Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3115 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3115 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a ALBENGA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di GENOVA lette le conclusioni scritte del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, AVV_NOTAIO, il
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
ci
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 7 marzo 2023, la Corte d’appello di Genova ha confermato la condanna nei confronti di NOME COGNOME per il reato di minaccia, aggravato ai sensi del secondo comma dell’art. 612 e dell’art. 61, n.11, quater, cod. pen. (capo a) e dell’art. 4, comma 2 e 3, I. 110 del 1975 (capo b).
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, AVV_NOTAIO, affidando le proprie censure ai sette motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si deduce vizio di motivazione, per carenza e/o contraddittorietà della stessa, per avere la Corte territoriale ritenuto attendibili le dichiarazioni rese dai testi, malgrado le insanabili contraddizioni emergenti, in particolare, dalle dichiarazioni dei testi COGNOME, COGNOME e COGNOME.
2.2 Col secondo motivo, si duole di vizio di motivazione e violazione di legge processuale, con riferimento all’art. 195 del codice di rito, per avere i Giudici del merito ritenuto di superare le evidenziate contraddizioni delle dichiarazioni testimoniali valorizzando una prova inutilizzabile, vale a dire la testimonianza de relato del figlio del teste COGNOME, mai ascoltato in dibattimento. La motivazione resa, sul punto, dalla Corte territoriale sarebbe insufficiente, essendosi quest’ultima limitata ad affermare di essersi basata non soltanto sulla testimonianza de relato, ma su tutte le dichiarazioni testimoniali.
2.3 Col terzo motivo, la difesa chiede a questo Collegio -in via subordinata rispetto a quanto dedotto nei primi due motivi- di sollevare questione di legittimità costituzionale in merito alla procedibilità d’ufficio prevista per il reato di cui all’art. 612, secondo comma, cod. pen., per contrasto di tale disposizione con l’art. 3 Cost. e col principio di ragionevolezza, posto che, in seguito all’entrata in vigore del d. Igs. n. 150 del 2022, è stato introdotto il regime di procedibilità a querela per altri reati, ben più gravemente offensivi di beni giuridici rispetto al reato di minaccia grave. Secondo la difesa, la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante, dal momento che la persona offesa ha dichiarato in udienza di voler rimettere la querela.
2.4 Col quarto motivo, si lamenta vizio motivazionale in relazione al capo b) della rubrica; sulla base delle medesime doglianze espresse in tema di inattendibilità delle dichiarazioni testimoniali, la difesa contesta l’affermazione di responsabilità dell’imputato per aver detenuto un’arma durante l’ascritta condotta, posto che soltanto la persona offesa COGNOME e il teste COGNOME hanno dichiarato di aver visto l’imputato impugnare un coltello, circostanza smentita dal teste
COGNOME -l’unico teste -secondo la difesa, super partes, perché non coinvolto nell’alterco.
2.5 Col quinto motivo, si eccepisce vizio motivazionale in relazione alla denegata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., data l’assenza di offensività che ha caratterizzato la condotta dell’imputato. Su tale profilo punto, la difesa insiste anche in sede di note conclusive.
2.6 Col sesto motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione alla contestata recidiva, avendo la Corte d’appello tenuto in considerazione i precedenti relativi non già a delitti, ma a contravvenzioni; che poi l’imputato abbia commesso il fatto ascritto durante la sottoposizione a misura alternativa costituisce un profilo già integrante la contestazione della circostanza di cui all’art. 61 quater cod. pen.
2.7 II settimo motivo ha a oggetto la contestazione della mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione della pena. I Giudici di merito avrebbero avuto riguardo unicamente per quel che, con motivazione contraddittoria, hanno definito “gravità delle modalità del fatto”, con ciò intendendo riferirsi al fatto che l’imputato avesse celato il coltello prima di brandire l’oggetto con fare minaccioso. In tal modo, essi avrebbero omesso di valutare adeguatamente gli elementi di segno positivo indicati dalla difesa e, segnatamente, l’occasionalità del diverbio, la reciprocità delle provocazioni e il fatto che la stessa persona offesa abbia minimizzato l’episodio.
Sono state trasmesse, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del AVV_NOTAIO, AVV_NOTAIO, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso. La difesa dell’imputato ha depositato note conclusive.
Considerato in diritto
I motivi primo e quarto, esaminabili congiuntamente dato il rapporto di connessione logica che li caratterizza, sono manifestamente infondati, essendosi il ricorrente limitato a reiterare questioni già proposte con l’atto di appello e contestate dalla Corte territoriale con motivazione priva di vizi logici.
Invero, i Giudici dell’appello avevano evidenziato come il giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato fosse stato definito sulla base delle dichiarazioni della persona offesa e di quelle, del tutto convergenti, del teste COGNOME (quest’ultimo presente, fin dal primo momento, all’alterco che ha dato origine al processo). In motivazione, si è altresì specificato che la dichiarazione de relato del figlio del COGNOME (sopraggiunto a separare in contendenti soltanto in
un secondo momento perché allertato da una telefonata del padre, il quale assisteva, invece, fin dall’inizio al litigio tra imputato e persona offesa), a tacere della manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso per le ragioni che si diranno, era stata valutata alla luce del complessivo contesto testimoniale, non dispiegando affatto una privilegiata o esclusiva valenza probatoria. D’altro canto, prive di riscontri erano rimaste le dichiarazioni dell’imputato.
Sicché risulta deprivata di efficacia la censura difensiva che insiste sulla contraddittorietà tre le dichiarazioni dei primi due testi citati e del figlio del COGNOME. Sul punto, la motivazione resa dalla Corte territoriale non mostra, come accennato, vizi di logicità, in quanto ragionevole è l’aver ritenuto che la concitazione del momento (dove il figlio del COGNOME era impegnato a dividere imputato e persona offesa e a calmare gli animi) possa ben avere contribuito a sovrapporre i ricordi; essa è inoltre conforme a quanto deve considerarsi ius receptum di questa Corte in tema di regole preposte alla verifica delle dichiarazioni della persona offesa, cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’arte, Rv. 253214 01: «le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi»; a seguire, ex plurimis, v. Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104 – 01»). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il secondo motivo è manifestamente infondato, dal momento che, alla stregua della lettera della legge (art. 195, comma 3, cod. proc. pen.), il consolidato orientamento di questa Corte esclude qualunque inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato, quando, come lo stesso ricorrente ammette (“nessuno ne ha richiesto l’escussione”) non sia stata fatta richiesta di sentire il teste di riferimento, ai sensi dell’art. 195, comma 1 del codice di rito (Sez. 3, n. 6212 del 18/10/2017, de. 2018, C., Rv. 272008 – 0).
Trattasi di questione giuridica che va esaminata alla stregua della disciplina dettata dal codice e indipendentemente dalla motivazione fornita dal giudice di merito.
Inoltre, come già chiarito, la tesi difensiva insiste nell’attribuire alla dichiarazione testimoniale del figlio del teste COGNOME un peso che essa non
riveste affatto nel contesto dell’equilibrata valutazione con cui i Giudici del merito si sono espressi in merito al complesso delle dichiarazioni. Nell’esplicitare di non essersi basati soltanto sulla testimonianza de relato, ma su tutte le dichiarazioni testimoniali in primis, su quella della persona offesa, coerente con quella di altri testimoni, di poi evidenziando l’assenza di riscontri delle dichiarazioni dell’imputato- i Giudici dell’appello hanno reso, a parere di questo Collegio, un’adeguata motivazione, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente. Risulta pertanto destituita di fondamento la censura difensiva, in quanto aspecifica, anche considerando l’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte in tema di “prova di resistenza” (allorché il ricorso per cassazione lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento: Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416 – 01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gunnina, Rv. 269218 – 01).
3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo, con cui la difesa sottopone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui prevede la procedibilità d’ufficio del reato di minaccia, per contrasto di tale disposizione con l’art. 3 Cost. e col principio di ragionevolezza. A fondamento della questione, osserva la difesa che, in seguito all’entrata in vigore del d. Igs. n. 150 del 2022, è stato introdotto il regime di procedibilità a querela per altri reati, ben più gravemente offensivi di beni giuridici rispetto al reato di minaccia aggravata ai sensi del terzo comma dell’art. 612 cod. pen.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza del Giudice costituzionale, la discrezionalità del legislatore nella disciplina degli istituti processuali è ampia e insindacabile, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza (ex multis, sentenze nn. 250 del 2018, 65 del 2014, 10 del 2013, 216 del 2013, 304 del 2012; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013, come ricordato anche di recente da questa Corte: cfr. Sez. 5, n. 47183 del 12 ottobre 2023, Knox, n.m.).
Ciò ribadito, si osserva che tale limite non emerge dall’esame della norma censurata, ciò che rende la prospettata questione di legittimità costituzione manifestamente infondata, vieppiù alla luce delle osservazioni difensive circa la mancata, o ridotta, offensività del reato in questione rispetto ad altri reati. Sostiene, infatti, la difesa che la fattispecie incriminatrice in questione si
caratterizzerebbe “solo” per “una violenza di carattere psichico da parte dell’agente” (p. 6 del ricorso).
Gioverà a tal proposito ricordare che, secondo pacifico orientamento di questa Corte, con l’espressione “minaccia grave”, contenuta nel secondo comma dell’art. 612 cod. pen., il legislatore ha inteso dare rilievo al turbamento psichico che l’atto intimidatorio può cagionare nel soggetto passivo, demandando al prudente apprezzamento del Giudice la valutazione in ordine alla gravità della minaccia, anche sulla base del contesto in cui esse vengono pronunciate (Sez. 6, n. 35593 del 16/6/2015, COGNOME, Rv. 264341; Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, COGNOME, Rv. 275889), e della verosimiglianza della lesione del bene della vita insito nella intimidazione con la quale se ne prospetti, alla vittima, la soppressione (Sez. 5, n. 8895 del 18/01/2021, B., Rv. 280641 – 01). Tali considerazioni sono sufficienti a mettere in discussione l’efficacia dell’avverbio “solo” con cui il ricorrente ha inteso minimizzare la portata evidentemente offensiva del reato in parola.
Il quinto motivo è inammissibile per assenza di specificità. Come osservato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., richiedendosi una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta che tenga conto anche del grado di colpevolezza desumibile dalle modalità della condotta e dell’entità del danno o del pericolo arrecato alla persona offesa e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto (Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266590).
E’ proprio all’interno di siffatta cornice che si colloca la motivazione della sentenza impugnata che, senza esibire alcuna manifesta illogicità, ha valorizzato l’iniziativa aggressiva dell’imputato e la presenza del coltello.
Il sesto motivo è inammissibile, poiché, anche in questo caso, la conclusione della Corte territoriale non presenta, alla luce dei precedenti dell’imputato, alcuna illogicità soprattutto in ragione della commissione di un delitto durante la sottoposizione a misura alternativa: circostanza che, a parte il maggiore disvalore del quale carica il fatto, rappresenta certamente indice della maggiore pericolosità che in concreto viene rivelata dal nuovo illecito.
Il settimo motivo è infine inammissibile perché, per un verso, insiste nel riproporre una ricostruzione dei fatti, quanto all’uso del coltello, sulla quale la Corte territoriale ha razionalmente espresso le proprie valutazioni e, per altro verso,
collide con i limiti del sindacato di legittimità sul punto. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata, nella sentenza impugnata, con motivazione esente da manifesta illogicità, che si sottrae, pertanto, al sindacato di questa Corte (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio, espressione della consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244). Infine, quanto alla censura sulla determinazione della pena, il Collegio ne rileva la totale genericità e aspecificità, e ricorda, a tal proposito, il consolidato principio giurisprudenziale, espresso da questa Corte, secondo cui è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 – 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che – nel caso di specie – non ricorre.
Si dichiara, pertanto, inammissibile il ricorso. Alla pronuncia di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29/09/2023
Il Consigliere estensore
Il Pre9fide e