Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 10005 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 1 Num. 10005 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/11/2024
PRIMA SEZIONE PENALE
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME
– Relatore –
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME NOME nato a CASORIA (ITALIA) il 16/06/1954 Di NOME nata a CASORIA il 29/11/1960 NOME nata a CASORIA il 01/05/1988 avverso il decreto del 06/02/2020 della Corte d’appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria d’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con decreto in data 6 febbraio 2020 la Corte di appello di Napoli ha confermato, nei riguardi di COGNOME NOME, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, per la durata di quattro anni, nonchØ la misura patrimoniale della confisca del compendio patrimoniale a lui intestato o, comunque, riconducibile.
1.1. Il proposto Ł iscrivibile, secondo i giudici del merito, nelle categorie criminologiche tipizzate dall’art. 1, lett. a) e b), d. lgs. n. 159 del 2011, giudicate astrattamente compatibili con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), a patto che il relativo giudizio, in uno con il rilievo dell’attualità di pericolosità sociale, sia fondato su precisi elementi di fatto e non su illazioni o congetture.
Tanto si Ł ritenuto nel caso di specie sulla scorta dei seguenti elementi: i) la risalente appartenenza, sin dagli anni 80, di COGNOME all’associazione camorristica clan COGNOME , attiva nelle zone di Afragola, Casoria e Cardito, desunta dalle dichiarazioni di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, collaboratori di giustizia concordi nell’affermare che, in quel periodo, le riunioni operative dei membri del clan si svolgevano abitualmente nell’autorimessa del ricorrente e alla sua presenza; ii) il contenuto delle conversazioni telefoniche captate nell’aprile del 1998, nell’ambito di indagini relative ad alcuni omicidi realizzati dal gruppo, che attestavano reiterati contatti tra COGNOME
e NOME COGNOME, capozona dei COGNOME nel comune di Casoria e condannato per gli omicidi di NOME COGNOME e NOME COGNOME. A tale proposito si Ł richiamata la conversazione del 7 aprile 1998, attestante la pronta disponibilità prestata da COGNOME, pochissimi minuti dopo l’omicidio di NOME COGNOME, a ospitare uno dei killer, NOME COGNOME, disponibilità da quest’ultimo confermata, una volta divenuto collaboratore di giustizia. Questi ha altresì riferito di avere dormito a casa di COGNOME anche dopo l’esecuzione dell’omicidio di COGNOME; iii) il sicuro interessamento di COGNOME in occasione del ferimento di NOME COGNOME, avvenuto il 5 maggio 1998, attestato da una coeva conversazione tra COGNOME e COGNOME; iv) l’acclarato stretto legame con gli appartenenti al clan COGNOME, la condivisione da parte di costoro delle decisioni attinenti all’esecuzione di omicidi dei quali COGNOME era costantemente informato, la disponibilità a rappresentare un sicuro punto di riferimento e supporto nelle fasi della deliberazione ed esecuzione dei delitti, infine la fruizione della posizione di monopolio “di fatto” nel servizio delle pompe funebri nel comune di Casoria, come riferito dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME e, quanto a quest’ultimo aspetto, anche dal collaboratore NOME COGNOME v) l’attuale sottoposizione di COGNOME alla misura della custodia cautelare in esecuzione dell’ordinanza emessa il 24 maggio 2013 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, perchØ gravemente indiziato del reato di partecipazione all’associazione camorristica denominata clan COGNOME e i connessi reati d’intestazione fittizia di beni e d’illecita concorrenza con violenza o minaccia, aggravati dall’art. 7 l. n. 203 del 1991, reati per i quali Ł stato riconosciuto colpevole con sentenza del Tribunale di Napoli del 24 marzo 2017, non irrevocabile. I fatti oggetto di contestazione provvisoria e poi d’imputazione riguardano, appunto, il regime di sostanziale monopolio garantito alle ditte facenti capo a COGNOME nella gestione delle onoranze funebri, imposto attraverso atti d’illecita concorrenza concretantisi in atti d’intimidazione compiuti avvalendosi dell’appartenenza al clan COGNOME e che era sfociata addirittura in una violenta e sanguinosa faida con la famiglia COGNOME, operante nello stesso settore, che aveva visto vittime di eliminazione i due fratelli di COGNOME e NOME COGNOME e che aveva dato causa al ferimento di NOME COGNOME.
L’assenza di elementi dai quali inferire un recesso dagli ambienti mafiosi Ł stata considerata dalla Corte territoriale espressiva della riconfermata adesione del proposto a uno stile di vita improntato alla commissione di delitti, per la loro sistematicità, per le modalità esecutive (non avendo esitato a porsi a disposizione del sodalizio, ricevendone in cambio la posizione dominante nell’attività di onoranze funebri), infine per gli ingenti guadagni così realizzati.
La Corte – anche attraverso il richiamo della motivazione resa sul punto dal Tribunale – ha, inoltre, evidenziato (p. 22) la rilevante sproporzione tra i redditi percepiti e gli acquisti del proposto e dei suoi familiari, a tal fine valorizzando i dati indicati nella richiesta di sequestro nelle informative di Polizia giudiziaria e l’esito della perizia all’uopo disposta, non mancando di sottolineare l’irrilevanza della diversa ricostruzione contenuta nella consulenza di parte, siccome fondata su dati extracontabili non provati e smentita dal supplemento di perizia disposto nel corso del giudizio di appello (p. 23).
1.2. Quanto alle doglianze dei terzi interessati, NOME COGNOME e NOME COGNOME la Corte ha osservato che si trattava di motivi loro non consentiti, perchØ orientati non già a far valere l’esclusiva titolarità dei beni oggetto del provvedimento ablativo, bensì la proporzione tra il loro valore e la capacità reddituale del proposto.
Ciò, ad avviso della Corte di appello, imponeva la conferma del provvedimento ablativo della confisca, con la precisazione che – essendo divenuta irrevocabile, in data 27 maggio 2021, la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 16 luglio 2019 che ha disposto, all’esito del giudizio di merito, la confisca degli stessi beni oggetto della misura di prevenzione – a quella proposta doveva seguire la dichiarazione che la confisca era già stata eseguita in sede penale.
Ricorre per cassazione COGNOME tramite il difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME e lo affida a due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione in punto di mancata risposta agli specifici rilievi difensivi con riferimento alla conferma della misura di prevenzione.
Nella prima parte del motivo, si evidenzia come la difesa avesse rappresentato l’inidoneità degli elementi posti dal Tribunale a fondamento dell’applicazione della misura di prevenzione personale e che le censure si erano indirizzate, sia sotto il profilo dell’inesistenza di un clan COGNOME nel periodo riguardante le condotte di COGNOME oggetto di analisi, sia sotto il profilo dell’ininfluenza delle stesse nell’ambito del gruppo criminale, avversandosi la distinzione terminologica tra il concetto di ‘partecipazione’ e quello di ‘appartenenza’ a un’associazione criminale, utilizzato dalla Corte di appello. Secondo il ricorrente, egli avrebbe operato in un segmento temporale in cui la consorteria criminale era pressochØ inesistente, a causa dello sgretolamento del gruppo dirigenziale e dello svuotamento della consorteria.
Si denuncia, altresì, la genericità dell’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale, nel caso di COGNOME, la pericolosità derivante dalla commessione di delitti riconducibili all’attività dell’organizzazione mafiosa e, piø in generale, il vincolo di solidarietà criminale non sarebbero scalfiti dal periodo trascorso in detenzione, rimarcando come ciò sia smentito dal fatto che non vi sono condanne di COGNOME per reati successivi a quello richiamato nel decreto impugnato. Non si sarebbe valutato il comportamento successivo al reato che, invece, per giurisprudenza pacifica e costante, rappresenta un elemento fondamentale di cui il giudice deve tener conto nel momento in cui valuta l’attualità e la concretezza della pericolosità sociale del proposto; sotto questo profilo, valorizza il lunghissimo periodo in custodia cautelare, in regime di “carcere duro”, trascorso nel costante rispetto delle prescrizioni imposte.
Si lamenta, inoltre, come la contestazione associativa nei riguardi del ricorrente Ł delimitata temporalmente dal 1993, con condotta perdurante alla sentenza di primo grado, sicchØ Ł con riferimento a tale ambito temporale che la Corte di appello avrebbe dovuto svolgere le sue considerazioni al fine della doverosa verifica dell’attualità della pericolosità sociale.
Seguono articolate considerazioni (da p. 19) volte a dimostrare come il decreto impugnato abbia, giusta la tesi del ricorrente, valorizzato elementi superati dagli esiti dell’attività dibattimentale, svolta nel medesimo procedimento penale, che avrebbe fornito elementi non conoscibili dal Giudice per le indagini preliminari e dai giudici del riesame.
Nell’ultima parte del primo motivo si riportano stralci di dichiarazioni dibattimentali al fine di porre in risalto l’inattendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le suggestioni derivanti dai servizi giornalistici svolti sull’attività di onoranze funebri.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione, anche sotto il profilo della mancanza grafica, a proposito dell’omessa valutazione della consulenza di parte sulla capacità reddituale di COGNOME e dei terzi interessati, nonchØ all’asserita illiceità dei redditi non dichiarati.
Il ricorrente lamenta l’erronea valutazione della Corte di una serie di dati oggettivi che avrebbero reso possibile una ricostruzione alternativa quella proposta, idonea a dimostrare la liceità dell’acquisto degli immobili. Tale ricostruzione alternativa sarebbe stata adeguatamente esposta nella consulenza di parte che avrebbe individuato numerosissimi profili di criticità rispetto alla perizia di ufficio cui, tuttavia, la Corte ha ritenuto di dare immotivata preferenza. Di contro, COGNOME avrebbe compiutamente quantificato l’ammontare dell’evasione d’imposta e dimostrato di avere acquistato i
beni immobili oggetto di confisca con la parte di proventi leciti a lui residuati al netto delle imposte evase e non con i proventi del reimpiego delle imposte evase.
Con un unico atto, ricorrono altresì i terzi interessati, NOME COGNOME e NOME COGNOME per il tramite del difensore di fiducia avv. NOME COGNOME e deducono un unico, articolato motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari alla motivazione, ai sensi dell’art. 173 dip. att. cod. proc. pen.
Denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in punto di omessa valutazione degli sviluppi del procedimento di cognizione, ritenuto presupposto logico del provvedimento di confisca.
Premettono i ricorrenti che, nel decreto impugnato, la Corte di appello avrebbe superato le censure dei terzi interessati, sia per l’assenza d’interesse di costoro a disquisire della proporzione tra i redditi del proposto e i beni oggetto di confisca, sia perchØ il giudizio di merito aveva già rivelato una tale gravità probatoria estensibile al giudizio di prevenzione, sicchØ il processo penale diveniva strumento finalizzato alla confisca.
Lamentano i ricorrenti che, se il procedimento di cognizione Ł stato ritenuto il presupposto fondante la motivazione del decreto di conferma della confisca, allora avrebbe dovuto trovare spazio quanto avvenuto nel prosieguo del giudizio di merito e, segnatamente, l’avvenuto annullamento senza rinvio, agli effetti penali, nei confronti di NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME in relazione al capo 4) dell’imputazione, riguardante il reato d’interposizione fittizia nell’acquisto di beni, perchØ, esclusa l’aggravante di cui all’articolo sette legge 203 1991, il reato si Ł estinto per prescrizione.
In proposito, il ricorso riporta ampi stralci della sentenza con cui la Corte di cassazione aveva annullato la sentenza di merito della Corte di appello nei riguardi di tutti odierni ricorrenti e rimarca come la configurabilità dell’elemento psicologico del reato contestato fosse stata ritenuta fondata su affermazioni che non si erano confrontate con le evidenze probatorie e con le deduzioni difensive.
In particolare, la Corte di cassazione in quella sentenza, aveva ritenuto: i) che non avesse formato oggetto di specifica analisi la circostanza che, ben prima delle misure interdittive del 2005, COGNOME aveva elaborato una strategia di diversificazione delle società operanti nel medesimo settore e di attribuzione di quote e gestioni familiari e conoscenti; ii) che la situazione della costituzione di piø società e la partecipazione apparente alle stesse di soggetti diversi da COGNOME si era riprodotta identicamente anche in epoca successiva all’annullamento delle interdittive, con ruolo ostensibile dello stesso COGNOME; iii) conseguentemente insoddisfacente la motivazione del Giudice di appello sulla prova della “finalità elusiva”, ben potendo la condotta di COGNOME essere finalizzata esclusivamente alla necessità di non rendere evidente la situazione di monopolio nella quale egli operava nel settore delle onoranze funebri.
I ricorrenti danno altresì atto dell’esito del nuovo giudizio instaurato dinanzi alla Corte di appello, e del nuovo annullamento, questa volta – come anticipato – senza rinvio, per l’intervenuta prescrizione del reato contestato al capo 4).
Tutto ciò premesso, i ricorrenti lamentano, in definitiva, che il provvedimento impugnato avrebbe omesso di verificare la posizione del terzi estranei alla luce di tali risultanze emerse nel prosieguo del giudizio di merito.
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME intervenuto con requisitoria scritta depositata in data 30 ottobre 2024, ha prospettato l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi non superano il vaglio di ammissibilità per le ragioni di seguito esposte.
Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione Ł ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto degli artt. 10 e 27 d.lgs. n. 159 del 2011.
Ciò significa che il sindacato di legittimità rinviene contenuto e cornice di definizione nella motivazione inesistente o apparente (art. 125, comma 3, cod. proc. pen.). ¨ scrutinabile, quindi, dinanzi a questa Corte quella carenza del percorso di giustificazione della decisione che sia tale da tradursi nella redazione di una motivazione priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità o, ancora, di un testo del tutto inidoneo a far comprendere lo svolgimento del ragionamento seguito dal giudice (tra le altre: Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, COGNOME, Rv. 266365).
NØ può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice (o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato).
Tanto premesso, quanto al ricorso di NOME COGNOME tutti i motivi sono inammissibili.
2.1. Il primo motivo si espone a piø profili d’inammissibilità.
In primo luogo, non può non rilevarsi come il ricorso, che consta di settantatrŁ pagine, sia strutturato attraverso l’alternanza di parti espositive di doglianze, di stralci di motivazioni del provvedimento impugnato e di parziali ripetizioni dei motivi di appello, così rendendo non intellegibili le specifiche censure che si addebitano al percorso motivazionale della Corte di appello.
Com’Ł noto, in tema d’impugnazione, il requisito della specificità dei motivi implica, a carico della parte impugnante, non soltanto l’onere di dedurre le censure che intenda muovere riguardo a uno o piø punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi fondanti le censure medesime, al fine di consentire al giudice di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, COGNOME, Rv. 281112); sicchØ Ł inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione fondato su una esposizione delle doglianze che renda particolarmente disagevole la lettura e che esuli dal percorso di una ragionata censura della motivazione del provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 7801 del 19/11/2013, dep. 19/02/2014 Rv. 259063), siccome recante parti espositive di doglianza alternate a estratti di atti del giudizio di merito e a parziali ripetizioni dei motivi di appello (Sez. 2, n. 29607 del 14/05/2019, COGNOME Rv. 276748).
Sotto altro concorrente profilo, osserva il Collegio che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione. (Sez. 4, n. 8294 del 01/02/2024, Della COGNOME, Rv. 285870 – 01; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, COGNOME, Rv. 277518 – 02). Il ricorrente non ha assolto a detto specifico onere.
In ogni caso, il motivo Ł inammissibile anche perchØ reiterativo e a-specifico rispetto alla motivazione del Giudice di appello.
Il decreto ha dato atto delle gravissime condotte attuate dal sottoposto, contiguo sin dagli anni
’80 alla consorteria mafiosa clan COGNOME , che la difesa assertivamente ritiene disgregata nel periodo di riferimento. In proposito (p. 10), la Corte di appello ha posto l’accento – con motivazione scevra da fratture logiche – che scelte collaborative compiute da alcuni membri dell’associazione camorristica, anche ove posti in posizioni apicali, non rappresentano un fatto idoneo a dimostrare la disgregazione del sodalizio che, pur se indebolito, non Ł disarticolato, quanto piuttosto obbligato a mutare i suoi assetti interni. Tale conclusione ha ritenuto fosse avvalorata dal complesso degli elementi indiziari posti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare emessa in data 18 giugno 2010 dal Gip del Tribunale di Napoli con la quale venivano contestati a numerosi soggetti gravi reati e, tra questi, il delitto p. e p. dall’art. 416bis cod. pen, unitamente a numerosi reati-fine. Ha, quindi, osservato come il provvedimento restrittivo risultasse fondato su attività tecnica svolta in un arco temporale di circa quattro anni, oltre che sulle dichiarazioni particolareggiate e convergenti di numerosi collaboratori di giustizia e, in particolare, NOME COGNOME e NOME COGNOME
E’ appena il caso di osservare come la parte del motivo di ricorso con il quale si lamenta l’avvenuta declaratoria d’inutilizzabilità contra alios , nell’ambito del giudizio di primo grado, delle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME priva di autosufficienza (perchØ si riportano le sorti delle dichiarazioni del collaboratore, senza allegare i relativi verbali) e, comunque, manifestamente infondata: il ricorrente pretenderebbe, per tale via, di trasferire l’asserito giudizio d’inutilizzabilità dal giudizio di merito a quello della prevenzione, ma non si avvede del fatto che le motivazioni della Corte non sono state ancorate esclusivamente a dette dichiarazioni, bensì a una ben piø ampia piattaforma probatoria.
Le censure riguardanti l’attendibilità dei collaboratori COGNOME e COGNOME, interamente versate in fatto, sono identiche a quelle che avevano costituito l’oggetto dell’appello e dalla Corte adeguatamente vagliate e superate, anche attraverso la valorizzazione di quelle rese da altri collaboratori nonchØ delle conversazioni telefoniche intercettate, nell’ambito delle indagini relative ad alcuni omicidi realizzati da componenti dell’ala militare del gruppo (p. 13 e s.).
La doglianza che avversa la motivazione sulla necessaria differenziazione tra i concetti di “partecipazione” e “appartenenza” a un sodalizio criminale, trascura il principio dettato da Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271511, secondo cui «Il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale».
La Corte di appello ha altresì indicato – in modo puntuale e logicamente coerente – le circostanze da cui desumere l’attuale pericolosità di COGNOME, senza arrestarsi all’indicazione delle condotte, perpetrate fino all’anno 2000 come riferite dai collaboratori di giustizia, ma correttamente valorizzando i fatti successivi emersi dall’ordinanza cautelare, poi tradottasi in condanna in primo grado, così mostrando di fare buon governo del principio dell’autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, espressamente richiamato nel provvedimento impugnato, che consente al giudice, in materia di prevenzione, di valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, perfino nei casi di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o per preclusioni processuali – per una condanna penale, ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità.
Muovendo dalle esposte risultanze obiettive, in assenza di elementi dimostrativi di comportamenti di dissociazione o, comunque, di allontanamento da tali ambienti criminali, con
motivazione esistente ed effettiva, non apparente e nemmeno incomprensibile nel suo sviluppo argomentativo, il provvedimento impugnato (e, prima di esso, quello del Tribunale), ha ritenuto persistente la pericolosità sociale del proposto sia in relazione alla categoria di pericolosità c.d. qualificata ex art. 4, let. a), sia in relazione a quella generica di cui all’art. 1, let. b) d. lgs. n. 159 del 2011.
Siffatta motivazione – in assenza di deduzioni specifiche relativamente a concrete manifestazioni da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche criminali in precedenza condivise all’interno del clan di appartenenza – Ł rispettosa dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità in base, ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, Ł necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto, e che, laddove sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, Ł possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purchØ la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Gattuso, Rv. 271511;Sez. 6, n. 20577 del 07/07/2020, COGNOME, Rv. 279306).
2.2. Inammissibilmente avanzate devono ritenersi anche le doglianze riguardanti la confisca che, oltre a presentarsi come dirette a censurare soltanto pretese illogicità di motivazione, devolvono questioni esaurientemente trattate, quali la sproporzione tra i redditi leciti del proposto e il suo patrimonio.
Nessuna violazione di legge Ł, infatti, dato cogliere nella restante parte del ragionamento della Corte territoriale, la quale ha proceduto (p. 22 e s.) ad ampia disamina delle ragioni che il perito, attraverso un correlato raffronto tra il valore dei beni ragionatamente ricostruito e le risorse economiche a disposizione, ha posto a fondamento della conclusione della sussistenza di una palese sproporzione.
Le censure difensive al riguardo, integralmente basate sulla diversa ricostruzione svolta dal consulente di parte, sono state diffusamente esaminate e confutate nel decreto impugnato, che ha dato analitico conto del relativo convincimento, ivi compreso il supplemento di perizia, in esito al quale (pur apportando alcune rettifiche sulla base dei dati riferiti dal consulente di parte) si Ł potuto confermare il requisito della sproporzione, caratterizzata da continuità e progressività costante.
Del pari adeguatamente chiarita (p. 23), da parte della Corte di appello, Ł la fallacia della tesi secondo cui COGNOME avrebbe dimostrato di avere acquistato i beni immobili oggetto di confisca con la parte di proventi leciti a lui residuati, al netto delle imposte evase, e non con i proventi del reimpiego delle imposte evase.
Si tratta di motivazione che si pone nell’alveo della giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 33451 Repaci, citata, ma anche Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, Polimio, Rv. 278679) secondo cui, in tema di pericolosità generica, la sistematica condotta di evasione fiscale, di rilievo penale, e la conseguente immissione di capitali di provenienza non lecita in un complesso aziendale – che comporta l’impossibilità di scindere tra eventuali componenti sane, riferibili ad attività imprenditoriale lecita, e apporto di capitali illeciti -, nonchØ il considerevole divario tra l’ammontare dei redditi ufficiali e la misura degli investimenti effettuati nelle società riferibili al proposto rappresentano elementi rilevanti al fine dell’inquadramento del predetto nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 e della conseguente applicazione della confisca di prevenzione di immobili e quote sociali nella disponibilità del medesimo, anche se formalmente intestati a terzi.
A non migliore sorte Ł destinato l’unico, articolato motivo di ricorso dei terzi interessati, NOME
NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Vanno qui, in primo luogo richiamate le osservazioni, in punto di difetto di specificità, svolte nel paragrafo 2.1. riguardante la posizione di NOME COGNOME.
In ogni caso, Ł del tutto destituita di fondamento la censura secondo cui la Corte di appello non avrebbe preso in considerazione il prosieguo del procedimento le cui risultanze indiziarie erano state compendiate nell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, per le ragioni che si sono espresse al già richiamato paragrafo 2.1., in punto di autonomia dei procedimenti (di merito e di prevenzione).
E’ qui appena il caso di porre in risalto come del tutto inconferente sia il richiamo svolto dai ricorrenti alla sentenza di annullamento della Corte di cassazione in data 27 maggio 2021, posto che – come emerge dalla stessa lettura dello stesso ricorso – il Giudice di legittimità ha ritenuto fondato il motivo sul difetto di prova dell’elemento psicologico del reato d’intestazione fittizia contestato ai ricorrenti e che tale motivazione non Ł suscettibile di esplicare, in via automatica, i propri effetti rispetto alla misura di prevenzione, posto che per tale via Ł dato, al contrario, atto che l’intestazione fittizia ci sia stata, ritenendosi non adeguatamente motivata la consapevolezza in capo agli imputati della finalità elusiva delle misure di prevenzione.
La stessa sentenza richiamata dai ricorrenti ha, poi, respinto tutte le doglianze in tema di confisca, sicchØ Ł corretta la conclusione della Corte di appello nel provvedimento impugnato che, constatato il fatto che il giudizio di merito si era concluso prima dell’appello in sede di prevenzione e che la relativa statuizione di confisca, avente a oggetto gli stessi beni, era già divenuta irrevocabile a seguito della sentenza della Corte di cassazione in data 27 maggio 2021, ha dichiarato che la confisca era stata già eseguita in sede penale.
Per le ragioni sin qui indicate i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali e – per i profili di colpa connessi all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost. n. 186 del 2000) – della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così Ł deciso, 26/11/2024
Il Consigliere estensore
EVA TOSCANI
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
EVA TOSCANI