla sussistenza del delitto di cui al capo A) anziché del leviore delitto favoreggiamento personale».
Il COGNOME lamenta anzitutto la manifesta illogicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Bologna, al secondo e al terzo capoverso della pag. 8 della sentenza impugnata, ha ritenuto non credibile la versione dei fatti che era stata resa dallo stesso COGNOME in sede di interrogatorio di garanzia (reputando, invece, pienamente attendibili le dichiarazioni che erano state rese dal coimputato NOME COGNOME il quale aveva chiamato in correità il COGNOME).
Secondo il ricorrente, la lamentata manifesta illogicità della motivazione sussisterebbe in quanto: 1) nel primo dei menzionati capoversi «si evidenzia come appaia singolare che Ragusa NOME nelle captazioni, pur sapendosi accusato dall’amico di concorso nel grave delitto di rapina a mano armata, non accenni almeno al fatto di essere calunniato»; 2) nel secondo dei menzionati capoversi,
«si evidenzia proprio il sentimento di rabbia e di risentimento manifestato da Ragusa nei confronti dell’amico COGNOME Salvatore per essere stato accusato ingiustamente e, dunque, per essere stato calunniato».
Il COGNOME deduce inoltre che, mentre nel primo dei menzionati capoversi «si evidenzia che COGNOME NOME non si sarebbe professato innocente», immediatamente dopo, nel secondo dei due capoversi, «si evidenzia che lo stesso COGNOME dice “me la sucano le prove ci vogliono fra”, ostentando dunque L.] la propria tranquillità per l’essere innocente e dunque la carenza di elementi di prova a suo carico diversi ed ulteriori rispetto alla avvenuta chiamata in correità».
In secondo luogo, il COGNOME lamenta la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione «nella ricostruzione dei fatti che costituirebbero il riscontro esterno alle dichiarazioni di COGNOME».
Secondo il ricorrente, tali vizi della motivazione risulterebbero alla luce del fatto che la Corte d’appello di Bologna asserisce (al quinto capoverso della pag. 9 della sentenza impugnata) che egli deteneva nella propria abitazione l’arma con la quale fu commessa la rapina, mentre poche righe prima (al terzo capoverso della pag. 9 della sentenza impugnata) aveva affermato che, dall’analisi dei filmati che erano stati effettuati presso l’abitazione del Ragusa durante la perquisizione locale di essa (del 29/09/2022), confrontati con i video che erano contenuti nel telefono cellulare del COGNOME, era emerso che il 10/08/2022, cioè prima delle due rapine di cui ai capi A) ed E) dell’imputazione (le quali erano state commesse, con la stessa pistola: quella di cui al capo “A”, il 12/09/2022; quella di cui al capo “E il 25/08/2022), «De Iudicibus NOME, che si trovava presso l’abitazione di Ragusa Francesco, puliva minuziosamente proprio la pistola poi utilizzata nelle due rapine».
Il COGNOME deduce quindi che «on risponde dunque al vero che COGNOME NOME deteneva l’arma presso la propria abitazione, l’arma era detenuta dalla De Iudicibus, che puliva l’arma; che ciò poi sia avvenuto estemporaneamente nella abitazione di NOME, ove la stessa spesso accedeva per ragioni di vicinanza degli appartamenti e senza la prova della presenza del COGNOME NOME, è altra e diversa circostanza».
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione «in relazione alla sussistenza del delitto di cui al capo C) e D)».
Nel richiamare quanto argomentato nel primo motivo con riguardo alla ritenuta detenzione, da parte sua, della pistola di cui al capo C) dell’imputazione, il Ragusa rappresenta che, «dalle risultanze in atti, risulterebbe come: il 04/08/2022 la pistola si trovasse nella mani della COGNOME, che si occupava di pulirla a casa del Ragusa, senza che, peraltro, dal video che ritraeva la donna, si
vedesse o si sentisse il Ragusa; il 10/08/2022, l’arma fosse nella disponibilità della De Iudicibus e del COGNOME, i quali, nel video che li ritraeva, la utilizzavano p sparare, senza che, nello stesso video, vi fosse traccia del Ragusa o di luoghi di sua pertinenza; il 24/08/2022, il COGNOME e il COGNOME avessero utilizzato la pistol anche in questo caso senza che risultasse la presenza del Ragusa o di luoghi a lui riconducibili; il 25/08/2022, il COGNOME avesse utilizzato la pistola per commettere la rapina di cui al capo E) dell’imputazione in concorso con il COGNOME; il 12/09/2022, fosse stato il COGNOME a utilizzare la pistola per commettere materialmente la rapina di cui al capo A) dell’imputazione.
Tanto esposto, il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Bologna non avrebbe «spiega perché il COGNOME, che nel volgere dì circa un mese utilizza la pistola almeno 4 volte, debba lasciarla in custodia a Ragusa, per poi doverla prelevare e riportare in tutte le occasioni in cui decide di utilizzarla».
Quanto al reato di lesioni gravi di cui al capo D) dell’imputazione, il Ragusa espone che dalla sentenza impugnata emergerebbe che, secondo la Corte d’appello di Bologna, «la responsabilità del Ragusa in ordine al delitto di cui al capo D) “discenda da quanto argomentato” cioè dalla ritenuta responsabilità per la detenzione dell’arma che secondo la motivazione della Corte di appello (pag. 9) sarebbe stata “fornita a COGNOME NOME” proprio da COGNOME NOME», con la conseguenza che dall’annullamento della sentenza impugnata per il capo C) dell’imputazione dovrebbe discendere l’annullamento della stessa sentenza anche per il capo D).
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., con riguardo alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Il COGNOME contesta anzitutto il primo argomento utilizzato dalla Corte d’appello di Bologna per confermare tale diniego, costituito dal fatto che egli era gravato da «numerosi precedenti penali» (pag. 11 della sentenza impugnata), lamentando al riguardo che la stessa Corte d’appello, con l’utilizzare tale argomento, non avrebbe tenuto conto che, nei suoi confronti, era stata ritenuta la recidiva reiterata, con l conseguenza che, «pertanto, tale elemento negativo non può essere oggetto di duplice valutazione da parte della Corte».
Il ricorrente contesta poi il secondo argomento utilizzato dalla Corte d’appello di Bologna per confermare il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, costituito dal fatto che egli non avrebbe «mostrato alcun tipo di resipiscenza né sembra aver compiuto neppure iniziale revisione critica dei fatti commessi», lamentando al riguardo che il suo interrogatorio di garanzia «dimostr l’esatto contrario», in quanto egli aveva ammesso di: avere
accompagnato il COGNOME sul luogo della rapina; averlo atteso in auto mentre lo stesso COGNOME consumava il delitto; avere accompagnato a casa il COGNOME dopo la rapina; udito gli spari, visto il COGNOME correre verso l’auto e, ciò nonostante, averlo atteso caricato in auto e portato a casa; avere accompagnato la De Iudicibus a nascondere l’autovettura che era stata utilizzata per la rapina; avere riparato la moto del COGNOME; fare uso di sostanze stupefacenti e destinarne una parte a propri amici e clienti e ciò prima che si fosse proceduto a perquisizione nei suoi confronti o che gli fossero state fatte contestazioni al riguardo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente, si deve affermare l’inammissibilità della richiesta che è stata avanzata dell’avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME nelle proprie conclusioni scritte, di essere sostituito da un altro difensore ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen.
È stato infatti ripetutamente chiarito che, nel giudizio di cassazione, non è prevista la sostituzione con un difensore di ufficio del difensore che sia impossibilitato a comparire all’udienza fissata per la discussione del ricorso (Sez. 4, n. 22797 del 17/04/2018, COGNOME, Rv. 272996-01; Sez. 4, n. 12479 del 25/02/2016, COGNOME, Rv. 266407-01).
Il ricorso di NOME COGNOME.
2.1. Il primo motivo non è consentito.
2.1.1. Con riguardo alla parte del motivo che concerne la determinazione della misura della pena detentiva base per il reato di rapina di cui al capo A) dell’imputazione, si deve anzitutto rilevare l’erroneità dell’affermazione del ricorrente secondo cui la Corte d’appello di Bologna si sarebbe al riguardo «limita ad affermare che “la pena per il delitto più grave stabilit giudice di primo grado per entrambi gli imputati è stata correttamente individuata nella cornice edittale prevista per la rapina mono-aggravata» (con la conseguenza che la stessa Corte d’appello di Bologna si sarebbe «limita a confermare tautologicamente la correttezza della pena base, come ascrivibile alla cornice edittale della norma incriminatrice»).
Dalla lettura della sentenza impugnata risulta infatti che la motivazione sul punto della determinazione della misura della pena per il reato di rapina di cui al capo A) dell’imputazione non consiste soltanto, come mostra di ritenere erroneamente il ricorrente, nella frase, dallo stesso citata, «la pena per il delitt più grave stabilita dal giudice di primo grado per entrambi gli imputati [… stata correttamente individuata nella cornice edittale prevista per la rapina monoaggravata», ma consiste anche nell’ulteriore argomentazione secondo cui: «il modesto discostamento dal minimo edittale (comunque ben lontano dal medio
edittale, pari ad anni 13) è ampiamente giustificato e adeguato al disvalore della condotta delittuosa, contraddistinta da una spiccata ingravescenza e perniciosità come si desume dall’entità e modalità della violenza e minaccia esercitata sulla vittima (la intimidiva con la pistola e, non bastando, esplodeva vari colpi in aria e infine puntava alle gambe, ferendola gravemente)».
Il ricorrente ha pertanto del tutto omesso di confrontarsi con tale argomentazione – la quale costituisce evidentemente la parte effettivamente significativa della motivazione della Corte d’appello di Bologna -, che ha erroneamente completamente trascurato, ciò che integra una prima ragione per la quale il motivo, nella parte che concerne la determinazione della misura della pena detentiva base per il reato di rapina di cui al capo A) dell’imputazione, si deve ritenere non consentito.
2.1.2. In ogni caso, e con riguardo al motivo nella sua interezza – inclusa, cioè, la parte di esso che concerne la determinazione della misura dell’aumento di pena detentiva per la continuazione con il reato di rapina di cui al capo E) dell’imputazione -, si deve osservare che giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, come pure degli aumenti per la continuazione, rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simi nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, S 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolver al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, si deve in primo luogo osservare che la pena detentiva di 9 anni e 6 mesi di reclusione che è stata irrogata per il più grave reato di rapina aggravata dalla circostanza aggravante “privilegiata” di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-quater), cod. pen. – la quale è insuscettibile di bilanciamento, per il divieto di cui al quinto comma dell’art. 628 cod. pen. – è di gran lunga al di sotto della media edittale della pena che è prevista dal terzo comma dell’art. 628 cod.
pen. per il delitto di rapina mono-aggravata (media edittale che, come è stato esattamente evidenziato dalla Corte d’appello di Bologna, è pari a 13 anni di reclusione), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto dalla Corte d’appello di Bologna mediante la valorizzazione, operata dalla stessa Corte, del disvalore della condotta criminosa, in quanto connotata da perniciosità anche ingravescente, quale risultava dall’entità e dalle modalità della minaccia e della violenza, atteso che il COGNOME aveva prima intimidito la persona offesa con la pistola e poi, poiché ciò non era bastato, aveva esploso dei colpi di pistola in aria e aveva infine sparato alle gambe della vittima, ferendola gravemente.
In secondo luogo, quanto alla motivazione della determinazione dell’aumento di pena detentiva di un anno e 6 mesi di reclusione per la continuazione con il reato di rapina di cui al capo E) dell’imputazione, l’argomentazione della Corte d’appello di Bologna – secondo cui tale aumento di pena «è da ritenersi proporzionato e adeguato al disvalore della fattispecie delittuosa posta in essere, contraddistinta da una spiccata pericolosità delle condotte di violenza e minaccia, perpetrata con modalità tali da comprimere la capacità di reazione della persona offesa dal momento che COGNOME Salvatore entrava nella tabaccheria con il volto travisato e minacciava NOME anche esplodendo colpi di pistola per convincerlo a consegnare l’incasso» (primo capoverso della pag. 13 della sentenza impugnata) – risulta anch’essa pienamente idonea ad assolvere l’onere motivazionale che gravava sulla stessa Corte d’appello. Appare infatti di tutta evidenza come non solo il brandire una pistola ma esplodere anche un colpo di essa costituiscano, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, condotte chiaramente «tali da comprimere la capacità di reazione della persona offesa». Inoltre, ai fini della determinazione della pena, la Corte d’appello di Bologna, sempre diversamente da quanto appare ritenere il ricorrente, ben poteva tenere conto dello stesso elemento di fatto dell’uso della pistola, ancorché esso avesse assunto rilievo ai distinti fini dell’integrazione della circostanza aggravante dell’essere stata la violenza o minaccia commessa con armi e del reato di detenzione e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo di cui al capo C) dell’imputazione, senza incorrere nella violazione del principio del ne bis in idem sostanziale (Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, dep. 2019, M., Rv. 275904-03; Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechichi, Rv. 264378-01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Pertanto, poiché l’esercizio della discrezionalità che spetta al giudice del merito con riguardo alla determinazione della misura della pena si deve ritenere essere stato adeguatamente motivato dalla Corte d’appello di Bologna, ne consegue che le doglianze del ricorrente, in quanto sostanzialmente dirette a
ottenere una diversa e più ridotta quantificazione della stessa pena, non sono consentite in questa sede di legittimità.
2.2. Il secondo motivo non è consentito.
Con tale motivo, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Bologna non avrebbe «colto il punto oggetto di gravame», il quale punto era costituito dalla doglianza relativa al fatto che il G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia, pur avendo riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, «le avesse applicate in misura ridotta», cioè in misura inferiore al massimo consentito di un terzo della pena.
A tale proposito, si deve osservare che, nel formulare il motivo di ricorso, il COGNOME non si è avveduto che la Corte d’appello di Bologna ha in realtà implicitamente ma chiara onerure rigettato la suddetta doglianza col rilevare che (pag. 12, secondo e terzo capoverso, della sentenza impugnata), in base al principio che è stato affermato con la sentenza Cena delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 42414 del 29/04/2021, Cena, Rv. 282096-01) – secondo cui «e circostanze attenuanti che concorrono con aggravanti soggette a giudizio di comparazione ed una aggravante che non lo ammette in modo assoluto devono essere previamente sottoposte a tale giudizio e, se ritenute equivalenti, si applica la pena che sarebbe inflitta per il reato aggravato dalla circostanza “privilegiata”, senza tener conto delle stesse» (così la massima Rv. 282096-01) -, il G.i.p. del Tribunale dì Reggio Emilia, avendo concluso il giudizio di bilanciamento tra le riconosciute circostanze attenuanti generiche e le aggravanti soggette al medesimo giudizio in termini di equivalenza, non avrebbe dovuto operare alcuna diminuzione di pena per le suddette circostanze attenuanti, come aveva invece erroneamente fatto.
L’esatto rilievo, da parte della Corte d’appello di Bologna, di tale errore in favor dell’imputato, se da un lato non consentiva alla Corte d’appello di emendare lo stesso errore in difetto di impugnazione del pubblico ministero, a ciò ostando il divieto di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., dall’altro lato valeva senz’altr a escludere, implicitamente ma chiar£D 11é o- , qualsiasi possibilità di ritenere la fondatezza del motivo di appello con il quale l’imputato si era doluto dell’insufficienza di una diminuzione di pena che, in realtà, non avrebbe dovuto essere in alcun modo diminuita in considerazione della reputata equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle ritenute circostanze aggravanti soggette al giudizio di comparazione (da notare che il principio che è stato affermato dalla sentenza Cena è stato successivamente ribadito, con specifico riferimento alle circostanze aggravanti “privilegiate” di cui ai nn. 3, 3-bis, 3-ter e 3-quater del terzo comma dell’art. 628 cod. pen., da Sez. 2, n. 14655 del 07/03/2024, COGNOME Rv. 286212-01).
La mancata considerazione, da parte del ricorrente, di tale implicita ma chiarissima ragione di rigetto della doglianza che egli aveva prospettato con il proprio atto di appello comporta che il motivo si debba ritenere non consentito.
3. Il ricorso di NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3.1.1. È, anzitutto, manifestamente insussistente la denunciata manifesta illogicità delle motivazioni con le quali la Corte d’appello di Bologna ha argomentato la non credibilità della versione dei fatti che era stata fornita dal Ragusa nel corso del proprio interrogatorio di garanzia (reputando, invece, pienamente attendibili le dichiarazioni che erano state rese dal COGNOME, il quale aveva chiamato in correità il Ragusa).
Il ricorrente deduce in primo luogo la manifesta illogicità dell’argomentazione che è stata sviluppata dalla Corte d’appello di Bologna al secondo capoverso della pag. 8 della sentenza impugnata, là dove la Corte d’appello scrive che: «vi è un’obiettiva e illogica discordanza tra la versione fornita in interrogatorio d garanzia e l’atteggiamento da lui assunto nelle conversazioni captate: NOME NOME, allorché non sapeva di essere intercettato, non si è mai dichiarato espressamente estraneo ai fatti né ha riportato all’interlocutore la versione attenuata fornita in interrogatorio: ciò non è coerente e logico poiché una persona, a suo dire ingiustamente coinvolta, nell’ambito di conversazioni private certamente professa la propria innocenza o almeno accenna al fatto di essere stato calunniato, sottolinea di non avere saputo nulla delle reali intenzioni dell’amico e di avere scoperto la cosa solo con gli spari, si lamenta di essere stato a sua insaputa coinvolto in fatti di tale gravità».
A proposito di tale argomentazione, il COGNOME si limita ad affermare che, con essa, «si evidenzia come appaia singolare che COGNOME NOME nelle captazioni, pur sapendosi accusato dall’amico dì concorso nel grave delitto di rapina a mano armata, non accenni almeno al fatto di essere calunniato», in tal modo limitandosi in realtà lo stesso COGNOME a indicare il contenuto dell’argomentazione da lui contestata senza però indicare per quale ragione la stessa si dovrebbe ritenere manifestamente illogica.
In ogni caso, una tale illogicità si deve ritenere manifestamente insussistente, atteso che appare invece del tutto logico ritenere, come ha fatto la Corte d’appello di Bologna, che «non è coerente e logico» che una persona che sia stata ingiustamente accusata di un delitto che non ha commesso, nel parlare privatamente con altri del fatto, non professi mai la propria innocenza né accusi il proprio accusatore (il COGNOME) di averlo calunniato.
Il GLYPH ricorrente GLYPH deduce GLYPH in GLYPH secondo GLYPH luogo GLYPH la GLYPH manifesta GLYPH illogicità dell’argomentazione che è stata sviluppata dalla Corte d’appello di Bologna al terzo
capoverso della pag. 8 della sentenza impugnata, là dove la Corte d’appello scrive che: «il sentimento di rabbia mostrato nei confronti di COGNOME Salvatore, il quale non avrebbe dovuto confessare né coinvolgerlo: COGNOME NOME nelle conversazioni captate, intercorse con la compagna COGNOME NOME (27/10/2022) e ambientali (nella Caserma dei Carabinieri di Reggio Emilia, allorché si sfogava con COGNOME NOME), si dimostra indignato per l’accaduto ma non per l’ingiusta accusa ma per la sprovvedutezza e faciloneria mostrata dal correo (“cazzo gli ha detto della pistola”), tale da impedirgli di imbastire una versione dei fatt alternativa (“dicono che c’ero io… aia, aia, aia… me la sucano… le prove ci voglion fra…”), inveisce contro COGNOME Salvatore che ha mostrato debolezza (“testa di minchia, handicappato”)».
A proposito di tale argomentazione, il COGNOME afferma che, con essa, «si evidenzia proprio il sentimento di rabbia e di risentimento manifestato da Ragusa nei confronti dell’amico COGNOME Salvatore per essere stato accusato ingiustamente e, dunque, per essere stato calunniato».
In realtà, la stessa argomentazione della Corte d’appello di Bologna evidenzia come la rabbia mostrata dal COGNOME nei confronti del COGNOME fosse dovuta non al fatto che lo stesso COGNOME lo aveva accusato nonostante egli fosse innocente – come è sostenuto, in modo, peraltro, anapodittico, dal ricorrente -, ma al “tradimento” dell’amico e alla sprovvedutezza e alla debolezza che egli aveva mostrato nei confronti degli inquirenti, in quanto tali da pregiudicare la difesa del (perci arrabbiato) Ragusa.
Quanto, poi, alla frase, che è stata pronunciata dal ricorrente nel corso di una conversazione intercettata e che è dallo stesso invocata, «me la sucano le prove ci vogliono fra», essa risulta logicamente dimostrativa di una «tranquillità» del Ragusa dovuta non al suo «essere innocente», come è sostenuto nel ricorso, ma alla convinzione che non vi fossero prove della sua colpevolezza ulteriori rispetto alla chiamata in correità del COGNOME.
Ne discende che i lamentati vizi di manifesta illogicità delle motivazioni con le quali la Corte d’appello di Bologna ha argomentato la non credibilità della versione dei fatti che era stata fornita dal COGNOME si devono ritenere manifestamente insussistenti, mentre appare del tutto logica e coerente la conclusione della Corte d’appello di Bologna secondo cui «l’atteggiamento assunto da COGNOME NOME non corrisponde alla posizione di colui che è stato ingiustamente incriminato di un delitto non commesso o non concordato ma, al contrario, appare perfettamente coerente con il contegno di colui che, in ragione della completezza della confessione resa dal concorrente, non può organizzare la propria difesa, non può costruire una plausibile versione alternativa dei fatti».
Poiché la denunciata manifesta illogicità delle motivazioni con le quali la Corte d’appello di Bologna ha argomentato la non credibilità della versione dei fatti che era stata fornita dal COGNOME si deve ritenere manifestamente insussistente, ne discende che risulta, perciò, del tutto logico che la stessa Corte d’appello abbia reputato la stessa versione dei fatti inidonea a smentire quella che era stata fornita dal COGNOME, che i Giudici bolognesi hanno motivatamente ritenuto credibile (con le argomentazioni che sono contenute al punto 4.1.1 della sentenza impugnata; pagine da 6 a 7 di essa).
3.1.2. È, in secondo luogo, manifestamente insussistente la denunciata manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con la quale la Corte d’appello di Bologna ha ritenuto che l’attendibilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie del COGNOME nei confronti del Ragusa avessero trovato conferma nell’elemento di riscontro costituito della detenzione, da parte del Ragusa, nella propria abitazione, della pistola con la quale era stata commessa la rapina.
Si deve anzitutto osservare che tale elemento di prova non costituisce l’unico riscontro alla chiamata in correità del COGNOME da parte del COGNOME che è stato valorizzato dalla Corte d’appello di Bologna.
La Corte d’appello felsinea ha,infatti, in tale prospettivavalorizzato anche le dichiarazioni che erano state rese dal testimone oculare NOME COGNOME il quale aveva riferito che l’autovettura Lancia Y che era guidata dal Ragusa – circostanza, questa, che è stata ammessa dallo stesso ricorrente – era ferma «in attesa» al centro della carreggiata e bloccava le altre autovetture in entrambi i sensi di marcia e che, non appena l’esecutore materiale della rapina, cioè il COGNOME, era risalito a bordo dal lato passeggero, la stessa autovettura Lancia Y era immediatamente ripartita a forte velocità.
Tale elemento di prova, che appare tale da costituire anch’esso un riscontro estrinseco individualizzante alle dichiarazioni etero-accusatorie del COGNOME nei confronti del Ragusa, non è stato in alcun modo contestato dal ricorrente.
Venendo, comunque, all’elemento di riscontro che è oggetto di contestazione, si deve osservare come il G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia – la cui sentenza, ricorrendo qui una cosiddetta “doppia conforme”, costituisce un unico complessivo corpo decisionale con quella di secondo grado, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente e che le loro argomentazioni si saldano tra loro -, con riguardo al fatto che, nel video che era stato rinvenuto nel telefono cellulare del COGNOME e che era risultato essere stato girato nell’abitazione del Ragusa, si vedeva che a pulire la pistola era la De Iudicibus, ha argomentato che il fatto che il fatto che questa, in casa del Ragusa, si accingesse a pulire comodamente e approfonditamente l’arma, in modo non rapido ma avvalendosi di guanti in lattice e di una pezzuola, appunto, in tutta comodità, rendeva
logicamente irragionevole l’ipotesi che la De Iudicibus avesse portato con sé presso il Ragusa un’arma detenuta altrove, pulendola poi con calma mentre veniva ripresa, e faceva invece logicamente ritenere che la donna avesse pulito l’arma nell’abitazione dove questa veniva conservata a disposizione dei tre malviventi, cioè a casa del Ragusa, il quale, quindi, la deteneva (pag. 14 della sentenza di primo grado).
Tale motivazione della detenzione dell’arma da parte del Ragusa – che, come si è detto, si deve ritenere integrare quella della Corte d’appello di Bologna -, oltre a non essere stata contestata nel ricorso, appare priva di illogicità, tanto meno manifeste, con la conseguenza che l’elemento di prova della detenzione dell’arma si deve reputare correttamente utilizzato dalla Corte d’appello di Bologna a riscontro della chiamata in correità del COGNOME, il quale aveva affermato che la pistola che aveva utilizzato per commettere la rapina gli era stata data da NOME COGNOME.
Pertanto, la motivazione con la quale la Corte d’appello di Bologna ha ritenuto che l’attendibilità delle dichiarazioni etero-accusatorie del COGNOME nei confronti del Ragusa fosse stata confermata da riscontri estrinseci (individualizzanti) si deve ritenere priva di manifeste illogicità e di incoerenze.
3.1.3. Poiché da quanto si è esposto risulta che la motivazione della Corte d’appello di Bologna in ordine al ritenuto concorso del Ragusa nella rapina di cui al capo A) dell’imputazione si deve ritenere esente da vizi, ne discende che ciò esclude logicamente che la condotta del Ragusa potesse essere qualificata come mero favoreggiamento personale.
3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Come si è visto esaminando il primo motivo, la detenzione della pistola di cui al capo C) dell’imputazione da parte del Ragusa è stata ritenuta provata sulla scorta delle dichiarazioni accusatorie del COGNOME, le quali avevano trovato conferma nell’elemento di prova costituito dal video che riprendeva NOME COGNOME mentre puliva l’arma a casa del Ragusa, dovendosi ritenere, come era stato non illogicamente argomentato dal G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia, che la COGNOME stesse pulendo un’arma detenuta non altrove ma nell’abitazione del Ragusa, dove essa veniva conservata «a disposizione dei tre malviventi» (pag. 14 della sentenza di primo grado).
Rispetto a quanto si è detto esaminando il primo motivo, si deve aggiungere che il G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia ha altresì addotto l’ulteriore elemento di prova costituito dalle dichiarazioni della COGNOME, la quale aveva riferito di avere visto l’arma in casa del Ragusa che, quindi, la deteneva colà occultata (e l’aveva fornita al COGNOME per commettere le due rapine di cui ai capi “A” ed “E”) (pag. 13, punto i, e pag. 14, primo capoverso, della sentenza di primo grado).
Quanto alla deduzione del ricorrente secondo cui la nota del 04/10/2022 dei Carabinieri avrebbe «esclu radicalmente che possa essere credibile il racconto della De Iudicibus laddove afferma che la pistola era conservata e custodita dal Ragusa» (punto 6 della pag. 7 del ricorso), si deve osservare: da un lato, come tale deduzione sia del tutto generica, atteso che il ricorrente non ha né riportato la suddetta nota né indicato per quali ragioni i Carabinieri avrebbero affermato che la De Iudicibus non era credibile sul punto; dall’altro lato, che la valutazione della credibilità di un dichiarante compete non ai Carabinieri ma al Giudice, il quale, nella persona del G.i.p. del Tribunale di Reggio Emilia, ha mostrato di avere ritenuto credibile quanto affermato dalla De Iudicibus.
Tale motivazione della detenzione della pistola di cui al capo C) dell’imputazione da parte del Ragusa appare priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità e, in particolare, a quelle del ricorrente, le quali, oltre a prefigurare una qui no consentita rivalutazione degli elementi di prova, per giungere a conclusioni differenti in ordine alla valenza probatoria degli stessi, appaiono comunque inidonee a scardinare logicamente la motivazione dei giudici di merito, atteso che il fatto che il COGNOME potesse avere utilizzato più volte la pistola nel corso di un mese non esclude che a dargliela fosse stato il Ragusa, che, secondo la non illogica ricostruzione dei giudici di merito, la deteneva, appunto, «a disposizione dei tre malviventi».
Quanto alle censure che riguardano l’affermazione di responsabilità per il reato di lesioni gravi di cui al capo D) dell’imputazione, poiché esse sono state formulate dal ricorrente sull’esclusivo presupposto della fondatezza delle sue censure concernenti l’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione della pistola di cui al capo C) dell’imputazione, dalla ritenuta manifesta infondatezza di queste ultime censure discende logicamente la manifesta infondatezza anche di quelle, da esse integralmente dipendenti, concernenti il capo C) dell’imputazione.
3.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Quanto alla prima contestazione del ricorrente, si deve osservare come la Corte di cassazione abbia affermato il principio – che il Collegio, condividendolo, intende ribadire e che smentisce l’opposta tesi sostenuta dal Ragusa – secondo cui il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell’imputato, in quanto il principi del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative ad istituti giuridici diversi (Sez. 6 57565 del 15/11/2018, COGNOME, Rv. 274783-01; Sez. 6, n. 47537 del 14/11/2013, COGNOME, Rv. 257281-01).
Quanto alla seconda contestazione del ricorrente, si deve osservare come la Corte d’appello di Bologna abbia non illogicamente ritenuto che il comportamento processuale del COGNOME fosse stato improntato alla «minimizzazione delle proprie responsabilità» in ordine ai reati a lui contestati. Tale valutazione non risulta logicamente smentita dalle circostanze che il COGNOME aveva ammesso in sede di interrogatorio di garanzia, le quali appaiono effettivamente legittimamente modulate in modo da escludere la responsabilità dell’imputato per i reati a lui contestati, con la conseguenza che le stesse dichiarazioni sono state perciò non illogicamente ritenute dalla Corte d’appello di Bologna insuscettibili di costituire un elemento positivo ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Ne discende che la Corte d’appello di Bologna, nell’esprimere quello che è un giudizio di fatto, ha dato logicamente conto degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., che ha considerato preponderanti ai fini del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche (in specie, i precedenti penali dell’imputato), senza incorrere in contraddizioni, con la conseguenza che tale motivazione sfugge a censure in questa sede di legittimità (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269-01, con la quale la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato).
Pertanto, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, in quanto proposti per motivi non consentititi o manifestamente infondati, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 14/01/2025.