Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23922 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23922 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ACQUAVIVA DELLE FONTI( ITALIA) il DATA_NASCITA
avverso il decreto del 14/09/2023 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette:
la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Cort di cassazione NOME COGNOME, che ha chiesto l’annullamento con rinvio del decreto impugnato;
la memoria presentata dall’AVV_NOTAIO COGNOME che, nell’interesse della ricorrente, ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comm D.Lgs. 159/2011, nella parte in cui non consente la proposizione del ricorso per Cassazione anche per manifesta illogicità della motivazione per contrasto della disposizione in parola con gli artt. 3, 24 e 27 Cost., nonché con gli artt. 10 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 Carta E
RITENUTO IN FATTO
Con decreto del 14 settembre 2023 (dep. il 14 ottobre 2023) la Corte di Appello di Bari – a seguito del gravame interposto da NOME COGNOME ha confermato il decreto in data 1 febbraio 2023 con il quale il Tribunale di Bari ha applicato allo stesso proposto la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per la durata di un anno e sei mesi.
Avverso il provvedimento di secondo grado è stato presentato ricorso per cassazione nell’interesse del proposto, articolando tre motivi (di seguito esposti nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, d. att. cod. proc. pen.).
2.1. Con il primo motivo sono state prospettate la violazione dell’art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs. 159/2011, e l’assenza o apparenza della motivazione in relazione:
alla riconducibilità dell’COGNOME alla categoria di pericolosità contemplata dalla norma appena citata, tratta dal generico richiamo dei suoi precedenti riportati dal ricorrente e dalle annotazioni nel certificato dei carichi pendenti, recependo acriticamente talune delle considerazioni svolte del Tribunale che aveva ritenuto il ricorrente un evasore seriale e già aveva acriticamente recepito le decisioni assunte in sede cautelare nel procedimento penale n. 5762/2019 R.G.N.R., ancora pendente, negando rilievo ai provvedimenti di sgravio fiscale emessi in suo favore ed assumendo l’irrilevanza del tenore di vita del proposto, coerente con i redditi leciti dichiarati, e fondando la decisione sulla gravità delle sue condotte (ancora sub iudice);
alla sua pericolosità sociale, la cui effettiva valutazione difetterebbe, profilo rispetto al quale pure si sarebbe acriticamente recepito quanto esposto dal Giudice della cautela penale, nonostante lo specifico motivo di gravame formulato dalla difesa;
all’irrilevanza del tenore di vita del proposto sulla scorta dei propri redditi leciti dichiarati (come appena sopra riportato).
2.2. Con il secondo motivo sono state addotte la violazione dell’art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs. 159/2011, e l’assenza o apparenza della motivazione in relazione all’attualità della pericolosità sociale del proposto, avendo la Corte di merito reso una motivazione pressocché sovrapponibile a quella resa dal Tribunale, nonostante le puntuali censure difensive (relative in particolare alla mancanza di una effettiva e autonoma verifica della pericolosità rispetto al Giudice penale della cautela, essendo peraltro stata sostituita la misura degli arresti domiciliari con una misura interdittiva) ed erroneamente apprezzando il tempo decorso dai fatti attribuiti da ultimo al ricorrente, superiore al termine di due anni previsto dall’art. 14, comma 2 -ter, d. Igs. 159/2011, e valorizzando
elementi non attuali (i fatti a lui precedentemente contestati), non potendo trarsi l’attualità dall’elencazione di essi né dal riferimento all’applicazione di una misura cautelare ad altri soggetti.
2.3. Con il terzo motivo sono state denunciate la violazione dell’art. 6, comma 3, d. Igs. 159/2011 e l’assenza della motivazione rispetto a quanto prospettato con l’atto di appello (e in particolare il venir meno di una misura cautelare detentiva, il contegno collaborativo del proposto, la cessazione di ogni carica nelle compagini coinvolte nel procedimento penale), in relazione all’imposizione dell’obbligo di soggiorno, del divieto di utilizzare telefoni cellulari e altri strumenti di comunicazione elettronici e dell’obbligo di permanere nella propria abitazione durante l’orario notturno.
3. Il difensore del ha presentato memoria con la quale ha addotto addotto di non aver potuto denunciare il vizio di motivazione, pure sussistente, poiché non consentito dalla legge; e, in particolare alla luce della richiesta di chiarimenti indirizzata il 18 dicembre 2023 dalla Corte EDU al Governo italiano in ordine a una serie di questioni afferenti proprio alla disciplina delle misure di prevenzione, ha chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, co. 3 d. Igs. 159/2011 per contrasto con gli artt. 3, 24 e 27 Cost., nonché con gli artt. 10 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 Carta EDU, nella parte in cui limita la ricorribilità per Cassazione dei provvedimenti in materia di prevenzione ai soli casi di violazione di legge. Le denunciate violazioni si manifesterebbero in modo particolare laddove non è consentito censurare la logicità di provvedimenti assunti sulla sola base di elementi di fatto tratti esclusivamente dalle risultanze investigative di un procedimento penale non ancora definito neppure in primo grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza di legittimità:
nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge ai sensi degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, d. Igs. 159 del 2011; dunque, è escluso dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello (dagli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011, in combinato
disposto con l’art. 125, comma 3, cod. proc. pen.; Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, COGNOME, Rv. 260246 – 01; nonché Sez. 5, n. 11325 del 23/09/2019, dep. 2020, COGNOME; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080 01; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, COGNOME, Rv. 257007 – 01);
la motivazione del tutto mancante oppure apparente e, dunque, inesistente, è ravvisabile soltanto quando essa sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. 5, n. 9677 del 14/07/2014, dep. 05/03/2015, Rv. 263100 – 01; Sez. 3, n. 11292 del 13/02/2002, Salerno Rv. 221437 – 01); in altri termini, «il vizio di motivazione apparente sussiste solo quando il giudice non dia in realtà conto del percorso logico seguito per pervenire alla conclusione che adotta, argomentando per clausole di stile o affermazioni generiche non pertinenti allo specifico caso sottoposto alla sua valutazione» (Sez. 6, n. 31390 del 08/07/2011, COGNOME, Rv. 250686), ossia «allorché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 196361 – 01; cfr. pure Sez. 6, n. 49153 del 12/11/2015, COGNOME, Rv. 265244).
La difesa ha prospettato la questione di legittimità costituzionale di tale assetto normativo, che invece – nei termini denunciati – non si espone a dubbi di compatibilità costituzionale e convenzionale.
La Corte costituzionale ha già affermato – sia per le misure di prevenzione personali sia per la confisca di prevenzione – la compatibilità costituzionale della vigente disciplina che ammette il ricorso per cassazione soltanto per la violazione di legge e dunque, come appena sopra rilevato, non anche per il vizio di motivazione (cfr. spec. Corte cost. n. 106 del 09/05/2015; n. 321 del 05/11/2004): la Consulta ha evidenziato le peculiarità, sia sul terreno processuale sia nei presupposti sostanziali, delle misure di prevenzione rispetto all’accertamento dei reati da compiersi nel procedimento penale – distinzione, per vero, ribadita da Corte cost. n. 24 del 27/02/2019 – rimarcando come le forme di esercizio del diritto di difesa possano essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione.
L’allegazione difensiva – che invoca la richiesta di chiarimento da parte della Corte EDU al Governo in relazione a taluni ricorsi incoati innanzi alla prima, proprio in materia di misure di prevenzione, assumendo che sulla sola scorta di essa possa trarsi un’«apertura a livello sovranazionale, all’inclusione delle misure di prevenzione nell’ambito della “materia penale”» (cfr. memoria cit.) – non consente ex se, tenuto conto di quanto già affermato dalla Corte costituzionale, di rilevare la non manifesta infondatezza della questione. Piuttosto, deve ribadirsi che non può, con evidenza, ravvisarsi alcun contrasto in seno alla Costituzione tra la possibilità di proporre ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge, e non anche per vizio di motivazione, da una parte, e il diritto di difesa nonché il principio di non colpevolezza e la presunzione di innocenza (previsti rispettivamente dagli artt. 24 e 27, comma 2, Cost.), bastando aggiungere che la giurisprudenza di legittimità, anche nel suo più Alto Consesso, ha evidenziato che «nel sistema del diritto processuale penale italiano, il legislatore ha delineato un modello di esercizio del diritto di difesa (e, conseguentemente, anche del diritto alla impugnazione) differenziato in relazione alle varie fasi e tipologie di processo» (Sez. U, n. 8914/2017 – dep. 2018, cit., che richiama Sez. U, n. 31461 del 27/06/2006, Passamani, n.m. sul punto, e Sez. 2, n. 40715 del 16/07/2013, Stara, Rv. 257072); difatti, «l’effettività del diritto di difesa non richiede necessariamente che le medesime modalità di esercizio e le correlative facoltà siano uniformemente assicurate in ogni grado del giudizio, poiché tale diritto può conformarsi secondo schemi normativi diversi a seconda delle caratteristiche proprie della fase di giudizio nella quale deve essere esercitato. Ne discende che al legislatore va riconosciuta ampia discrezionalità nel graduare diversamente le forme e le modalità mediante le quali la difesa tecnica e personale viene garantita all’imputato» (Sez. U, n. 8914/2017 – dep. 2018, cit.); e ciò senza che possa sotto il profilo qui in esame ravvisarsi una limitazione del «diritto di accesso» al giudizio di legittimità, previsto dall’art. 6, par. 1, Carta EDU, «in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza» (Corte EDU, 28/10/2021, Succi e altri c. Italia). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
I primi due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.
La Corte di merito ha disatteso il gravame, ponendo a fondamento della qualificazione del ricorrente tra «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (art. 1, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) e quale persona in atto socialmente pericolosa, oltre ai precedenti
penali (per appropriazione indebita e violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nel luoghi di lavoro, rispettivamente dal 2009 e nel 2012), gli elementi tratti dai procedimenti penali instaurati nei suoi confronti tra essi valorizzando quello avente ad oggetto, tra l’altro, i delitti di bancarotta quel che più rileva – per bancarotta fraudolenta patrimoniale, dando conto sulla scorta del compendio acquisito nel corso delle indagini – dell’elevato ammontare degli importi oggetto materiale dell’agire illecito del proposto (e da lui impiegati per scopi personali, quali il noleggio di autovetture e la ristrutturazione di appartamenti della famiglia), e dell’ampio lasso di tempo in cui esso ha avuto luogo (dal 2010 al 2021); da ciò ha tratto la sistematicità delle condotte in discorso e, dunque, l’abitualità nella commissione di illeciti lucrogenetici e che il proposto ha vissuto abitualmente, anche in parte, con i proventi di dette attività delittuose, ipotesi che ricorre – rileva il Collegio – anche allorché essi costituiscano o abbiano costituito in una determinata epoca una componente significativa del reddito del proposto (cfr., per tutte, Corte cost., n. 24 del 27/02/2019). Infine – proprio alla luce dell’ampio lasso di tempo di tale agire e della pervicacia palesata dalle richiamate violazioni della disciplina penale posta dalla legge fallimentare – ha ritenuto che la sua pericolosità sia attuale, osservando come – pur essendo stata revocato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nel richiamato procedimento penale, egli sia stato sottoposto a misura interdittiva (proprio in ragione del perdurare della sua pericolosità sociale).
Si tratta, con evidenza, di una motivazione tutt’altro che apparente e che ha esaminato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (compiendo sia la fase c.d. constatativa sia quella c.d. prognostica: cfr. per tutte Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, Rv. 260103 – 4) in maniera conforme a diritto. Invero, correttamente si è avuto riguardo agli elementi emergenti dai richiamati procedimenti penali non ancora definiti: difatti, il giudice della prevenzione «può ritenere la riconducibilità del proposto ad una delle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche indipendentemente dall’esistenza di sentenze di condanna che abbiano accertato la pregressa commissione di reati, a condizione che la valutazione incidentale a tal fine compiuta non sia smentita da esiti assolutori di eventuali procedimenti penali, eccezion fatta per il caso in cui tali esiti siano dipesi dal riconoscimento di cause estintive» (Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, Cavazza, Rv. 280207 – 01); e «può valorizzare dati conoscitivi non presi in considerazione in alcun procedimento penale, così come quelli valutati in procedimenti penali non definitivi sostenendo, naturalmente, il relativo giudizio con congrua motivazione, anche alla luce delle deduzioni e delle
allegazioni eventualmente introdotte dalla difesa» (Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020 – dep. 2021, Rv. 280145 – 01; Sez. 6, n. 36216 del 13/07/2017, COGNOME, Rv. 271372; cfr. pure Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283798 – 01, n.m. sul punto). E non occorre, dilungarsi sull’incongruo richiamo difensivo del disposto dell’art. 14, comma 2-ter, d.lgs. 159 del 2011 (introdotto nel codice antimafia dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161 conformità a Corte cost. n. 291 del 2013) che prevede la verifica, anche officiosa, della pericolosità sociale del soggetto cui sia già stata applicata la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, quando il suo stato di detenzione (in costanza del quale l’esecuzione della misura è stata sospesa) si è protratto per almeno due anni; non potendosi ravvisare neppure una violazione di legge (e tanto meno una motivazione apparente) sol perché gli illeciti in discorso non giungerebbero fino a due anni prima dell’emissione del decreto impugnato bensì a due anni e quattro mesi prima (discrasia non certo dirimente in seno al piano argomentativo della decisione di seconda istanza, che ha valorizzato l’amplissimo lasso di tempo dell’agire illecito che ha attribuito al ricorrente). Ancora, la prospettiva sposata dalla Corte di merito che, come esposto, si è incentrata sui reati fallimentari ascritti al proposto, e in particolare sulle condotte distrattive dei beni delle società da lui amministrate, non può dirsi incisa dai prospettati sgravi delle pretese fiscali che il ricorrente avrebbe ottenuto (il che priva di centralità pure la sussistenza, nonostante essi, di un ingente debito tributario, di cui pure il decreto ha dato conto); né dalle censure relative ai redditi leciti dichiarati dal proposto, che – nei limiti consentiti (cfr. retro, par. 1) – non costituiscono una critica puntuale, e dunque specifica (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 – 01), all’iter argomentativo sopra richiamato nell’ottica della sua conformità a legge della sua asserita apparenza.
Né, infine, rispetto al piano argomentativo del decreto impugnato, parte ricorrente può giovarsi della prospettazione di un diverso apprezzamento degli elementi di fatto, che pure il ricorso contiene, e che non potrebbe ritualmente compiersi in questa sede di legittimità neppure qualora fosse ammessa in materia di misure di prevenzione la denuncia del vizio di motivazione (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 – 01).
4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile poiché contiene censure inedite: «non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute con la dovuta specificità alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza» (Sez. 5, n. 37875 del 04/07/2019, COGNOME,
Rv. 277637 – 01, che – quanto alla violazione di legge – richiama il disposto dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.).
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l’evidente inammissibilità dei motivi formulati impone di attribuirgli profili di colpa (cfr. Corte cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 – 01).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 22/02/2024.