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Motivazione della pena: obbligo del giudice di merito

La Corte di Cassazione ha annullato una sentenza d’appello per difetto di motivazione della pena. I giudici di secondo grado, dopo aver dichiarato l’improcedibilità per un capo d’imputazione, avevano rideterminato la sanzione per il reato residuo applicando meccanicamente la stessa pena base fissata in primo grado per il reato più grave, ora estinto. La Suprema Corte ha ribadito che il giudice deve sempre fornire una motivazione autonoma e specifica per la pena irrogata, basata sui criteri dell’art. 133 c.p., senza potersi limitare a una mera operazione aritmetica.

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Pubblicato il 9 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Motivazione della Pena: Perché il Giudice Deve Sempre Spiegare la Sua Decisione

La corretta motivazione della pena è un pilastro fondamentale del nostro sistema giudiziario, garanzia di una giustizia non arbitraria ma ponderata. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 13/2025, ha ribadito con forza questo principio, annullando una decisione di secondo grado proprio per un grave difetto motivazionale. Il caso in esame offre un’importante lezione sull’obbligo del giudice di merito di giustificare in modo puntuale la quantificazione della sanzione, specialmente quando la struttura dell’accusa cambia nel corso del processo.

I Fatti del Caso: Un Ricalcolo della Pena Finito in Cassazione

La vicenda processuale ha origine da una condanna in primo grado emessa dal Tribunale di Forlì nei confronti di due imputati per due episodi di furto aggravato, uniti dal vincolo della continuazione. Il giudice di primo grado aveva individuato il reato più grave (capo A), determinato per esso una pena base e poi aumentato tale pena per il secondo reato (capo B).

In appello, la Corte di Bologna ha dichiarato l’improcedibilità del reato sub A) per mancanza di querela. A questo punto, i giudici avrebbero dovuto ricalcolare la pena basandosi unicamente sul reato residuo, il furto sub B). Invece, in modo quasi automatico, la Corte territoriale ha mantenuto la stessa pena base che il primo giudice aveva stabilito per il reato più grave (ora estinto) e si è limitata a sottrarre l’aumento per la continuazione. Il risultato è stata una condanna a dieci mesi di reclusione e 200 euro di multa, ma senza una parola di spiegazione sul perché quella specifica pena fosse congrua per il singolo reato rimasto in piedi.

La Lacuna Motivazionale e il Ricorso per Cassazione

I difensori degli imputati hanno prontamente impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, denunciando un palese vizio di motivazione. Essi hanno sostenuto che la Corte d’Appello avesse omesso completamente di spiegare le ragioni della determinazione del trattamento sanzionatorio. In pratica, la pena inflitta era quella pensata per un reato diverso e più grave, e non vi era alcun ragionamento che la collegasse specificamente al reato per cui era stata effettivamente pronunciata la condanna. Inoltre, il bilanciamento tra le circostanze aggravanti e le generiche attenuanti era risultato illogico, non tenendo conto della mutata situazione processuale.

Il Principio di Diritto: L’Obbligo di una Specifica Motivazione della Pena

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendolo fondato. La sentenza ribadisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, ma tale discrezionalità non è assoluta. Essa deve essere esercitata nel rispetto dell’obbligo di motivazione imposto dall’articolo 133 del codice penale. Questo articolo elenca una serie di criteri (gravità del reato, capacità a delinquere del colpevole) che il giudice deve considerare per commisurare una pena equa e proporzionata.

La Suprema Corte ha chiarito che una motivazione, anche se succinta, deve esistere. Espressioni generiche come “pena congrua” o un semplice richiamo alla gravità del fatto non sono sufficienti se non sono ancorate a elementi concreti del caso. Nel caso specifico, la motivazione era totalmente assente.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte ha definito il procedimento seguito dai giudici d’appello come un “vizio motivazionale”. Essi non hanno svolto un’autonoma valutazione sulla sanzione da applicare al reato residuo (capo B), ma si sono limitati a una “mera sottrazione aritmetica” dell’aumento per la continuazione. Questo approccio meccanicistico è stato censurato perché elude l’obbligo di fornire una giustificazione concreta e specifica per la pena irrogata. Il giudice deve spiegare perché, alla luce dei criteri dell’art. 133 c.p., ritiene giusta una determinata sanzione per quel reato e per quell‘imputato.

Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’Appello di Bologna per un nuovo giudizio sul punto. La declaratoria di responsabilità penale degli imputati è invece divenuta irrevocabile.

Conclusioni

Questa decisione sottolinea l’importanza cruciale della motivazione come strumento di controllo sulla discrezionalità del giudice e come garanzia per l’imputato. Non è ammissibile che una pena venga determinata attraverso automatismi o calcoli aritmetici che prescindono da una valutazione ponderata del fatto concreto. Ogni condanna deve essere supportata da un percorso logico-giuridico trasparente e verificabile, che dimostri come il giudice sia giunto a quella specifica quantificazione della pena. In assenza di ciò, come dimostra questo caso, la decisione è illegittima e destinata ad essere annullata.

Quando un giudice d’appello proscioglie l’imputato da un reato, come deve ricalcolare la pena per i reati residui?
Il giudice d’appello deve procedere a una nuova e autonoma determinazione della pena per il reato residuo, fornendo una specifica motivazione basata sui criteri dell’art. 133 c.p. (gravità del reato, capacità a delinquere, etc.), senza potersi limitare a ricalcare la pena base fissata in primo grado per il reato, più grave, venuto meno.

È sufficiente che un giudice, nel rideterminare una pena, sottragga semplicemente la parte di pena relativa al reato estinto?
No, non è sufficiente. Secondo la Corte di Cassazione, una mera sottrazione aritmetica dell’aumento per la continuazione, mantenendo inalterata la pena base del reato più grave ormai estinto, costituisce un vizio di motivazione, poiché omette la necessaria valutazione autonoma sulla congruità della pena per il reato residuo.

Cosa si intende per “vizio motivazionale” in relazione alla determinazione della pena?
Per “vizio motivazionale” si intende l’assenza totale, l’illogicità o la contraddittorietà della spiegazione fornita dal giudice per giustificare la misura della pena inflitta. Anche motivazioni troppo generiche o apparenti, che non fanno riferimento a elementi concreti del caso, configurano questo tipo di vizio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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