Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30628 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30628 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/07/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nata a Roma il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/10/2023 emessa dalla Corte di appello di Roma visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letti i motivi aggiunti e le conclusioni formulate dagli AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, le quali hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Roma, riformando la sentenza assolutoria di primo grado, condannava NOME COGNOME in ordine al reato di cui all’art. 318 cod. pen., così diversamente qualificata l’originaria imputazione formulata ai sensi dell’art. 319quater cod. pen.
Il giudizio di primo grado si era svolto con rito abbreviato, nel corso del quale, il pubblico ministero, con memoria del 27 ottobre 2022, chiedeva la condanna dell’imputata previa diversa qualificazione del reato di induzione indebita, in quello di corruzione per l’esercizio della funzione.
La sentenza di primo grado assolveva l’imputata con riferimento al reato contestato, escludendo anche la possibilità di accedere alla richiesta di derubricazione del fatto, ritenendo che la predetta non avesse espletato alcuna funzione in relazione alle pratiche amministrative cui era interessato il privato, con la conseguente impossibilità di ipotizzare l’esistenza di un accordo corruttivo.
Avverso tale pronuncia proponeva appello il pubblico ministero, dolendosi dell’annessa qualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 318 cod. pen., del quale riteneva sussistenti tutti i presupposti costitutivi, avendo il pubblico agente chiesto ed ottenuto un’utilità per l’esercizio della funzione, utilità consistita nell’assunzione di un terzo alle dipendenze di una società interessata al rilascio di provvedimenti amministrativi.
La Corte di appello accoglieva l’impugnazione rigettando l’eccezione di inammissibilità dell’appello e, ancor prima, della modifica dell’imputazione, sostenendo che il pubblico ministero si era limitato a chiedere una diversa qualificazione giuridica, senza modificare la descrizione in fatto della condotta.
Avverso tale sentenza, la ricorrente ha proposto un unico motivo di ricorso, ulteriormente ribadito con i motivi aggiunti.
Sostiene la ricorrente che, per effetto dell’ammissione al rito abbreviato, il pubblico ministero non avrebbe potuto chiedere alcuna modifica dell’imputazione, stante l’espresso divieto previsto dall’art.441, connma 1, cod. proc. pen., che esclude l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 422 e 423 cod. proc. pen. disciplinanti le modifiche dell’imputazioni.
Si afferma che tale previsione impedirebbe qualsivoglia modifica, ivi compresa quella relativa alla diversa qualificazione giuridica del fatto.
Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
La Corte di appello, nell’accogliere l’impugnazione del pubblico ministero, ha richiamato il consolidato principio secondo cui la diversa qualificazione del reato
contestato è sempre consentita al giudice, non comportando alcuna incidenza negativa rispetto alle prerogative difensive, posto che la descrizione in fatto della condotta non viene in alcun modo immutata.
Con specifico riferimento al giudizio abbreviato si è, anche recentemente, affermato che l’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione emessa a seguito di rito abbreviato, con il quale si chiede una differente qualificazione giuridica del reato contestato, è ammissibile e non comporta alcuna violazione del diritto di difesa per l’imputato, potendo quest’ultimo esercitare il proprio diritto di interlocuzione sull nuova qualificazione in fase di appello (Sez.2, n.46696 del 2/10/2019, COGNOME, Rv. 277597).
A fronte dell’astratta correttezza di tale principio, deve rilevarsi come nel caso in esame la richiesta di derubricazione del reato, pur non comportando formalmente alcuna modifica in punto di fatto, sottintende una rilevante diversità circa la condotta contestata.
Il COGNOME reato COGNOME inizialmente ipotizzato, COGNOME individuato nell’induzione COGNOME indebita, presuppone una condotta induttiva, connotata da un abuso dei poteri del pubblico agente, tale da indurre il privato a una dazione, a fronte della quale consegue un vantaggio indebito. Si tratta di una figura che presenta . elementi comuni alla concussione, dalla quale si distingue per l’assenza di un abuso costrittivo, ma anche alla corruzione, presupponendo un vantaggio indebito del privato, elemento che ne giustifica la punibilità.
La struttura del reato, pertanto, descrive un atteggiarsi dei rapporti tra pubblico agente e privato che si differenziano in maniera significativa rispetto alle tradizionali figure corruttive, in particolare per quanto concerne l’assenza di un accordo raggiunto su una posizione di sostanziale parità.
Orbene, nel caso di specie, l’imputazione originaria descriveva un fatto qualificabile esclusivamente in termini di induzione indebita, posto che non vi era alcun riferimento ad un accordo finalizzato a rennunerare il pubblico agente “per l’esercizio della funzione”, bensì si ipotizzava una tipica condotta induttiva, sorretta dalla prospettazione di un male ingiusto (il ritardo o il mancato rilascio dei provvedimenti cui era interessato il privato).
Il fatto, per come contestato, non poteva in alcun modo essere qualificato in termini di corruzione per l’esercizio della funzione, proprio perché conteneva una descrizione incompatibile con lo schema – basato su un accordo raggiunto in condizioni di “parità” tra pubblico agente e privato – richiesto dall’art. 318 cod. pen.
La Corte di appello non ha minimamente esaminato tale aspetto, limitandosi a rilevare il dato fattuale per cui l’imputato aveva rivolto una richiesta di assunzione ad un soggetto interessato all’ottenimento di pratiche amministrative in corso di trattazione nel settore di sua competenza.
La mera richiesta, ove non sorretta da una condotta induttiva, non poteva integrare il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen., come correttamente rilevato in primo grado, ma non poteva neppure qualificarsi in termini di corruzione per l’esercizio della funzione, non essendo stato in alcun modo dedotta e provata l’esistenza di un accordo corruttivo del tipo richiesto dall’art. 318 cod. pen.
Per consolidata giurisprudenza, infatti, integra il reato di corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 cod. pen. la promessa o dazione indebita di somme di danaro o di altre utilità in favore del pubblico ufficiale che sia sinallagmaticamente connessa all’esercizio della funzione (Sez.6, n. 33251 del 26/5/2021, COGNOME, Rv. 281844).
Nel caso di specie, l’imputazione non descrive alcun accordo sinallagnnatico, bensì ipotizza al più una condotta di abuso della funzione, sicchè è solo in relazione a quella ipotesi che il giudice di merito era tenuto a pronunciarsi. Per come era strutturata l’imputazione, difettando qualsivoglia riferimento ad un qualche genere di accordo, la derubricazione del fatto nel reato di cui all’art. 318 cod. pen. non era in alcun modo consentita, se non surrettiziamente presupponendo un elemento della contestazione – e cioè l’accordo corruttivo – che, tuttavia, non era indicato, né poteva essere aggiunto, stante il divieto previsto dall’art. 441, comma 1, cod. pen.
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che la sentenza debba essere annullata senza rinvio, dovendosi rilevare la nullità della stessa, essendosi pronunciata su un fatto sostanzialmente nuovo rispetto all’imputazione originaria, senza che fosse consentita la modifica dell’imputazione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata dichiarandone la nullità. Così deciso 1’11 luglio 2024 Il Consigliere estensore COGNOME Il Pr idente