Misure alternative: no senza residenza e lavoro stabili
L’accesso alle misure alternative alla detenzione rappresenta un pilastro del sistema penale orientato alla rieducazione del condannato. Tuttavia, la loro concessione non è automatica, ma subordinata alla dimostrazione di un progetto di vita concreto e credibile. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce con forza questo principio, negando il beneficio a un soggetto privo di una residenza effettiva e di una solida prospettiva lavorativa in Italia.
I Fatti del Caso
Un uomo, condannato in via definitiva, presentava istanza al Tribunale di Sorveglianza per ottenere l’applicazione di una misura alternativa al carcere. La sua richiesta veniva però dichiarata inammissibile. Il Tribunale motivava la decisione rilevando che l’istante non aveva indicato una residenza stabile in Italia e una reale possibilità lavorativa. Anzi, risultava trovarsi in Germania, presso un domicilio sconosciuto, rendendo impossibile qualsiasi valutazione sulle sue prospettive di rieducazione e prevenzione.
Contro questa decisione, l’uomo proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo di aver indicato un domicilio a Torino e di aver prodotto documentazione attestante una futura opportunità lavorativa. A suo dire, la sua presenza in Germania era solo occasionale e al momento del contatto telefonico da parte delle forze dell’ordine era risultato facilmente reperibile.
La Decisione della Corte sulle misure alternative alla detenzione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile. Secondo i giudici supremi, le argomentazioni del ricorrente non erano idonee a scalfire la correttezza della decisione del Tribunale di Sorveglianza. Di conseguenza, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
Le Motivazioni della Decisione
La Suprema Corte ha basato la sua decisione su due pilastri fondamentali.
In primo luogo, il ricorso non si confrontava adeguatamente con le motivazioni del decreto impugnato. Il Tribunale aveva evidenziato la mancanza di una residenza in Italia come elemento ostativo. Lo stesso ricorrente, nel suo ricorso, confermava di vivere a Torino solo come ospite di un connazionale, una situazione che non integra il requisito di una residenza stabile e verificabile, necessaria per avviare un programma di reinserimento. La sua localizzazione in Germania, peraltro non negata, rafforzava ulteriormente la valutazione del Tribunale.
In secondo luogo, il ricorso violava il principio di autosufficienza. Il ricorrente affermava di avere un’opportunità di lavoro, ma non forniva prove concrete a sostegno. Era stata depositata solo una generica ‘disponibilità all’assunzione’ da parte di una ditta, un documento troppo vago per essere considerato una prova sufficiente di un imminente inserimento lavorativo. Per ottenere un beneficio come le misure alternative alla detenzione, non basta affermare, bisogna dimostrare con documentazione certa e specifica.
Conclusioni: Le Implicazioni Pratiche
L’ordinanza in esame offre una lezione chiara: per accedere alle misure alternative alla detenzione, le mere dichiarazioni di intenti non sono sufficienti. È indispensabile presentare al giudice un quadro completo, stabile e documentato della propria situazione. Ciò include una residenza effettiva, non precaria o occasionale, e una prospettiva lavorativa concreta, supportata da documenti come un contratto di lavoro o una lettera di assunzione vincolante. In assenza di questi elementi, che costituiscono il fondamento di un serio progetto di reinserimento sociale, le porte del carcere difficilmente si apriranno per lasciare spazio a un percorso alternativo.
È sufficiente indicare un domicilio temporaneo per ottenere una misura alternativa alla detenzione?
No. Secondo la Corte, soggiornare come ospite presso un conoscente non costituisce una ‘effettiva residenza’, elemento ritenuto indispensabile per poter valutare un progetto di rieducazione e prevenzione.
Una generica disponibilità all’assunzione è una prova valida di un’attività lavorativa?
No. La Corte ha stabilito che una semplice e generica dichiarazione di disponibilità all’assunzione da parte di un’azienda non è sufficiente. Il principio di autosufficienza del ricorso richiede prove concrete e documentate, non semplici affermazioni o promesse vaghe.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile per motivi riconducibili a colpa del ricorrente, quest’ultimo viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, il cui importo è determinato dal giudice.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 4861 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 4861 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato il 19/08/1995
avverso il decreto del 23/07/2024 del TRIB. RAGIONE_SOCIALE di TORINO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO e CONSIDERATO IN DIRITTO
Rilevato che NOME COGNOME per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso contro il decreto emesso in data 23 luglio 2024 con cui il Tribunale di sorveglianza di Torino ha dichiarato inammissibile la sua richiesta di applicazione di misure alternative alla detenzione in carcere, non avendo l’istante indicato una effettiva residenza e una possibilità lavorativa, risultando che egli si trova attualmente in Germania, ad un domicilio ignoto, ed essendo perciò impossibile valutare le prospettive di rieducazione e prevenzione;
rilevato che il ricorrente deduce la carenza e l’illogicità della motivazione del decreto impugnato perché egli, nell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, aveva indicato un domicilio in Torino e prodotto documentazione lavorativa, e solo occasionalmente si trovava in Germania quando è stato contattato telefonicamente dalla Polizia di Stato, risultando pertanto, in quella occasione, facilmente reperibile;
ritenuto che il ricorso sia inammissibile perché non si confronta con il decreto, che ha valutato in termini negativi la mancanza di una residenza in Italia, che il ricorso conferma, riferendo il ricorrente di vivere a Torino solamente quale ospite di un connazionale, ed ha logicamente tenuto conto della nota della Polizia di Stato, circa il mancato rintraccio dell’istante in Italia, trovandosi egli in Germania, circostanze anch’esse non negate dal ricorrente;
ritenuto inoltre che il ricorso sia inammissibile perché non rispetta il principio dell’autosufficienza quanto all’asserito svolgimento di un’attività lavorativa, dal momento che tale svolgimento viene solo affermato ma non dimostrato con il deposito della necessaria documentazione, essendo stata depositata solo una generica disponibilità all’assunzione da parte di una ditta;
ritenuto, pertanto, che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, non sussistendo alcun vizio motivazionale, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e in mancanza di elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 19 dicembre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente