Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33507 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 33507 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 17/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato il 12/04/1953 a Palermo avverso la sentenza del 20/11/2024 della Corte di appello di Palermo.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procura generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarars l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 5 aprile 2023, all’esito dibattimento, aveva assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 336 cod. ritenuta l’assenza di una prova certa in ordine alla sussistenza dell’elem soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.
2. Nei confronti della pronuncia interponeva appello il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Palermo, chiedendo affermarsi la responsabilità dell’imputato, previa riapertura dell’istruzione dibattimentale al fine di esaminare i testi di polizia giudiziaria COGNOME e COGNOME, in servizio presso la Questura di Palermo, per riferire sui fatti oggetto della vicenda. Con il provvedimento in epigrafe la Corte di appello di Palermo ha ritenuto la fondatezza dell’appello del Procuratore Generale e, senza procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con l’esame dei testimoni sopra indicati, ha affermato la colpevolezza dell’imputato in ordine al reato contestato, condannandolo, con le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, alla pena di mesi sette di reclusione.
Quanto alla rinnovazione dell’istruttoria riteneva la Corte che non ne ricorressero i presupposti dal momento che la sentenza di primo grado non fondava la decisione sulle dichiarazioni delle persone offese, né sulla portata probatoria delle fonti dichiarative, non essendo in discussione il dato riferito dalle predette “in ordine allo svolgimento dei fatti, né una diversa interpretazione delle risultanze delle prove dichiarative”.
Osservava la Corte che la descrizione della vicenda risultante dagli atti del processo non poneva dubbi in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo, dal momento che le frasi dal contenuto intimidatorio e minaccioso, profferite a più riprese da COGNOME nei confronti degli operanti, erano idonee a coartare la libertà di azione dei medesimi, al fine di costringerli ad omettere un atto del loro ufficio, consistente nel sequestro del veicolo.
I giudici di appello ritenevano inoltre che la condotta minacciosa posta in essere dall’imputato, più volte rivoltosi con toni gravemente intimidatori nei confronti dei pubblici ufficiali, lungi dal costituire una mera reazione emotiva alla comunicazione che costoro avrebbero proceduto al sequestro del motociclo perché privo di copertura assicurativa, rivelasse la precisa direzione finalistica di coartarne la libertà di azione.
Il difensore dell’imputato ha presentato ricorso avverso detta sentenza e ne ha chiesto l’annullamento, censurando con un primo motivo la violazione del principio di correlazione fra imputazione e sentenza. In primo grado l’imputato era stato assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, avendo il Tribunale ritenuto che la condotta non fosse volta a impedire od ostacolare il compimento dell’atto degli ufficiali di polizia giudiziaria, bensì costituisse esclusivamente una manifestazione di collera seguita al sequestro. In base alla prospettazione difensiva, i Giudici di appello, fornendo una diversa lettura della vicenda, avrebbero dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado.
Secondo la Corte l’imputato avrebbe posto in essere la propria condotta in una fase successiva all’avvio dell’atto dei pubblici ufficiali. Egli non avrebbe tentato di coartare la volontà degli operanti al fine di far loro omettere un atto del proprio ufficio, ma si sarebbe opposto a quello che era già un atto in fase di esecuzione, avendo gli stessi già accertato e contestato l’illecito amministrativo che avrebbe giustificato il sequestro. E, poiché la fattispecie incriminatrice dell’art. 336 cod. pen. concerne la condotta diretta a influenzare la decisione del pubblico ufficiale, mentre quella dell’art. 337 cod. pen. riguarda la condotta mirata a impedire l’esecuzione di un atto già deliberato, il difetto di correlazione della sentenza rispetto all’imputazione contestata comporta il conseguente vulnus del diritto di difesa.
Con un secondo motivo il difensore censura l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 603, comma 3 -bis, cod. proc. pen., nonché il vizio di motivazione, per non avere la Corte territoriale rinnovato l’istruttoria dibattimentale procedendo all’audizione degli operanti di polizia giudiziaria, per assolvere l’onere, non rispettato, della motivazione rafforzata a fronte della pronuncia assolutoria di primo grado. Dette dichiarazioni costituiscono l’unico elemento probatorio sui cui è fondata la decisione del Tribunale.
In data 7 maggio 2025 il difensore ha depositato “note conclusive”, con cui, in particolare, ribadisce le doglianze relative al secondo motivo di ricorso, illustrando la necessità di rinnovare l’istruttoria dibattimentale.
Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato e va rigettato per le ragioni di seguito illustrate.
Non è fondato il motivo (pregiudiziale) del ricorso, in rito, relativo alla pretesa violazione dei principi generali sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Va preliminarmente ricordato che il Giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado sulla base del medesimo compendio probatorio, pur non essendo obbligato alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata che dia razionale giustificazione della difforme decisione adottata, indicando in maniera approfondita e diffusa gli argomenti, specie se di carattere tecnico-scientifico, idonei a confutare le valutazioni del giudice di primo grado. Il
Giudice di secondo grado, pertanto, allorché intenda riformare radicalmente la precedente decisione di primo grado, ha l’obbligo di confrontarsi in modo specifico e completo con le argomentazioni contenute nel primo provvedimento, non potendosi rapportare ad un apprezzamento di merito già espresso dal primo giudice. In casi del genere, la sentenza di appello deve, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l’integrale riforma.
Nel caso di specie, i Giudici di appello hanno affermato che l’atto contrario ai doveri d’ufficio pertiene alla perimetrazione dell’elemento soggettivo del reato in quanto attiene alla finalità che l’agente si propone; sicché il delitto è consumato sia se l’attività commissiva o l’omissione siano state già realizzate sia che debbano ancora esserlo. È stata perciò stata ritenuta la sussistenza del dolo del reato di cui all’art. 336 cod. pen. per avere l’imputato minacciato i pubblici ufficiali al fine di coartarne la libertà d’azione; non quindi, come diversamente argomentato dal Tribunale, con la diversa finalità di sfogare la collera derivante dal sequestro del ciclomotore.
Le argomentazioni della Corte territoriale sono logiche e consequenziali, alla luce del carattere minaccioso delle parole pronunciate dal ricorrente e della sequenza temporale delle condotte.
Poiché la sentenza di primo grado si fondava non sulla portata contenutistica bensì su un’erronea interpretazione delle dichiarazioni delle persone offese, correttamente è stata esclusa dai giudici di appello la necessità di rinnovare l’audizione dei testimoni, non ricorrendone le condizioni.
3. Parimenti, non è fondato il primo motivo di ricorso.
Le norme relative alle modifiche alle imputazioni sono destinate a garantire il contraddittorio sull’accusa nella prospettiva della difesa dell’imputato e del soddisfacimento delle esigenze del giusto processo. La non corrispondenza tra il fatto contestato e quello che emerge dalla sentenza rileva, quindi, allorché si verifichi una trasformazione o sostituzione delle condizioni che rappresentano gli elementi costitutivi dell’addebito, e non già quando il mutamento riguardi profili marginali, non essenziali per l’integrazione del reato e sui quali l’imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo (Sez. 2, n. 17565 del 15/03/2017, COGNOME, Rv. 269569-01).
Nel caso concreto, è da escludersi che sia avvenuta una violazione del diritto di difesa, e ancor prima che manchi la correlazione tra imputazione e sentenza.
Le doglianze difensive non attengono, in realtà, alla diversità del fatto, bensì alla diversa qualificazione giuridica data allo stesso dal giudice d’appello. I giudici
del merito hanno accertato in fatto che il ricorrente ha minacciato a più riprese gli operanti al fine di costringerli ad omettere il sequestro del motociclo. Il fatto accertato, dunque, corrisponde a quello contestato nel capo d’imputazione. E’, per contro, diversa la qualificazione data al medesimo fatto in primo e secondo grado, alla stregua dell’accertata, univoca direzione del dolo dell’agente da parte della Corte di appello, nell’esercizio legittimo delle prerogative attribuite al giudice dall’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., senza pertanto che risultasse accertato un fatto diverso.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle sidese processuali.
Così deciso il 17/09/2025