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Misura cautelare: quando la buona condotta non basta

La Cassazione rigetta il ricorso per la sostituzione della misura cautelare in carcere. Nonostante la buona condotta e una donazione, la pericolosità sociale dell’imputato e i precedenti specifici giustificano il mantenimento della detenzione.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Misura Cautelare: la Pericolosità Sociale Prevale sulla Buona Condotta

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sent. n. 46358/2024) affronta un tema cruciale nel diritto processuale penale: la valutazione degli elementi necessari per la sostituzione di una misura cautelare detentiva con una meno afflittiva. Il caso in esame dimostra come la pericolosità sociale dell’imputato, desunta dalla gravità dei fatti e dai precedenti penali, possa prevalere su elementi sopravvenuti quali la buona condotta carceraria e gesti di ravvedimento, confermando la necessità di un giudizio rigorosamente individualizzato.

I Fatti del Processo

L’imputato, in stato di custodia cautelare in carcere per reati legati alla detenzione e vendita di sostanze stupefacenti, presentava un’istanza per la sostituzione della misura con gli arresti domiciliari. A sostegno della sua richiesta, la difesa adduceva una serie di elementi nuovi:

1. Buona condotta processuale e carceraria.
2. Un gesto di resipiscenza, consistente in una donazione a un’associazione per la lotta alla droga.
3. La disponibilità di un alloggio stabile, lontano dal luogo di commissione dei reati.
4. Una presunta disparità di trattamento rispetto al fratello coimputato, al quale, a parità di pena inflitta, erano stati concessi gli arresti domiciliari.

Il Tribunale del riesame, tuttavia, rigettava l’istanza, confermando la decisione del giudice precedente. Contro questa ordinanza, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione.

La Valutazione della Misura Cautelare da Parte della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso infondato, rigettandolo. Gli Ermellini hanno ritenuto corretta e priva di vizi logici la motivazione dell’ordinanza impugnata, che aveva confermato la custodia cautelare come unica misura idonea a fronteggiare l’elevata pericolosità sociale del ricorrente. La decisione si basa su una valutazione complessiva e individualizzata della personalità dell’imputato e del contesto criminale in cui operava.

Le Motivazioni

La Suprema Corte ha analizzato punto per punto gli argomenti della difesa, fornendo una chiara spiegazione del proprio ragionamento. Innanzitutto, ha sottolineato la gravità della condotta dell’imputato: detenzione di un ingente quantitativo di droghe pesanti (eroina e 6-MAM) e un’attività di spaccio sistematica protrattasi per almeno due anni, rivolta anche a consumatori molto giovani. A questo si aggiungevano i precedenti penali specifici, che delineavano un profilo di ‘persistente proclività a delinquere’.

In merito ai nuovi elementi proposti, la Corte ha stabilito che:

* Buona condotta e mancata collaborazione: La scelta dell’imputato di avvalersi della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio, sebbene sia un diritto, è stata letta nel contesto generale come un segnale di mancato distacco dall’ambiente criminale, piuttosto che come un elemento a favore.
* Disparità di trattamento: La Corte ha ribadito un principio consolidato: la valutazione delle esigenze cautelari è strettamente personale. Una misura più favorevole concessa a un coimputato non costituisce un ‘fatto nuovo’ automatico per gli altri, specialmente quando le posizioni non sono sovrapponibili. Nel caso di specie, il fratello aveva un quadro di precedenti penali meno grave.
* Gesti di pentimento: La donazione, pur apprezzabile, non è stata ritenuta sufficiente a scalfire il giudizio di pericolosità, radicato in anni di attività criminale e nell’indifferenza mostrata persino alla nascita della propria figlia, evento che non lo aveva dissuaso dallo spaccio.

La Corte ha concluso che gli elementi presentati non erano idonei a modificare il quadro cautelare, ritenendo che il rischio di recidivanza fosse ancora concreto e attuale e che solo la custodia in carcere potesse adeguatamente contenerlo.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma principi fondamentali in materia di misura cautelare. La decisione di applicare, mantenere o sostituire una misura restrittiva della libertà personale non può basarsi su singoli elementi isolati, come la buona condotta, ma richiede una valutazione globale e approfondita della personalità dell’imputato e del pericolo concreto che egli rappresenta per la collettività. Il giudizio deve essere sempre individualizzato, e la posizione di un coimputato non può essere usata come un metro di paragone automatico. La pericolosità sociale, quando supportata da elementi oggettivi come la gravità del reato e i precedenti specifici, rimane il fulcro della valutazione del giudice.

La buona condotta in carcere è sufficiente per ottenere la sostituzione di una misura cautelare?
No, secondo la sentenza, la buona condotta carceraria e processuale, così come altri gesti di ravvedimento, non sono sufficienti da soli a determinare la sostituzione della misura se permane un giudizio di elevata pericolosità sociale basato sulla gravità dei fatti e sui precedenti penali dell’imputato.

Una misura cautelare più favorevole concessa a un coimputato costituisce un motivo valido per chiederne la modifica?
No. La Corte chiarisce che la valutazione delle esigenze cautelari è strettamente personale e autonoma per ogni imputato. La concessione di una misura meno afflittiva a un coimputato non implica automaticamente una disparità di trattamento, poiché le posizioni individuali (come i precedenti penali) possono essere diverse e giustificare regimi cautelari differenti.

La scelta di non rispondere all’interrogatorio di garanzia può essere valutata negativamente ai fini della misura cautelare?
Sebbene avvalersi della facoltà di non rispondere sia un diritto di difesa, la sentenza mostra come, nel contesto di una valutazione complessiva della personalità, la mancata collaborazione possa essere interpretata dai giudici come un indicatore di persistente vicinanza all’ambiente criminale, rafforzando così il giudizio sulla pericolosità sociale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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