Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 3852 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 3852 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a BERGAMO il 04/09/1954
avverso la sentenza del 02/05/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Torino, con sentenza del 2 maggio 2024, confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile del reato di ricettazione.
1.1. Avverso la sentenza ricorre per cassazione il difensore di COGNOME sollevando questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 604 cod. proc. pen. per violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e/o pe violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. laddove non prevede che venga dichiarata la nullità della sentenza appellata, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, quando non siano stati esplicitati i criteri e i calc posti a base della determinazione della pena; premette che nella sentenza di primo grado non vi era stata alcuna motivazione in ordine alla quantificazione della pena, circostanza che aveva impedito la valutazione sulla correttezza dei passaggi sottesi alla relativa determinazione; nonostante queste gravi mancanze, la Corte di appello aveva ritenuto di poter semplicemente integrare la motivazione della sentenza di primo grado, peraltro non operando la massima riduzione per le concesse circostanze attenuanti generiche.
1.2. Il difensore lamenta inoltre il travisamento delle prove valutate dalla Corte di appello in relazione al difetto di motivazione in ordine alla determinazione della pena e comunque per inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606 comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’art. 546, comma 1, lett. e) n. 2 cod. proc. pen.: la Corte di appello non aveva operato la riduzione massima per le attenuanti generiche, malgrado il Tribunale le avesse concesse per il comportamento processuale e per la collaborazione nell’acquisizione degli atti istruttori dibattimentali; non si potevano quind escludere due ipotesi, poste agli antipodi: 1) che il Tribunale di Verbania volesse partire dal minimo delle pana per giungere alla pena finale di anni uno e mesi quattro di reclusione, nel qual caso vi sarebbe stato un errore materiale nella determinazione della pena; 2) che il Tribunale fosse partito dalla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, concedendo nella massima estensione la riduzione per la concessione delle attenuanti generiche, per giungere alla pena di anni tre di reclusione; nella sentenza di primo grado non era però possibile ricavare alcun elemento utile con riguardo alla determinazione della pena, per cui era stato sottratto il controllo sull’uso fato dal giudice del suo pote discrezionale, e tale circostanza non poteva essere certo attenuata dalla presunta integrazione operata dalla Corte di appello.
1.3. Il difensore eccepisce infine il travisamento delle prove valutate dalla Corte di appello in relazione alla sussistenza dell’art. 648 cod. pen. e comunque
per inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 648 cod. pen.: la difesa aveva segnalato che il quadro probatorio risultava evanescente, non potendosi considerare elementi negativi il ritrovamento di Sim card e di un supporto per Sim intestati a cittadini stranieri irrintracciabili dei qu Sala “non forniva esaustive spiegazioni” (pag. 21 sentenza primo grado), né tantomeno il ritrovamento di mazzi di chiavi riconducibili al capannone o di materiale “sospetto” all’interno dello stesso: infatti, nel capannone de quo aveva sede la RAGIONE_SOCIALE di cui COGNOME era dipendente, società che integrava 64 addetti, in gran parte di nazionalità rumena, etnia corrispondente a quella dei coimputati condannati per i furti della merce ricettata da COGNOME; sorprendeva, infine, come il coimputato a titolo di concorso del reato ex art. 648 cod. pen. con COGNOME, ovvero COGNOME, fosse stato assolto per non aver commesso il fatto, avendo il Tribunale ritenuto più verosimile un rapporto di mera connivenza; la motivazione formulata dalla Corte di appello, oltre a non aver chiarito i profili critici so appena illustrati, risultava palesemente illogica, travisandone i relativi elementi di prova.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1. Relativamente al primo motivo di ricorso, si deve rilevare come la questione di costituzionalità sia stata già rigettata con sentenza n. 32373 del 04/06/2019, COGNOME, Rv. 276831-01 di questa Corte, che ha precisato che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 604 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice di appello, in caso di mancanza grafica della motivazione della sentenza appellata, ne dichiari la nullità e trasmetta gli atti al giudice di primo grado, in quanto non sussiste contrasto né con l’art. 111, comma 2, Cost. che, limitandosi a stabilire che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, demanda alla legge ordinaria la disciplina delle conseguenze dell’inosservanza di tale prescrizione, né con l’art. 24 Cost., posto che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non ha copertura costituzionale e, in ogni caso, va intesa nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di diversa istanza, anche se il primo non le abbia decise tutte”; tale principio vale a maggior ragione nel caso in esame, nel quale manca soltanto la parte della motivazione relativa alla quantificazione della pena.
Correttamente è stato quindi data continuità all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il giudice di secondo grado – in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto e conformemente al
principio di integrazione tra sentenza di primo grado e sentenza di appello – può integrare la motivazione della sentenza impugnata che non abbia specificato il calcolo effettuato per giungere alla pena finale, trattandosi di lacuna che non dà luogo ad alcuna nullità (Sez. 5, n. 13455 del 04/03/2022, COGNOME, Rv. 282878; Sez. 5, n. 40005 del 07/03/2014, COGNOME, Rv. 260303; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Conversa, Rv. 236181). Del resto, il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617).
Dunque, la motivazione offerta dalla Corte di appello ha valore integrativo di quella di primo grado ed è consentita, oltre a essere congrua quanto a esercizio della discrezionalità ai sensi dell’art. 133 cod. pen.
1.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, premesso quanto sopra ricordato, si deve ribadire che “la mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo non impone al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall’imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex art. 27 Cost.” (Sez. 2, n. 17347 del 26/01/2021, COGNOME, Rv. 281217); nel caso in esame, la Corte di appello ha ritenuto alla gravità del reato ed all’assenza di elementi processuali o extraprocessuali idonei a giustificare la concessione del beneficio, adempiendo così all’onere motivazionale richiesto.
1.3. Quanto al terzo motivo di ricorso, si deve precisare la natura del sindacato di legittimità – principi che questa Corte ha più volte ribadito – a mente dei quali gli aspetti del giudizio che si sostanziano nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi probatori attengono interamente al merito e non sono censurabili nel giudizio di legittimità, a meno che risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa; conduce alla valutazione di inammissibilità, in sede di legittimità, di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una rivalutazione del risultato probatorio. Non va infatti dimenticato che “… sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decision impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del tn”-,
merito” (cfr., Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099).
La Corte di appello ha ritenuto, con un giudizio di merito non censurabile nella presente sede, che non sussisteva alcuna contestazione sulla provenienza furtiva dei beni, valorizzando le conversazioni telefoniche e gli incontri di Sala con gli autori dei furti presso il magazzino (di cui Sala aveva le chiavi) della RAGIONE_SOCIALE utilizzato per il temporaneo deposito della merce e i contatti di Sala con le ditte di recupero del materiale ferroso; in particolare, i contatt telefonici venivano tenuti da COGNOME e non da altro dipendente della RAGIONE_SOCIALE in quanto COGNOME veniva chiamato con il suo nome di battesimo e i numeri di telefono intercettati risultavano allacciati alla cella telefonica dove si trovav l’abitazione di Sala (si veda l’ampia ed esaustiva motivazione della Corte di appello contenute nelle pagine da 10 a 13 della sentenza impugnata); del tutto irrilevante è, infine, la posizione del coimputato COGNOME, visto che la inconciliabili delle posizioni deve riferirsi ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza condanna e non già alla loro valutazione.
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile; ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di € 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 14/01/2025