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Misure alternative alla detenzione: quando sono negate?

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale di Sorveglianza di negare le misure alternative alla detenzione a una donna con gravi problemi psichiatrici e un’accusa di omicidio. La Corte ha ritenuto corretto il rigetto, basato sulla pericolosità sociale della ricorrente e sulla sua mancata collaborazione a un percorso terapeutico, e ha chiarito il principio della “perpetuatio jurisdictionis” per la competenza territoriale.

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Pubblicato il 11 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Misure alternative alla detenzione: quando la pericolosità sociale prevale

L’accesso alle misure alternative alla detenzione rappresenta un pilastro del sistema penale orientato alla rieducazione del condannato. Tuttavia, la loro concessione non è automatica e dipende da una valutazione complessa che bilancia le esigenze di recupero del singolo con quelle di sicurezza della collettività. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 35861/2025) offre importanti chiarimenti sui criteri di valutazione e sulla determinazione della competenza del Tribunale di Sorveglianza.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda una donna, condannata a scontare una pena di due anni e sei mesi di reclusione, che aveva richiesto l’ammissione a diverse misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare o la semilibertà. La sua situazione personale era estremamente complessa: era sottoposta a un altro procedimento penale per omicidio aggravato e aveva tentato il suicidio in stato di alterazione da abuso di alcol. A questo si aggiungevano problemi psichiatrici non trattati, un contesto di vita precario e l’assenza di un progetto riabilitativo concreto, anche a causa della sua mancata presentazione a un appuntamento con il SERT (Servizio per le Tossicodipendenze).
Il Tribunale di Sorveglianza di Ancona aveva respinto le sue istanze, ritenendo che nessuna misura alternativa fosse idonea a garantire le finalità di prevenzione, dato l’elevato rischio di reiterazione di condotte violente.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La difesa della donna ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza davanti alla Corte di Cassazione, basando il ricorso su tre motivi principali:
1. Incompetenza territoriale: Si sosteneva che il Tribunale di Ancona non fosse competente, in quanto la residenza della ricorrente era in provincia di Prato.
2. Violazione di legge: Secondo la difesa, il Tribunale, pur riconoscendo le gravi problematiche di salute della donna, non aveva disposto i necessari accertamenti per valutare l’incompatibilità delle sue condizioni con il regime carcerario, come previsto dalla normativa.
3. Vizio di motivazione: L’ordinanza era ritenuta illogica e contraddittoria per non aver approfondito d’ufficio l’utilità di una misura extramuraria e la fattibilità di cure e ricoveri.

Le motivazioni della Corte di Cassazione sulla competenza e sulle misure alternative alla detenzione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, rigettando tutte le doglianze. Per quanto riguarda la competenza, i giudici hanno ribadito un principio fondamentale: la competenza a decidere sulle misure alternative alla detenzione, quando la pena è sospesa, appartiene al Tribunale di Sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del Pubblico Ministero che ha emesso l’ordine di esecuzione. Nel caso specifico, l’ordine era stato emesso dal Procuratore di Macerata, per cui la competenza del Tribunale di Ancona era stata correttamente stabilita. La Corte ha inoltre richiamato il principio della perpetuatio jurisdictionis, secondo cui la competenza, una volta radicata, non è influenzata da successivi cambiamenti.

Nel merito, la Cassazione ha ritenuto che le critiche della difesa fossero un tentativo di ottenere una nuova e non consentita valutazione dei fatti. Il Tribunale di Sorveglianza aveva condotto un’analisi approfondita e logica della situazione. Aveva considerato le diagnosi, la pericolosità sociale della donna (evidenziata anche dalle gravi accuse pendenti), e soprattutto il suo comportamento non collaborativo, come la mancata presentazione al SERT. Questa assenza aveva reso impossibile elaborare un piano terapeutico e riabilitativo, elemento indispensabile per poter concedere una misura alternativa. I giudici di sorveglianza avevano correttamente concluso che, in assenza di un progetto concreto e di affidamento sulla volontà della donna di seguirlo, il rischio per la collettività era troppo elevato.

Le conclusioni

La sentenza consolida due importanti principi. In primo luogo, definisce con chiarezza il criterio per stabilire la competenza territoriale del Tribunale di Sorveglianza nei casi di sospensione dell’esecuzione della pena. In secondo luogo, sottolinea che la concessione delle misure alternative alla detenzione non può prescindere da una valutazione rigorosa della pericolosità sociale del condannato e dell’esistenza di un progetto riabilitativo concreto e credibile. La presenza di patologie, anche gravi, non è di per sé sufficiente a giustificare l’uscita dal carcere se il rischio di recidiva non è adeguatamente contenuto da un percorso di cura e reinserimento al quale il condannato dimostri di voler aderire fattivamente.

Come si determina la competenza del Tribunale di Sorveglianza per le misure alternative?
La competenza appartiene al tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio del Pubblico Ministero che ha emesso l’ordine di esecuzione della pena sospesa, secondo il principio della perpetuatio jurisdictionis.

È possibile negare le misure alternative a chi ha gravi problemi di salute?
Sì, è possibile se il Tribunale ritiene, con motivazione logica, che le condizioni della persona e la sua mancata collaborazione a un percorso di cura rendano le misure alternative inadeguate a prevenire il rischio di commettere altri reati.

Cosa valuta il Tribunale di Sorveglianza per concedere una misura alternativa?
Il Tribunale valuta un insieme di circostanze, tra cui la personalità del condannato, la sua pericolosità sociale, l’assenza di progetti riabilitativi concreti, la sua volontà di collaborare e il rischio che le problematiche personali possano innescare nuove condotte violente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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