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Minaccia a pubblico ufficiale: quando il ricorso è inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.). La Corte ha stabilito che le argomentazioni difensive, volte a una diversa interpretazione dei fatti, costituiscono ‘mere doglianze di fatto’ non ammissibili in sede di legittimità. La condanna è stata confermata, sottolineando che la minaccia diretta (‘vi sparo’) è sufficiente a integrare il reato, a prescindere da altri atteggiamenti dell’imputato.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Minaccia a Pubblico Ufficiale: Quando un Ricorso Diventa Inammissibile

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, offre un’importante lezione sulla differenza tra questioni di fatto e questioni di diritto nel processo penale, confermando una condanna per minaccia a pubblico ufficiale. Il caso riguarda un cittadino che, per opporsi a un sequestro, ha rivolto minacce esplicite agli agenti operanti. L’analisi della Suprema Corte chiarisce i limiti del sindacato di legittimità e i criteri per la configurabilità del reato.

I Fatti del Caso

L’imputato era stato condannato nei gradi di merito per il reato di cui all’art. 336 del codice penale. Durante le operazioni di sequestro da parte delle forze dell’ordine, egli non si era limitato a minacciare un atto di autolesionismo per dissuaderli, ma aveva proferito una minaccia diretta e inequivocabile: “se sbagliate a sequestrare, poi vengo e vi sparo”.

La difesa aveva tentato di proporre una ricostruzione alternativa dei fatti, sostenendo che l’imputato avesse assunto, in alcuni momenti, un “tono supplichevole”, suggerendo che la sua intenzione non fosse realmente intimidatoria. Tale argomentazione, tuttavia, non ha trovato accoglimento.

L’Analisi della Corte di Cassazione sulla Minaccia a Pubblico Ufficiale

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo che i motivi presentati dalla difesa fossero costituiti da “mere doglianze in punto di fatto”. Questo significa che l’imputato non contestava un errore nell’applicazione della legge, ma cercava di ottenere una nuova valutazione delle prove e dei fatti, attività preclusa al giudice di legittimità.

La Corte ha ribadito che le modalità della condotta, caratterizzate dalla minaccia esplicita di sparare agli agenti, erano state correttamente ritenute idonee a integrare il reato. Le ulteriori sfumature comportamentali, come il tono a tratti supplichevole, sono state giudicate irrilevanti ai fini della configurabilità del delitto, in quanto la Corte d’Appello aveva già compiuto un’analisi rigorosa delle dichiarazioni dei verbalizzanti.

Le Attenuanti Generiche e i Precedenti Penali

Un altro motivo di ricorso riguardava il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Anche su questo punto, la Cassazione ha ritenuto la decisione dei giudici di merito non censurabile. La scelta di negare le attenuanti non è stata considerata “manifestamente illogica”, poiché i giudici avevano correttamente valorizzato i precedenti penali dell’imputato, seppur di natura contravvenzionale. Questo conferma il principio secondo cui anche precedenti di minore gravità possono influenzare negativamente la valutazione complessiva della personalità del reo.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Suprema Corte si fondano su due pilastri fondamentali del diritto processuale penale:

1. I Limiti del Giudizio di Legittimità: La Corte di Cassazione non è un terzo grado di merito. Il suo compito non è rivalutare le prove (come le testimonianze o il comportamento dell’imputato), ma assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. Le censure che mirano a una diversa ricostruzione fattuale sono, per loro natura, inammissibili.
2. La Logicità della Motivazione: La decisione di negare le attenuanti generiche è discrezionale, ma deve essere supportata da una motivazione logica e non contraddittoria. Nel caso di specie, il riferimento ai precedenti penali è stato considerato un argomento valido e sufficiente a giustificare la scelta del giudice di merito.

Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio cruciale: una minaccia esplicita e grave a un pubblico ufficiale, finalizzata a costringerlo a omettere un atto del suo ufficio, integra pienamente il reato previsto dall’art. 336 c.p. Tentare di sminuire la portata della minaccia attraverso la valorizzazione di altri comportamenti contestuali non è sufficiente a escludere la rilevanza penale del fatto, specialmente quando il ricorso in Cassazione si limita a proporre una lettura alternativa delle prove già vagliate. La decisione sottolinea inoltre l’importanza dei precedenti penali, anche minori, nella valutazione complessiva per la concessione delle attenuanti generiche.

Quando una minaccia a un pubblico ufficiale integra il reato previsto dall’art. 336 c.p.?
Secondo la Corte, il reato è integrato quando la minaccia è idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale. Una frase esplicita come “se sbagliate a sequestrare, poi vengo e vi sparo” è stata ritenuta sufficiente, a prescindere da altri comportamenti, come un tono a tratti supplichevole.

Perché la Corte di Cassazione può dichiarare un ricorso inammissibile?
La Corte dichiara un ricorso inammissibile quando i motivi proposti non riguardano errori di diritto, ma contestano la ricostruzione dei fatti già accertata nei precedenti gradi di giudizio. Tali argomenti sono definiti “mere doglianze in punto di fatto” e non rientrano nella competenza della Corte di Cassazione.

I precedenti penali, anche se di lieve entità, possono impedire la concessione delle attenuanti generiche?
Sì. La Corte ha confermato che la decisione di negare le attenuanti generiche basandosi sui precedenti penali dell’imputato, anche se di natura contravvenzionale (quindi relativi a reati minori), non è manifestamente illogica e rientra nella valutazione discrezionale del giudice di merito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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