Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 19174 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 19174 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME, nato in Bangladesh il DATA_NASCITA rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO, di fiducia
avverso la ordinanza in data 15/01/2024 del Tribunale di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1-bis cod. proc. pen., 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112 e che, conseguentemente, il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto;
letta la memoria difensiva con conclusioni in data 11/03/2024; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta ex art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e succ. modif.,
con la quale il Sostituto procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluso chiedendo di dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 15/01/2024, il Tribunale di Napoli rigettava l’appello, ex art. 310 cod. proc. pen., proposto nell’interesse di NOME avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli Nord in data 04/10/2023 con cui era stata rigettata l’istanza di revoca o di modifica della misura cautelare degli arresti domiciliari – al medesimo applicata in sostituzione ex art. 299 cod proc. pen. in data 21/07/2023 – in relazione ai reati di cui ai capi 1 (associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di rapina ed estorsione) e 2 (rapina): misura genetica già confermata in sede di riesame.
Avverso la predetta ordinanza, nell’interesse di NOME, è stato proposto ricorso per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Primo motivo: mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Vengono dedotte una serie di incongruenze “attinenti il propalato”, contestando l’attendibilità delle costituite parti civili NOME, NOME e NOME. Il difensore deduce il vizio di motivazione in relazione alle argomentazioni di volta in volta richiamate dal Tribunale del Riesame nel tentativo di sconfessare le prospettazioni della difesa sulle mutate condizioni legittimanti il provvedimento restrittivo. Le dichiarazioni delle persone offese NOME e NOME sarebbero sconfessate dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal COGNOME, vale a dire dall’unico testimone oculare estraneo ai fatti. Questi aveva visto la NOME arrivare a piedi dalla piazza e dunque ella non era presente quando il teste era sceso per aiutare il NOME. Vi sarebbe inoltre contraddittorietà delle persone offese, in ordine alla posizione dell’autovettura.
Secondo motivo: mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla invariata persistenza delle esigenze cautelari.
L’ordinanza non aveva considerato il tempo decorso dall’inizio della misura, pari ad oltre un anno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
2. Ritiene il Collegio, a fronte di deduzioni che invocano principi estranei alla fase cautelare, di dover chiarire i limiti di sindacabilità da parte di questa Suprema Corte dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame ovvero dell’appello cautelare nei confronti dei provvedimenti sulla libertà personale. Invero, secondo l’orientamento consolidato di questa Suprema Corte, che il Collegio condivide, l’ordinamento non conferisce al giudice di legittimità alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonchè del tribunale del riesame e dell’appello.
Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusi esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: a) – l’esposizione delle ragion giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr., Sez. 6, n. 2146 del 25/05/1995, COGNOME, Rv. 201840; Sez. 2, n. 56 del 07/12/2011, dep. 2012, Siciliano, Rv. 251760).
Inoltre, il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, è diretto a verificare, da un lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi. Tale controllo, stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e l rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici.
In particolare, il vizio di mancanza della motivazione in punto gravità indiziaia non può essere sindacato dalla Corte di legittimità, quando non risulti “prima facie” dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sez. 1, n. 1700 del 20/03/1998, COGNOME, Rv. 210566), nè possono essere dedotte come motivo di ricorso per cassazione avverso il provvedimento adottato dal tribunale del riesame e/o dell’appello pretese manchevolezze o illogicità motivazionali di detto provvedimento, rispetto a elementi o argomentazioni difensive in fatto di cui non risulti in alcun modo dimostrata l’avvenuta
rappresentazione al suddetto tribunale, come si verifica quando essa non sia deducibile dal testo dell’impugnata ordinanza e non ve ne sia neppure alcuna traccia documentale quale, ad esempio, quella costituita da eventuali motivi scritti a sostegno della richiesta di riesame, ovvero da memorie scritte, ovvero ancora dalla verbalizzazione, quanto meno nell’essenziale, delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell’udienza tenutasi a norma dell’art. 309, comma 8, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 1786 del 05/12/2003, dep. 2004, Marchese, Rv. 227110).
In ogni caso, la nullità che la legge pone a presidio del corretto adempimento del dovere di valutazione critica non può essere infatti relegata in una dimensione squisitamente formalistica, e non può quindi essere dedotta facendo leva esclusivamente sulla rilevazione di particolari tecniche di redazione che al più possono valere quali indici sintomatici ma non sono esse stesse ragioni del vizio. La parte interessata deve, invece, indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali l’asserita accettazione acritica avrebbe impedito apprezzamenti di segno contrario e di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate (Sez. 1, n. 333 del 28/11/2018, dep. 2019, Esposito, Rv. 274760).
3. Manifestamente infondato è il primo motivo.
Come correttamente evidenziato dalla Procura generale, il Tribunale ha ritenuto la credibilità delle persone offese, questione di fatto non sindacabile in questa sede, se non per manifesta illogicità, evidenziando come le stesse avessero riconosciuto l’NOME come una delle persone che si trovava nella vettura, davanti al negozio, al momento dell’irruzione di tre individui nell’esercizio commerciale muniti di un coltello e di una spranga di ferro. Tali individui, in concorso con quelli presenti nei pressi del negozio, dopo una violenta colluttazione avevano sottratto al Monraf 3000 euro in contanti, accoltellandolo ad un braccio. Secondo il narrato della persona offesa vi erano altri quattro connazionali fuori all’ingresso del negozio e altri quattro in una Ford Fiesta.
Il provvedimento impugnato ha richiamato le evidenze istruttorie che avevano acclarato l’esistenza del gruppo di bengalesi che, facendosi forte dell’intimidazione indotta dal numero dei partecipanti oltre che dei metodi utilizzati, avevano iniziato ad opprimere i propri connazionali, rapinandoli e commettendo reati di estorsione. A capo di tale sodalizio vi era COGNOME, individuo particolarmente violento.
In ordine alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento, il Tribunale si è correttamente limitato ad ribadire che le dichiarazioni del COGNOME non erano idonee ad inficiare la gravità indiziaria a carico del prevenuto, condividendo
l’interpretazione del Tribunale di Napoli Nord, secondo cui la NOME, inizialmente presente sul posto, al momento dell’aggressione si era allontanata per chiedere aiuto e il COGNOME, una volta sceso dalla sua abitazione, aveva visto arrivare la donna correndo e urlando, in quanto stava tornando dopo aver “cercato aiuto”. Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto non rilevanti le contraddizioni nelle dichiarazioni della NOME in ordine alla posizione dell’NOME (fuori o dentro l’auto) o in ordine all’esatto parcheggio dell’autovettura dei rapinatori, in ragione della circostanza che la donna non parla la lingua italiana e che in sede dibattimentale, alla presenza dell’interprete e rispondendo alle domande di tutte le parti processuali, aveva comunque chiarito tali profili.
Per il resto, il motivo il motivo ha introdotto censure in fatto chiedendo una rivalutazione nel merito non consentita nella presente sede di legittimità.
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
Ritiene il Collegio come, nella fattispecie, non siano stati prospettati, alla stregua delle emergenze utilizzabili al momento della decisione, elementi significativi in ordine all’affievolimento delle esigenze cautelari con riguardo al periodo di tempo trascorso in stato di detenzione.
Al riguardo, va evidenziato che il Tribunale ha ribadito di aver conferito particolare rilievo alla gravità dei fatti e alle modalità della condotta contestata, (aggressione in branco con spranghe e coltelli), indicative di personalità connotata da sistematica dedizione al crimine, esercitato nei confronti di connazionali, il che, a dispetto della sua incensuratezza, restituisce una personalità allarmante, dedita evidentemente a traffici delittuosi, tale da far presumere un’alta probabilità di ricaduta nel reato (lo stesso era stato arrestato in flagranza, il 14 febbraio 2015, per il reato di estorsione).
La misura adottata è stata correttamente ritenuta l’unica idonea a consentire un controllo continuo e costante del prevenuto e prevenire il pericolo di recidiva, anche perché limitativa della possibilità di muoversi nel territorio.
A nulla rileva il mero decorso del tempo, peraltro contenuto rispetto alla pena irroganda.
Appare, in ogni caso, opportuno evidenziare che, per quanto attiene al tempo decorso dai fatti, va richiamato il condivisibile orientamento secondo cui il c.d. “tempo silente” trascorso dalla commissione del reato deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., da parte del giudice che emette l’ordinanza che dispone la misura cautelare, mentre analoga valutazione non è richiesta dall’art. 299 cod. proc. pen. ai fini della revoca o della sostituzione della misura, rispetto alle quali l’unico tempo che assume rilievo è quello trascorso dall’applicazione o dall’esecuzione della misura in poi, essendo
qualificabile, in presenza di ulteriori elementi, come fatto sopravvenuto da cui poter desumere il venir meno ovvero l’attenuazione delle originarie esigenze cautelari (Sez. 2, n. 12807 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 278999).
Invero, secondo giurisprudenza consolidata (Sez. 5, n. 39792 del 29/05/2017, Saracino, Rv. 271119), ai fini della sostituzione di una misura cautelare con altra meno grave, il mero decorso del tempo non è elemento rilevante, perchè la sua valenza si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessita di essere considerato unitamente ad altri elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari (cfr., Sez. 2, n. 45813 del 08/11/2007, COGNOME, Rv. 238518; Sez. 1, n. 24897 del 10/05/2013, COGNOME, Rv. 255832; Sez. 4, n. 34786 del 08/04/2014, COGNOME, Rv. 260293), mentre il rispetto delle prescrizioni della misura costituisce comportamento doveroso ai fini dell’applicazione della stessa (potendo dalla violazione scaturire conseguenze non irrilevanti a carico dell’interessato).
Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila, così quantificata in ragione dei profili di colpa emergenti dal ricorso, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 27/03/2024.