Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23598 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23598 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 06/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a GIOIA COGNOME il 13/05/1946 COGNOME NOME nato a GIOIA COGNOME il 13/03/1977 COGNOME nata a GIOIA COGNOME il 06/10/1983 COGNOME NOME nata a GIOIA COGNOME il 24/04/1981
avverso il decreto del 16/12/2022 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME e di rigettare i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME.
RITENUTO IN FATTO
Con decreto dell’Il settembre 2020, il Tribunale di Reggio Calabria aveva disposto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale per anni tre, con
obbligo di soggiorno, nei confronti di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, ravvisando per entrambi la pericolosità sociale, di cui all’art. 4, lettere a) e b), all’art. 1, lettera b), d.lgs. n. 159 del 2011. Con lo stesso decreto, facendo seguito a un precedente provvedimento di sequestro, aveva disposto la confisca di svariati beni mobili e immobili nella disponibilità dei proposti, intestati in parte ai lo familiari.
Il giudice di primo grado aveva tratto gli elementi a sostegno della propria decisione dal procedimento penale n. 1707/2013 (cd. Cumbertazione”), nell’ambito del quale entrambi i proposti erano stati raggiunti dalla misura della custodia cautelare per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Secondo l’ipotesi accusatoria, COGNOME NOME e di COGNOME NOME sarebbero affiliati al clan COGNOME e si sarebbero aggiudicati, con meccanismi fraudolenti, i lavori pubblici indetti dal Comune di Gioia Tauro e dalle altre stazioni appaltanti, consentendo al sodalizio criminale di rafforzare il proprio controllo sul territorio. A entrambi, oltre al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., erano stati contesta ulteriori reati, tra i quali quello di associazione per delinquere finalizzata compimento di turbativa d’asta (aggravata ex art. 7 legge 203 del 1991), corruzione, falso e turbativa d’asta.
Per quanto riguarda la posizione di COGNOME NOME la misura cautelare era stata poi annullata.
Per quanto riguarda l’altro proposto, il Tribunale per il riesame, per mancanza di gravi indizi in ordine al reato di associazione mafiosa, aveva sostituito la custodia cautelare con gli arresti domiciliari, in relazione ai reati di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e per i reati-fine (in ordine ai qua era stata esclusa l’aggravante mafiosa).
Il Tribunale aveva posto a fondamento delle misure di prevenzione anche le risultanze del procedimento penale n. 1120/2023 (cd. “Waterfront”), che vedeva coinvolto COGNOME NOME quale autore di plurimi reati contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, allo scopo di aggiudicarsi le gare indette dai comuni di Gioia Tauro e di Rosarno. In particolare, al preposto era contestato di avere reiterato il delitto di turbativa d’asta, sempre al fine di agevolare la cosca COGNOME. In relazione a tali fatti, il preposto era stato raggiunto dalla misur cautelare degli arresti domiciliari in relazione a 22 capi di imputazione.
A COGNOME NOME, invece, erano stati contestati due reati aggravati dall’avere agevolato un’associazione per delinquere di stampo mafioso.
Con decreto emesso il 16 dicembre 2022, la Corte di appello di Reggio Calabria, in parziale riforma del decreto di primo grado, ha revocato la misura della sorveglianza speciale nei confronti di COGNOME NOME ha ridotto ad anni due la durata della sorveglianza speciale nei confronti di COGNOME NOME ha revocato
la confisca di una parte dei beni che erano stati sottoposti a vincolo con il provvedimento del Tribunale.
In particolare, la Corte territoriale ha escluso la pericolosità qualificata ai sens dell’art. 4, lett. a), d.lgs. 159/2011 nei confronti di entrambi i propos riconoscendo, però, la pericolosità sociale qualificata ai sensi dell’art. 4, lett. nei confronti di COGNOME NOME. Con riferimento alla pericolosità generica, ex art. 1, lett. b), d.lgs. 159/2011, ha ritenuto sussistenti condotte rappresentative della pericolosità sociale di entrambi i proposti, nell’arco temporale 2011-2016. In tal senso, sulla base della perimetrazione temporale delle manifestazioni di pericolosità, dal 2011 al 2016, ha disposto la confisca dei soli beni acquisiti in tale periodo, revocando la misura in relazione ai beni acquisiti in precedenza.
Avverso il decreto, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei loro difensori di fiducia.
il ricorso di COGNOME NOME si compone di tre motivi.
3.1. Con un primo motivo, articolato in più censure, deduce i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 1, 4 e 10 d.lgs. n. 159/2011, 125 e 521 cod. proc. pen. e 111 Cost.
3.1.1. Il ricorrente rappresenta che: l’originaria proposta di applicazione delle misure di prevenzione era basata, essenzialmente, sulla presunta pericolosità qualificata, ex art. 4, comma 1, lett. a (correlata alla presunta partecipazione del proposto al clan COGNOME), e solo marginalmente sulla pericolosità generica di cui all’art. 1, lett. a; sopravvenuta la declaratoria di incostituzionalità parziale quest’ultima norma, il pubblico ministero, in sede di discussione, davanti ai giudici di primo grado, si era limitato a chiedere l’accoglimento della proposta con riferimento alla sola pericolosità qualificata; il Tribunale aveva invece ritenuto d poter applicare la misura di prevenzione anche con riferimento alla pericolosità generica prevista dall’art. 1, lett. b, sebbene di essa non vi fosse alcun accenno nell’originaria proposta; la Corte di appello, sebbene la difesa avesse dedotto la violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione, ha confermato sul punto il provvedimento di primo grado, sostenendo che il proposto sarebbe stato comunque messo a conoscenza della diversa contestazione.
Tanto premesso, il ricorrente deduce la violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione nonché la mancanza di motivazione del provvedimento impugnato.
Sostiene che palese sarebbe la violazione del principio posto dall’art. 521 cod. proc. peri., atteso che i giudici di merito avrebbero ritenuto sussistente una particolare categoria di pericolosità sociale, che non era stata minimamente contestata al proposto.
3.1.2. Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe fondato il suo giudizio sulla pericolosità sociale generica sulla base dei capi di imputazione ascritti al proposto nel procedimento “Cumbertazione” e su un sequestro preventivo per equivalente per l’importo di oltre 5.000.000,00 di euro, disposto nell’ambito del procedimento “Waterfront”.
Tanto premesso, il ricorrente contesta la motivazione del provvedimento, sostenendo che la mera pendenza del procedimento penale “Cumbertazione” non sarebbe sufficiente a dimostrare che il proposto abbia tratto da attività illecite l risorse per assicurarsi un elevato tenore di vita e per effettuare acquisizioni patrimoniali.
Quanto al sequestro, il ricorrente evidenzia che: esso non riguarda il processo “Cumbertazione”, fonte della ritenuta pericolosità sociale generica, ma il differente processo “Waterfront”; dal provvedimento non sarebbero desumibili elementi che dimostrino che il proposto abbia tratto profitti da attività illecite.
Il ricorrente sostiene che – dalle relazioni dei consulenti tecnici di parte e dalle vicende relative alle misure cautelari reali disposte nell’ambito del procedimento “Cumbertazione” – emergerebbe con evidenza che il proposto non avesse mai tratto profitti dalle condotte illecite a lui contestate.
Il Tribunale per il riesame, invero, aveva annullato il sequestro cautelare e restituito i beni, in quanto non era emerso «alcun elemento indiziario che potesse accreditare l’ipotesi che vi fosse un rapporto di pertinenzialità o strumentalità dei beni in sequestro rispetto ai reati ascritti a COGNOME NOME».
I consulenti tecnici di parte, inoltre, avrebbero ricostruito la provenienza lecita delle risorse economiche del proposto e delle sue aziende.
La Corte territoriale avrebbe reso una motivazione inesistente, avendo basato la decisione su elementi, di per sé, insufficienti a dimostrare la pericolosità sociale e avendo trascurato gli elementi posti in rilievo dalla difesa e dai consulenti tecnici di parte.
3.1.3. Il ricorrente rappresenta che il Tribunale, in primo grado, aveva ricondotto la pericolosità sociale qualificata del proposto alle categorie soggettive di cui all’art. 4, lettere a) e b), desumendola dai reati contestati nell’ambito de procedimenti “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“. Il presupposto era sempre legato alla presunta contiguità funzionale del preposto e delle sue aziende alla cosca COGNOME. La Corte di appello, tuttavia, nell’accogliere parzialmente l’impugnazione, aveva escluso la pericolosità sociale qualificata ex lett. a, ma aveva mantenuto quella ex
lett. b, in considerazione della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, contestata nei reati oggetto del processo “Waterfront”.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte territoriale, una volta esclusa la pregnanza degli indizi indicativi della contiguità mafiosa con la cosca COGNOME, avrebbe dovuto coerentemente escludere anche la pericolosità sociale qualificata ex lettera b.
Il ricorrente contesta il riferimento fatto dalla Corte di appello al giudicato cautelare, invocando i dati probatori sopravvenuti che avrebbero “scardinato” l’originario impianto accusatorio. Il riferimento è alla documentazione prodotta all’udienza del 22 aprile 2022, che consentirebbe di chiarire gli asseriti contatti intercorsi tra il coimputato COGNOME NOME (ritenuto dei giudici legato al proposto da “rapporti oscuri”) e COGNOME NOME, esponente della cosca COGNOME. La documentazione comprendeva anche una consulenza tecnica, che chiariva l’effettivo significato di talune conversazioni intercettate, nonché alcune sentenze, dalle quali emergerebbe l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e l’estraneità del preposto all’esecuzione dei lavori della seconda banchina del porto di Gioia Tauro.
La Corte di appello non si sarebbe confrontata con la documentazione prodotta, né avrebbe fornito effettiva risposta ai rilievi difensivi.
Sempre con riferimento alla pericolosità sociale qualificata, il ricorrente contesta la motivazione del provvedimento impugnato, nella parte relativa all’attualità della pericolosità, evidenziando che, sul punto, la Corte territorial aveva fatto riferimento alla sottoposizione del preposto alla misura degli arresti domiciliari. Il ricorrente contesta tale motivazione non solo perché la sottoposizione a misura cautelare personale non sarebbe un elemento negativo della pericolosità sociale qualificata di un soggetto, ma anche perché la misura cautelare in questione sarebbe stata revocata.
3.2. Con un secondo motivo (erroneamente indicato dal ricorrente come terzo), deduce la mancanza assoluta di motivazione, con riferimento alla misura di prevenzione patrimoniale.
3.2.1. Sostiene che: tutti i beni oggetto di confisca, in precedenza, sarebbero stati sottoposti a sequestro nell’ambito del procedimento penale “Cumbertazione” e sarebbero stati poi restituiti all’interessato dal Tribunale per il riesame, che avrebbe dichiarato la loro legittima provenienza; i consulenti tecnici di parte avrebbero ricostruito documentalmente la legittima provenienza di ogni singolo acquisto del proposto, determinandone il costo e la proporzione rispetto ai redditi dichiarati.
Tali elementi non sarebbero stati assolutamente valutati dalla Corte territoriale.
3.2.2. Sostiene che la Corte territoriale – nel ritenere sussistente la pericolosità sociale generica, in relazione ai reati correlati alla turbativa delle ast pubbliche, contestati nel procedimento “Cumbertazione” – avrebbe (a pagina 42) espressamente fatto riferimento ai fatti commessi tra il 2012 e 2014. Alle pagine 64 e 65, tuttavia, la Corte di appello avrebbe asserito che il preposto avrebbe vissuto abitualmente con proventi dei delitti di associazione a delinquere semplice e dei reati-fine, commessi in danno delle stazioni appaltanti e degli enti pubblici, nel periodo dal 2011 al 2016. Nel dedurre la palese incongruenza, il ricorrente sostiene si dovrebbe «privilegiare, nel pensiero della Corte di merito», il riferimento al periodo temporale 2012-2014.
Quanto alla pericolosità sociale qualificata, la Corte di appello l’avrebbe ritenuta sussistente con riferimento ai delitti contestati nell’ambito del processo “Waterfront”, commessi dal 2014 e sino al 23 marzo 2016.
Tanto premesso, il ricorrente deduce la completa mancanza di motivazione con riferimento alla confisca dei beni acquisiti nell’anno 2011, ossia quando secondo la stessa ricostruzione della Corte territoriale – il proposto non avrebbe ancora iniziato a vivere abitualmente con i proventi di attività delittuose.
Con riferimento agli altri beni, il ricorrente deduce la legittima provenienza dei beni, dimostrata dai consulenti tecnici di parte e confermata dalla decisione (sulla quale si è formato il giudicato) del Tribunale per il riesame sulle misure cautelari reali adottate nell’ambito del procedimento “Cumbertazione”.
Con particolare riferimento al libretto di deposito al risparmio, confiscato nella misura di euro 885.438,56, il ricorrente evidenzia come, dalla documentazione allegata alle consulenze tecniche, risultava la legittima provenienza delle risorse, costituite in gran parte da assegni circolari risalenti al 2013 e dal versamento di ingenti fondi, provenienti dall’Anas, per lavori eseguiti nell’anno 2009. Il ricorrente, inoltre, sostiene che i giudici d’appello sarebbero pervenuti a un giudizio di sperequazione, non tenendo adeguatamente conto dei redditi fino a quel tempo accumulati dal preposto e dal suo nucleo familiare.
Analoghe censure il ricorrente muove anche con riferimento ai fondi impiegati per la ristrutturazione del fabbricato in Gioia Tauro. Anche in tal caso la Corte d’appello si sarebbe limitata a riportare solo i redditi del ricorrente e del coniuge nell’anno corrispondente all’eseguita ristrutturazione.
3.3. Con un terzo motivo (erroneamente indicato dal ricorrente come secondo), deduce i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione all’art. 27 d.lgs. n. 159 del 2011
Rappresenta che: il decreto di confisca era intervenuto quando, essendo spirato il termine normativamente previsto dall’art. 24 d.lgs. n. 159 del 2011, il
sequestro era già divenuto inefficace, con conseguente obbligo di restituzione dei beni agli aventi diritto; il proposto, con specifica memoria, aveva dedotto l’inefficacia del sequestro, evidenziando che il termine di un anno e sei mesi era scaduto e che non era intervenuto alcun effettivo decreto di proroga, non potendosi ritenere tale il provvedimento (del 15 maggio 2019) dettato a verbale dal Tribunale, privo di qualsiasi motivazione; la Corte d’appello ha rigettato la censura difensiva, limitandosi a osservare che, essendo ammissibile la confisca anche in mancanza di sequestro, dovrebbe ritenersi ammissibile anche la confisca seguita a un sequestro divenuto inefficace.
Il ricorrente contesta la decisione della Corte di appello, sostenendo che «l’inefficacia del sequestro comporti l’inapplicabilità della confisca, essendo essa correlata proprio al preventivo vincolo cautelare».
Il ricorrente sostiene che la decisione della Corte di appello si porrebbe anche in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, che, all’inefficacia del sequestro, correlerebbe la preclusione della confisca.
il ricorso di COGNOME NOME si compone di tre motivi, articolati in svariate censure.
4.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 1, 4, 7 e 10 d.lgs. n. 159 del 2011, 125 e 521 cod. proc. pen. e 111 Cost.
4.1.1. Il ricorrente propone la medesima censura proposta da COGNOME NOME relativa alla violazione del principio di correlazione tra accusa.
Anche tale ricorrente sostiene che i giudici di merito non avrebbero potuto applicare la misura di prevenzione con riferimento alla pericolosità generica prevista dall’art. 1, lett. b, atteso che l’originaria proposta di applicazione del misura era basata essenzialmente sulla presunta pericolosità qualificata, ex art. 4, comma 1, lett. a (correlata alla presunta partecipazione del proposto al clan COGNOME), e solo marginalmente alla pericolosità generica di cui all’art. 1, lett. a
4.1.2. Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe fondato il suo giudizio in ordine alla pericolosità sociale generica sulla base dei capi di imputazione ascritti al proposto nei procedimenti “Cumbertazione” e “Waterfront” nonché sul sequestro preventivo per equivalente per l’importo di oltre 5.000.000,00 di euro, disposto dall’autorità giudiziaria sulla base della consulenza tecnica dell’ingegnere COGNOME
Quanto al sequestro, il ricorrente evidenzia che esso non riguarda la posizione del proposto, ma quella di altri indagati.
Con riferimento ai procedimenti “Cumbertazione” e “Waterfront”, il ricorrente evidenzia che il Tribunale per il riesame aveva annullato il sequestro e restituito i
beni. Dal provvedimento del Tribunale, sarebbe desumibile l’inesistenza di ricavi tratti dal proposto e dalla sua società (RAGIONE_SOCIALE) dai fatti illeciti contest nell’ambito dei procedimenti “Cumbertazione” e “RAGIONE_SOCIALE“.
Il ricorrente, inoltre, evidenzia che i reati contestati nel processo “RAGIONE_SOCIALE” erano relativi a un’asserita turbativa della libertà degli incanti in ordine a oper pubbliche appaltate dall’amministrazione provinciale di Reggio Calabria, ma non alla loro effettiva esecuzione. Non si potrebbe, dunque, automaticamente dedurre che il proposto avesse effettivamente conseguito ingiusti profitti da tali reati.
Il ricorrente, inoltre, evidenza che la difesa aveva prodotto certificato del Comune di Gioia Tauro che attesterebbe l’insussistenza di rapporti contrattuali tra l’amministrazione pubblica e il proposto.
4.2. Con un secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 24 d.lgs. n. 159 del 2011 e la mancanza di motivazione.
4.2.1. Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale, sul presupposto della pericolosità sociale generica del proposto negli anni 2011-2016, avrebbe presuntivamente ritenuto illeciti tutti i ricavi della società “RAGIONE_SOCIALE quando, invece, sarebbe stata tenuta a separare i redditi sicuramente leciti da quelli ritenuti illeciti, tenuto conto che la società aveva operato quasi esclusivamente nel settore della raccolta e dello smaltimento di rifiuti, percependo da tale attività ingenti profitti estranei ai processi penali, come evidenziato anche della relazione dei consulenti tecnici di parte.
La Corte territoriale, in realtà, non avrebbe tenuto conto delle consulenze dei tecnici di parte, che avrebbero ricostruito la capacità economica e reddituale del proposto, la mancanza di sproporzione tra i suoi redditi e gli acquisti da lui effettuati nonché l’inesistenza di ricavi riferibili alle presunte attività il descritte nei capi di imputazione.
Il ricorrente sostiene, inoltre, che la Corte di appello avrebbe disposto la confisca dei beni esclusivamente sulla base di una loro presunta strumentalità rispetto alle presunte attività illecite, quando, invece, avrebbe dovuto verificare la sproporzione del valore di tali beni rispetto alla capacità reddituale del proposto.
4.2.2. Il ricorrente deduce la provenienza legittima dei singoli beni oggetto di confisca.
Con riferimento alla somma di euro 75.296,56, costituente il saldo del conto corrente n. 1000/1050, intestato alla società “RAGIONE_SOCIALE, il ricorrente sostiene che, come risulterebbe dalla decisione del Tribunale per il riesame e dalle consulenze tecniche di parte, tutti i ricavi della società sarebbero leciti.
Quanto ai beni mobili registrati, il ricorrente deduce «le medesime censure difensive esposte con riferimento» al saldo del conto corrente n. 1000/1050.
8 GLYPH
Con riferimento alla somma di euro 75.296,56, costituente il saldo del conto corrente n. 1000/1032 intestato a “RAGIONE_SOCIALE Bragalà Franceso” (già “RAGIONE_SOCIALE“), impresa riconducibile al proposto, il ricorrente sostiene che la disponibilità della somma di danaro sarebbe ampiamente giustificata dalle disponibilità economiche e finanziarie del proposto, come desumibile dalle relazioni dei consulenti tecnici di parte.
Con riferimento al fabbricato sito in Roma, alla INDIRIZZO, intestato a COGNOME NOME, componente del nucleo familiare del proposto, il ricorrente rappresenta che la Corte di appello aveva ritenuto che l’esborso della somma di euro 650.000,00 per l’acquisto dell’immobile non sarebbe compatibile con le risorse economiche del nucleo familiare, attesa la sperequazione progressiva di euro 1.159.242,65.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello non avrebbe indicato i criteri per determinare la capacità reddituale del nucleo familiare e in particolare se avesse incluso o meno i redditi provenienti dalla “RAGIONE_SOCIALE“. In ogni caso, dalle relazioni tecniche di parte e dalla documentazione allegata ad esse, risulterebbe inesistente l’asserita sperequazione.
Con riferimento al fabbricato intestato a COGNOME NOME (per effetto di donazione paterna), riconducibile al proposito e oggetto di lavori di ristrutturazione nel 2013, il ricorrente rappresenta che la Corte di appello avrebbe ritenuto che l’importo di euro 122.965,77, necessario per i lavori di ristrutturazione, non sarebbe compatibile con il reddito che COGNOME NOME e la moglie avrebbero percepito nell’anno di riferimento, pari a euro 1.050.000,00. Tanto premesso, il ricorrente contesta la decisione della Corte d’appello sostenendo che essa avrebbe ingiustificatamente omesso di calcolare anche la capacità economica del proposto. Non avrebbe inoltre tenuto conto degli accertamenti effettuati dai consulenti tecnici di parte.
Con riferimento all’autovettura “Fiat 500” tg. TARGA_VEICOLO, acquistata dalla moglie del proposto, il ricorrente rappresenta che la Corte d’appello avrebbe confiscato il veicolo poiché la somma di euro 18.215,72, utilizzata per il suo acquisto, risulterebbe non compatibile con le risorse economiche della famiglia.
Tanto premesso il ricorrente, contesta la decisione della Corte d’appello sostenendo che essa non avrebbe tenuto conto dell’autonoma capacità reddituale della moglie del proposto.
Con riferimento all’immobile sito in Gioia Tauro, acquistato da RAGIONE_SOCIALE per il prezzo di euro 100.000,00, il ricorrente rappresenta che la Corte d’appello avrebbe confiscato il bene in considerazione dell’insufficienza dei redditi percepiti dall’acquirente, accertati in euro 21.498,05. Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello non avrebbe correttamente accertato la capacità finanziaria
ed economica del nucleo familiare del proposito e non avrebbe tenuto conto degli accertamenti effettuati dai consulenti tecnici di parte.
Con riferimento alla somma di euro 296.621,60, costituente il saldo del libretto di deposito a risparmio n. 412/238 intestato a COGNOME NOME, il ricorrente rappresenta che la Corte d’appello avrebbe confiscato il denaro in considerazione dell’insufficienza dei redditi percepiti tra il 2009 e il 2016 da COGNOME RAGIONE_SOCIALE, pari a euro 178.478,00. Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte di appello non avrebbe correttamente ricostruito la capacità finanziaria ed economica del proposto e del suo nucleo familiare e in particolare non avrebbe tenuto conto che il saldo di quel conto corrente costituiva il compendio di risparmi lecitamente accumulati nel tempo dal proposto e dalla figlia, che da sola disponeva di redditi per euro 178.478,00. Non avrebbe inoltre tenuto conto degli accertamenti effettuati dai consulenti tecnici di parte.
Con riferimento alla somma in contanti di euro 6.330,00, il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe confiscato il denaro poiché la difesa nulla avrebbe dedotto al riguardo. Tanto premesso, il ricorrente contesta la decisione della Corte territoriale, sostenendo che essa avrebbe d’ufficio dovuto verificare se quella somma di denaro fosse o meno compatibile con le disponibilità economiche del proposto, titolare di un’importante azienda e dedito all’attività di impresa da oltre cinquant’anni.
4.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione all’art. 27 d.lgs. n. 159/2011.
Anche COGNOME NOME sostiene che il sequestro dei beni sarebbe divenuto inefficace e che conseguentemente non poteva essere disposta la confisca. A sostegno di tali tesi espone le medesime argomentazioni esposte da COGNOME NOME, con il suo terzo motivo di ricorso, al quale si rinvia.
Il ricorso di COGNOME NOME si compone di un unico motivo, con il quale la ricorrente deduce la violazione degli artt. 10, 24 e 26 d.lgs. n. 159 del 2011 e 125 cod. proc. pen.
5.1. Con riferimento al fabbricato sito in Roma, alla INDIRIZZO, a lei intestato, la ricorrente rappresenta che la Corte di appello aveva ritenuto che l’esborso della somma di euro 650.000,00 per l’acquisto dell’immobile non sarebbe compatibile con le risorse economiche del suo nucleo familiare, attesa la sperequazione progressiva di euro 1.159.242,65.
Tanto premesso, la ricorrente sostiene che, dalle consulenze tecniche di parte, emergerebbe l’insussistenza dell’asserita sperequazione.
La Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sui rilievi difensivi, basati sulle suddette consulenze tecniche. La difesa aveva evidenziato che vi erano redditi che dovevano considerarsi sicuramente leciti perché maturati prima del periodo 2011-2016, che era il lasso di tempo nel quale si era manifestata la pericolosità sociale. Vi erano, inoltre, redditi che, sebbene maturati nel periodo 2011-2016, sarebbero sicuramente leciti perché provenienti non dall’attività imprenditoriale censurata, ma dalla ricezione di canoni di locazione.
5.2. Con riferimento alla somma di euro 296.621,60, costituente il saldo del libretto di deposito a risparmio n. 412/238 a lei intestato, la ricorrente sostiene che il denaro non poteva essere confiscato, atteso che il libretto era stato aperto il 20 marzo 2017 e, dunque, dopo il periodo 2011-2016.
Il ricorso di COGNOME NOME si compone di un unico motivo, con il quale la ricorrente deduce la violazione degli artt. 10, 24 e 26 d.lgs. n. 159 del 2011 e 125 cod. proc. pen.
Con riferimento all’immobile sito in Gioia Tauro, da lei acquistato, la ricorrente rappresenta che la Corte di appello aveva ritenuto che l’esborso della somma di euro 100.000,00 per l’acquisto dell’immobile non sarebbe compatibile con le risorse economiche del suo nucleo familiare, attesa l’insufficienza dei redditi da lei percepiti, pari a euro 21.498,05.
Tanto premesso, la ricorrente sostiene che, dalle consulenze tecniche di parte, emergerebbe l’insussistenza dell’asserita sperequazione.
La Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sui rilievi difensivi, basati sulle suddette consulenze tecniche. La difesa aveva evidenziato che vi erano redditi che dovevano considerarsi sicuramente leciti perché maturati prima del periodo 2011-2016. Vi erano, inoltre, redditi che, sebbene maturati nel periodo 2011-2016, sarebbero sicuramente leciti perché provenienti non dall’attività imprenditoriale censurata, ma dalla ricezione dei canoni di locazione.
Con successivo atto, COGNOME NOME ha presentato motivi nuovi.
7.1. A integrazione di quanto dedotto nel ricorso principale, relativamente al libretto di deposito a risparmio n. 412/238, il ricorrente deduce la disattenzione nella quale sarebbe incorsa la Corte territoriale, che avrebbe disposto la confisca del saldo, ancorché il libretto fosse stato aperto il 27 marzo 2017, vale a dire successivamente al periodo in cui si sarebbe manifestata la pericolosità sociale del proposto (2011-2016).
7.2. Il ricorrente ribadisce che: nell’ambito dei procedimenti “Cumbertazione” e “Waterfront”, il Tribunale per il riesame aveva annullato il sequestro e restituito i beni; come risultava dalla decisione del Tribunale per il riesame e dalle
consulenze tecniche di parte, tutti i ricavi della società “RAGIONE_SOCIALE erano legittimi; i reati contestati nell’ambito del procedimento “RAGIONE_SOCIALE“, «neppure nella loro astratta formulazione, prospettano l’esistenza di illeciti proventi tratti, indirettamente o indirettamente, dal proposto»; il preposto è estraneo al sequestro preventivo per equivalente del 30 aprile 2020.
7.3. Il ricorrente ribadisce che la Corte di appello non avrebbe dimostrato la sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del proposto nonché l’illecita provenienza dei beni. Non avrebbe, inoltre, valutato le consulenze tecniche di parte.
Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME e di rigettare i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME.
L’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME e COGNOME NOME, ha presentato memorie scritte con le quali ha replicato alle conclusioni del Procuratore generale e ha chiesto di accogliere i ricorsi e annullare il decreto impugnato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Il ricorso di COGNOME NOME deve essere dichiarato inammissibile.
2.1. Il primo motivo, in tutte le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
2.1.1. La prima censura del primo motivo del ricorso di COGNOME NOME e la prima censura del primo motivo del ricorso di COGNOME NOME – che possono essere trattate congiuntamente, proponendo entrambi i ricorrenti la questione della presunta violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione sono manifestamente infondate.
Nella giurisprudenza di legittimità, infatti, è ormai consolidato il principio secondo cui, nel procedimento di prevenzione, «non si configura una violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione qualora il provvedimento applicativo della misura ritenga sussistente una categoria di pericolosità sociale diversa da quella indicata nella proposta (nella specie, la pericolosità generica in luogo di quella qualificata ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), purché la nuova definizione giuridica sia fondata sui medesimi elementi di fatto posti a fondamento della proposta, in relazione ai quali sia stato assicurato alla difesa un contraddittorio effettivo e congruo» (Sez. 1, n. 8038 del 05/02/2019, Rv. 274915; Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, Rv. 256451).
Ebbene, nel caso in esame, la Corte di appello ha fondato la nuova definizione giuridica su elementi di fatto che erano contenuti nella proposta della pubblica accusa (cfr. pagine 42 e ss. del provvedimento impugnato), che erano conosciuti dalla controparte, che, in relazione a essi, ha potuto concretamente esercitare il diritto di difesa.
La Corte di appello ha adeguatamente motivato sia sull’eccezione relativa alla violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione (cfr. pagina 24) che in ordine agli elementi sulla base dei quali ha ritenuto sussistente la pericolosità generica (pagine 42 e ss. e 64 del decreto impugnato).
La censura, pertanto, si presenta anche priva della necessaria specificità estrinseca, non essendosi i ricorrenti effettivamente confrontati con il provvedimento impugnato.
2.1.2. La seconda censura è manifestamente infondata.
La Corte di appello, invero, ha motivato in maniera adeguata in ordine alla sussistenza della pericolosità generica, facendo riferimento a tutta una serie di reati di turbativa d’asta (contestati nel procedimento “Cumbertazione”), commessi in un arco temporale significativo e “sostenuti” da una struttura associativa di natura permanente. Ha evidenziato che si trattava evidentemente di reati «lucrogenetici», essendo le turbative d’asta funzionali all’acquisizione di appalti pubblici e, dunque, all’ottenimento indebito di corrispettivi da parte della stazione appaltante. Ha posto in rilievo che la gravità degli elementi fattuali emergeva in maniera evidente dall’ordinanza cautelare, sul punto confermata dal Tribunale per il riesame.
Si tratta di una motivazione adeguata è fondata su specifici elementi tratti dagli atti processuali.
Risulta pertanto del tutto infondata la tesi del ricorrente, secondo il quale il provvedimento impugnato, sul punto, sarebbe retto da una motivazione inesistente o apparente.
Tanto premesso, risulta evidente che tutte le deduzioni sollevate dal ricorrente si risolvono in una critica alla motivazione del provvedimento impugnato e alle valutazioni di merito che la Corte territoriale ha effettuato.
Si tratta di censure inammissibili, in quanto propongono doglianze di fatto, non deducibili in sede di legittimità, e vizi di motivazione, non deducibili nella materia della prevenzione.
Va al riguardo rammentato che, nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (e del precedente art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575). Ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione,
è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi di cui all’ar 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n. 1423 del 56 (ora art. 10, comma 2, d.lgs. 159/2011), il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, COGNOME, Rv. 266365; Sez. 6, n. 50946 del 18/09/2014, COGNOME, Rv. 261590).
2.1.3. La Corte di appello ha motivato in maniera adeguata in ordine alla sussistenza della pericolosità qualificata, fondandola sugli esiti, confermati anche in sede cautelare penale, del procedimento ‘Waterfront’, nell’ambito del quale il proposto è stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione a 22 capi di imputazione, aggravati dalla finalità di agevolazione mafiosa.
Tanto premesso, le doglianze proposte sono inammissibili, in quanto sollecitano una non consentita rivalutazione del merito ed esulano dal perimetro della violazione di legge.
Con specifico riferimento all’attualità della pericolosità, la censura si presenta anche del tutto generica, essendosi il ricorrente limitato a dedurre la presunta revoca degli arresti domiciliari e non esponendo elementi di fatto dai quali desumere che la valutazione di pericolosità operata dai giudici di merito risulti superata. Sotto altro profilo, va rilevato che la deduzione difensiva si presenta anche priva del requisito dell’autosufficienza, non avendo il ricorrente allegato al ricorso il presunto provvedimento di revoca degli arresti domiciliari e non avendo chiesto di allegarlo alla cancelleria dell’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento impugnato. Il ricorrente, infatti, si è limitato ad affermare che gli arresti domiciliari «erano stati revocati dal Tribunale di Palmi in composizione collegiale il 23 giugno 2022, come si desume dagli atti allegati al fascicolo relativo all’impugnazione del preposto avverso la riattivazione della misura personale, indicata nel frontespizio del decreto impugnato, ma rimasta senza una formale decisione». Al riguardo, va evidenziato che l’indicazione fornita dal ricorrente (tutt’altro che chiara) risulta del tutto insufficiente, poiché sarebbe stata necessaria l’allegazione del provvedimento cautelare del Tribunale di Palmi, dal quale desumere i motivi della revoca ed eventuali elementi che potessero portare a ritenere superata la precedente valutazione di pericolosità sociale.
2.2. Il secondo motivo, in tutte le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
Le censure con le quali il ricorrente contesta la sproporzione tra capacità reddituale e il valore dei beni acquisiti sono inammissibili, in quanto deducono vizi
di motivazione. Le doglianze del ricorrente si risolvono, invero, in una reiterativa contestazione delle valutazioni di merito formulate dalla Corte di appello.
Va, in ogni caso, rilevato che la Corte di appello ha reso una motivazione adeguata e priva di vizi logici.
Ha evidenziato gli elementi dai quali ha desunto la disponibilità dei beni in capo ai proposti e ha diffusamente motivato in ordine all’inadeguatezza delle entrate lecite del nucleo familiare per l’acquisizione dei beni oggetto di confisca, tenendo conto dei rilievi mossi dalla parte e delimitando la misura ai soli incrementi avvenuti a partire dal 2011, anno al quale è stata fatta risalire la pericolosità generica di entrambi i proposti. Deve essere sottolineato che, proprio in base alle deduzioni della parte e alla documentazione da essa allegata, la Corte di appello ha disposto la restituzione di svariati beni e anche di parte delle somme depositate sul libretto di deposito a risparmio indicato nel ricorso.
Con riferimento alla delimitazione temporale della pericolosità, va rilevato che la Corte di appello non è incorsa in alcuna incongruenza, atteso che, a pagina 42, nel riferirsi al periodo dal 2012 al 2014, ha indicato solo le date di commissione dei reati-fine. A pagina 64, invece, ha specificamente indicato il periodo di rilevanza della pericolosità sociale, compreso tra il 2011 e il 2016, dando rilievo anche al reato associativo (contestato nel procedimento “Cumbertazione”), la cui data di consumazione è indicata dal 2011, con contestazione aperta.
Va, infine, evidenziato che non rileva che i beni oggetto di confisca fossero stati sequestrati nel procedimento “Cumbertazione” e poi restituiti, in quanto i presupposti del sequestro penale (impeditivo o funzionale alla confisca) sono diversi rispetto a quelli della misura di prevenzione patrimoniale.
2.3. Il terzo motivo del ricorso di COGNOME NOME e il terzo motivo del ricorso di COGNOME NOME – che possono essere trattati congiuntamenti, proponendo la medesima questione della presunta inapplicabilità della confisca, a seguito dell’inefficacia del sequestro – sono manifestamente infondati.
Questa Corte, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, ha affermato che, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, il sequestro non costituisce condizione per l’applicazione della confisca, sicché la circostanza che il primo perda efficacia per inosservanza delle sequenze temporali previste dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non comporta l’estinzione del procedimento, né impedisce che possa essere disposta la misura ablatoria definitiva della confisca (Sez. 5, n. 49149 del 11/09/2019, Strano, Rv. 277652). L’omesso rispetto del termine previsto dal d.lgs. n. 159 del 2011, invero, non inficia la successiva confisca, stante l’autonomia della misura ablatoria rispetto al provvedimento anticipatorio (cfr., in motivazione, Sez. 6, n. 30752 del 11/04/2019, Cali, Rv. 276466).
Il ricorso di COGNOME NOME deve essere dichiarato inammissibile.
3.1. Il primo motivo è inammissibile.
3.1.1. La prima censura, relativa alla presunta violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, è manifestamente infondata, per le ragioni esposte nella parte di questa sentenza dedicata all’esame della prima censura del primo motivo di COGNOME NOME (che proponeva la medesima questione), alla quale si rinvia.
3.1.2. La seconda censura e il secondo motivo di ricorso – in tutte le censure nelle quali si articola – si risolvono in una critica alla motivazione del provvedimento impugnato e alle valutazioni di merito che la Corte territoriale ha effettuato.
Si tratta di censure inammissibili, in quanto propongono doglianze di fatto, non deducibili in sede di legittimità, e vizi di motivazione, non deducibili nella materia della prevenzione.
La Corte di appello, in ogni caso, ha motivato in maniera ampia in ordine alla sussistenza della pericolosità generica, facendo riferimento a tutta una serie di reati di turbativa d’asta, commessi in un arco temporale significativo. Ha evidenziato che si trattava evidentemente di reati «lucrogenetici», essendo le turbative d’asta funzionali all’acquisizione di appalti pubblici e, dunque, all’ottenimento indebito di corrispettivi da parte della stazione appaltante. Ha rigorosamente valutato il valore dei singoli beni confiscati, raffrontandolo con la capacità reddituale del nucleo familiare dei titolari dei beni. Ha risposto a taluni rilievi della parte e ne ha ritenuto implicitamente superati altri. Al riguardo, va ribadito che, «nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935; cfr. anche Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593).
La motivazione resa dalla Corte di appello è adeguata, coerente e fondata su specifici elementi tratti dagli atti processuali.
Risulta del tutto infondata la censura secondo la quale la Corte di appello avrebbe basato la propria decisione solo su una presunta strumentalità dei beni rispetto alle attività illecite, avendo invece la Corte territoriale fatto riferimento
maniera specifica e analitica anche alla capacità reddituale del nucleo familiare (cfr., ad esempio, pagine 70 e ss. del decreto).
Va, poi, ribadito che non rileva che i beni oggetto di confisca fossero stati sequestrati nel procedimento “Cumbertazione” e poi restituiti, in quanto i presupposti del sequestro penale (impeditivo o funzionale alla confisca) sono diversi rispetto a quelli della misura di prevenzione patrimoniale.
3.2. Il terzo motivo – con il quale il ricorrente deduce che il sequestro dei beni sarebbe divenuto inefficace e che conseguentemente non poteva essere disposta la confisca – è manifestamente infondato, per le ragioni esposte nella parte di questa sentenza dedicata all’esame del terzo motivo di COGNOME NOME (che proponeva la medesima questione), alla quale si rinvia.
3.3. I motivi aggiunti sono inammissibili.
Tali motivi, infatti, al pari di quelli originari, ai quali sono strettament correlati, sono versati in fatto e si risolvono in un’inammissibile critica alla motivazione del provvedimento impugnato.
Con riferimento alla prima censura, inoltre, va rilevato che alla Corte di appello non era sfuggito che il libretto fosse stato aperto da COGNOME NOME il 20 marzo 2017, ma ha ritenuto che le risorse confluite in quel libretto fossero maturate nel periodo di pericolosità sociale di COGNOME NOME in considerazione dell’insufficienza dei redditi prodotti da COGNOME NOME nel periodo che va dal 2009 al 2016.
4. Il ricorso di COGNOME NOME è inammissibile.
L’unico motivo, in tutte le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
Con esso, infatti, la ricorrente, in sostanza, deduce vizi di motivazione, esulanti dal perimetro della violazione di legge, proponendo una lettura alternativa delle risultanze istruttorie. Va, in ogni caso, evidenziato che la Corte di appello ha reso una motivazione adeguata e coerente anche con riferimento ai beni in questione.
Ha confermato la confisca dell’immobile indicato nel ricorso, evidenziando che l’acquisto era avvenuto nel 2014, nel periodo di pericolosità sociale di COGNOME NOME per un prezzo (euro 650.000,00) palesemente sproporzionato rispetto ai redditi di COGNOME NOME, e con le stesse risorse economiche della famiglia (cfr. pagine 67 e 68 del decreto).
Quanto al libretto di deposito a risparmio, benché aperto il 20.3.2017, in epoca contigua al periodo di pericolosità sociale di COGNOME Luigi, la Corte territoriale ne ha confermato la confisca, ritenendo essere stato alimentato con redditi di provenienza illecita, in considerazione della sproporzione dei redditi conseguiti da
COGNOME NOME tra il 2009 ed il 2016, pari a poco più di 178 mila euro (cfr. p. 73
del decreto).
Bagalà NOME
5. Il ricorso di
è inammissibile.
L’unico motivo è inammissibile.
Con esso, infatti, la ricorrente, in sostanza, deduce vizi di motivazione, esulanti dal perimetro della violazione di legge, proponendo una lettura alternativa
delle risultanze istruttorie. Va, in ogni caso, evidenziato che la Corte di appello ha reso una motivazione adeguata e coerente anche con riferimento all’immobile in
questione.
Ha confermato la confisca dell’immobile indicato nel ricorso, evidenziando che l’acquisto era avvenuto nel 2014, nel periodo di pericolosità sociale di COGNOME Luigi,
per un prezzo (euro 100.000,00) palesemente sproporzionato rispetto ai redditi di
COGNOME NOME pari a circa 21.000,00 euro (cfr. p. 72 decreto).
6. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, consegue, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Il Consigliere estensore
GLYPH
Il Pre
Così deciso, il 6 marzo 2024