Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 11089 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 11089 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 28/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Vizzini il DATA_NASCITA
avverso il decreto della Corte di appello di Catania dei 6/7/2023
Visti gli atti, il decreto impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso
RITENUTO IIN FATTO
Con decreto del 6 luglio 2023 la Corte di appello di Catania ha confermato il decreto emesso dal Tribunale della stessa città, con cui a NOME COGNOME, inquadrato nella categoria dei soggetti pericolosi di cui all’ari:. 1 lett. b) d.lgs 159/2011, è stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale
per la durata di anni uno, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza e imposizione di una cauzione.
Contro il decreto della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
2.1. Inesistenza della motivazione in ordine alla sussistenza di profitti ricavati dai reati e alla circostanza che tali profitti fossero stati l’unica font reddito per il ricorrente. Inoltre, l’arco temporale, in cui sono stati collocati i f sarebbe molto ristretto.
2.2. Inesistenza della motivazione in ordine al requisito dell’attualità della pericolosità, essendosi la Corte di appello limitata in maniera stereotipata a ribadire che l’applicazione del decreto era coeva alla pendenza del procedimento penale, così trascurando che il giudizio di pericolosità va compiuto dal giudice della prevenzione senza la possibilità di affidarsi a un sostanziale meccanismo di automatico riconoscimento della pericolosità ritenuta in sede cautelare penale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, nozione nella quale va ricompresa la motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento.
Siffatto principio, enunciato con riferimento alla disciplina previgente rispetto al D.Igs. n. 159/2011, è valido tuttora, in quanto l’art. 10, comma 3, di tale decreto, pure richiamato dall’art. 27, comma 2, per le misure reali, prevede espressamente che il ricorso in cassazione avverso il decreto della Corte di appello può essere presentato solo per violazione di legge.
Ciò esclude che nel giudizio di legittimità possano essere dedotti meri vizi della motivazione, che si traducano in forme di illogicità ovvero in una diversa interpretazione degli elementi dimostrativi, valutati dai giudici di merito. Di contro, sono rilevanti solo quei vizi che concretizzino una ipotesi di motivazione del tutto assente ovvero apparente, intesa quest’ultima come motivazione «del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito», trattandosi di vizio che sostanzia una «inosservanza della specifica norma processuale che impone, a pena di nullità, l’obbligo di motivazione dei
provvedimenti giurisdizionali» (così, tra le tante, Sez. IJ, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 – 01).
Alla luce di tale regula iuris deve rilevarsi che la motivazione dell’ordinanza impugnata è apparente, come dedotto dal ricorrente, le cui censure si sono condensate nel denunciare la mancata motivazione sui presupposti soggettivi per l’applicazione nei suoi confronti della misura di prevenzione personale quale soggetto che, per la condotta ed il tenore di vita, deve ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.
3.1. Al riguardo deve premettersi che la lettura dell’art. 1, lett. b), d.lgs. 159 del 2011, offerta dalla giurisprudenza delle leggi, nella prospettiva del rispetto dei canoni costituzionali e convenzionali che impongono i caratteri di «precisione, determinatezza e prevedibilità che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai suoi protocolli» (Corte cost. n. 24 del 27 febbraio 2019, § 11.2), conferma la necessità di verifica «del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in un determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito» (Corte cost. n. 24 del 27 febbraio 2019, § 12.2).
3.2. Nel caso in esame, la Corte di appello ha ricordato che il ricorrente, che risultava avere svolto attività lavorativa solo negli anni 2017 e 2019, era sottoposto a procedimenti per reati in materia di stupefacenti, commessi nel corso del 2020 e sino a gennaio 2021, e aveva riportato due condanne definitive: l’una, per il reato di cui all’art. 612 cod. pen., commesso nel 2001, e, l’altra, ex art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, commesso nel 2020.
Quanto alla pericolosità attuale, la Corte territoriale ha rilevato che per il procedimento pendente era stato chiesto il rinvio a giudizio il 7 marzo 2022 e il 28 luglio 2022 erano stati applicati gli arresti domiciliari, sicché doveva rilevars che il gravato decreto era intervenuto a breve distanza (19 dicembre 2022) ed era stato adottato «allorquando il procedimento era ancora in corso e ancora in atto la relativa misura cautelare – sia pure degli arresti domiciliari – fondata su pericolo di reiterazione concreto e attuale».
3.3. Siffatta motivazione, come detto, è apparente.
La Corte territoriale, infatti, si è limitata a richiamare i precedenti de ricorrente senza chiarire se le menzionate attività delittuose producessero profitti e se da esse egli avesse tratto, sia pure in parte, i proventi del suo sostentamento.
Di contro, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che la verifica in ordine alla ripetuta dedizione alle attività delittuose di cui alla lett. b) del d citato, dalle quali il soggetto tragga o abbia tratto, anche in parte, i proventi de suo sostentamento, non può limitarsi alla constatazione della condizione di mero indiziato per uno dei vari delitti da cui i proventi possono derivare, essendo necessario soddisfare la pressante esigenza di dare contenuto concreto alla nozione di pericolosità generica, al fine di delimitarne i confini e sottrarla ai rili critici di vaghezza e genericità provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale che, con la sentenza della Corte EDU De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017, ha espressamente posto in risalto la necessità di “una valutazione oggettiva delle prove che rivelino il comportamento e lo standard di vita dell’individuo” o la messa in evidenza di “segni specifici esteriori” delle sue tendenze criminali (tra tante, Sez. 6, n. 36216 del 13/07/2017, COGNOME, 21/07/2017, Rv. 271372).
3.4. L’ordinanza impugnata non sfugge ai rilievi del ricorrente nemmeno nella parte in cui ha menzionato il procedimento, nel cui ambito era stata applicata al ricorrente la misura cautelare degli arresti domiciliari.
Al riguardo deve rilevarsi che, nel procedimento di prevenzione, il giudice può valorizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché, naturalmente, dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto (cfr., Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, COGNOME, Rv. 256819 – 01; Sez. 6, n. 4668 del 08/01/2013, COGNOME, Rv. 254417 – 01).
Nel caso in esame, il Collegio di appello ha richiamato il procedimento penale nel cui ambito il ricorrente è stato sottoposto agli arresti domiciliari ma non ha indicato gli elementi desumibili da tale procedimento e le ragioni della loro influenza sul giudizio di pericolosità sociale, rilevante in tema di misure di prevenzione personale.
In tal modo il menzionato Collegio non ha adempiuto al suo onere motivazionale, non essendo comprensibile l’iter logico seguito per giungere all’epilogo decisorio.
Alla luce di quanto precede si impone, quindi, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Catania, che provvederà a colmare le lacune riscontrate.
Annulla il decreto impugnato con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.
Così deciso il 28/2/2024