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Misure alternative: inammissibile il ricorso

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un condannato, avvocato di professione, contro il diniego di misure alternative alla detenzione. La decisione si fonda sulla manifesta infondatezza dei motivi, evidenziando l’irreperibilità del soggetto, la presenza di altri procedimenti penali a suo carico e un concreto pericolo di recidiva, elementi che delineano una prognosi sfavorevole al suo reinserimento sociale.

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Pubblicato il 1 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Misure Alternative: Quando il Pericolo di Recidiva Chiude le Porte alla Detenzione Extramuraria

L’ordinamento penitenziario italiano prevede la possibilità per i condannati di scontare la pena al di fuori del carcere attraverso le cosiddette misure alternative. Queste misure, tuttavia, non sono un diritto automatico, ma sono subordinate a una valutazione discrezionale del giudice, che deve considerare la personalità del reo e la sua idoneità al reinserimento sociale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito la centralità di questa valutazione, dichiarando inammissibile il ricorso di un condannato la cui richiesta era stata respinta per un fondato pericolo di recidiva e una generale inaffidabilità.

I Fatti del Caso

Il caso in esame riguarda un uomo, avvocato di professione, condannato in via definitiva, che aveva presentato ricorso contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Quest’ultimo aveva negato la concessione di misure alternative alla detenzione. La decisione del Tribunale si basava su una serie di elementi negativi: l’accertata irreperibilità del soggetto, nonostante i ripetuti tentativi di contatto da parte delle forze dell’ordine, la presenza di numerosi procedimenti penali pendenti per reati di un certo rilievo commessi in un arco temporale di quasi dieci anni, e la gravità dei fatti oggetto della condanna. Inoltre, era stata valorizzata una querela sporta nei suoi confronti in cui si evidenziava come, anche nel suo ruolo di legale, fosse risultato spesso assente e irreperibile.

L’inammissibilità del ricorso sulle misure alternative

Il ricorrente ha impugnato la decisione del Tribunale di Sorveglianza lamentando vizi procedurali, tra cui una presunta irregolarità nella dichiarazione di irreperibilità, e un’errata valutazione dei presupposti per la concessione dei benefici. Sosteneva che i giudici non avessero correttamente applicato i principi normativi relativi alla concessione delle misure alternative.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto le censure manifestamente infondate. Secondo i giudici supremi, il Tribunale di Sorveglianza aveva correttamente e logicamente motivato il proprio diniego. La valutazione complessiva delle circostanze emerse delineava un quadro di inaffidabilità del condannato, rendendo la prognosi per un suo effettivo recupero sociale del tutto sfavorevole.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha confermato la validità del ragionamento del Tribunale di Sorveglianza. La decisione di rigetto non si fondava su singoli episodi isolati, ma su un insieme coerente di fattori. L’irreperibilità accertata, i numerosi procedimenti pendenti e il pericolo concreto di recidiva sono stati considerati elementi sufficienti a giustificare una prognosi negativa. La Corte ha sottolineato che, in questo specifico contesto, neanche la professione legale svolta dal condannato poteva essere considerata un elemento favorevole o utile ai fini rieducativi. Al contrario, la condotta tenuta in passato, anche in ambito professionale, contribuiva a rafforzare il giudizio di inaffidabilità. In sostanza, l’analisi delle circostanze ha portato a ritenere che le misure alternative invocate non fossero idonee a garantire l’effettivo recupero e reinserimento sociale del soggetto, confermando la legittimità del diniego.

Le conclusioni

Questa pronuncia ribadisce un principio fondamentale in materia di esecuzione della pena: la concessione delle misure alternative richiede una prognosi favorevole sulla capacità del condannato di rispettare le prescrizioni e di intraprendere un percorso di reinserimento sociale. La presenza di elementi come la pendenza di altri procedimenti, una storia di irreperibilità e un concreto pericolo di recidiva costituiscono validi motivi per negare tali benefici. La decisione finale spetta al giudice di sorveglianza, il cui giudizio, se logicamente motivato e basato su prove concrete, è difficilmente censurabile in sede di legittimità. Il caso dimostra come il comportamento complessivo del condannato, anche al di fuori dei fatti per cui è stato condannato, sia determinante per la valutazione sulla sua affidabilità.

Per quale motivo principale è stata negata la concessione delle misure alternative?
La concessione è stata negata a causa di una prognosi sfavorevole basata su una serie di elementi: l’accertata irreperibilità del condannato, la pendenza di altri procedimenti penali per reati gravi, la gravità dei fatti oggetto di condanna e un concreto pericolo di recidiva.

Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile?
La Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato perché le censure mosse dal ricorrente non erano valide. Il Tribunale di Sorveglianza aveva, infatti, motivato in modo logico e completo la sua decisione, basandola su un quadro complessivo di inaffidabilità del soggetto che giustificava il diniego delle misure.

La professione di avvocato del condannato ha avuto un peso nella decisione?
Sì, ma in senso negativo. Il provvedimento specifica che, nel caso di specie, la professione legale non è stata considerata un elemento utile ai fini rieducativi. Anzi, la condotta del soggetto, che si era reso irreperibile anche nell’esercizio della sua attività, ha contribuito a rafforzare il giudizio sulla sua inaffidabilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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