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Minaccia a pubblico ufficiale: quando è reato grave

Un cittadino, condannato per minaccia a pubblico ufficiale, ha presentato ricorso in Cassazione. Aveva minacciato degli agenti di polizia presso un ufficio immigrazione per costringerli a rilasciare immediatamente un permesso di soggiorno, contravvenendo alla programmazione dell’ufficio. La Corte ha respinto il ricorso, confermando che la condotta finalizzata a costringere un funzionario a compiere un atto contrario ai propri doveri integra il più grave reato di cui all’art. 336 c.p. e non una semplice minaccia. È stato inoltre confermato il diniego delle attenuanti generiche a causa dei precedenti penali dell’imputato.

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Pubblicato il 18 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Minaccia a Pubblico Ufficiale: Quando la Pretesa Diventa Reato

La linea di confine tra una protesta veemente e il reato di minaccia a pubblico ufficiale è spesso sottile, ma giuridicamente ben definita. Una recente sentenza della Corte di Cassazione fa luce su questo tema, chiarendo quando una minaccia non si limita a un’espressione di dissenso, ma diventa uno strumento per coartare la volontà di un funzionario pubblico, integrando così la fattispecie più grave prevista dall’articolo 336 del codice penale. Il caso analizzato offre spunti cruciali per comprendere la logica del legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale.

I Fatti: la Richiesta Fuori Orario all’Ufficio Immigrazione

La vicenda ha origine presso l’Ufficio Immigrazione della Questura, dove un cittadino si era recato per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno per la moglie. Tuttavia, la sua richiesta non rientrava tra le pratiche programmate per quella specifica giornata, come chiaramente indicato dal calendario dell’ufficio.

Nonostante le spiegazioni fornitegli da più agenti, l’uomo ha insistito con toni sempre più offensivi, polemici e minacciosi. La situazione è degenerata al punto che l’imputato ha dichiarato che, se la sua richiesta non fosse stata soddisfatta, sarebbe tornato con una pistola per sparare ai pubblici ufficiali presenti. Questa condotta ha portato alla sua condanna in primo e secondo grado per il reato di minaccia a pubblico ufficiale.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre motivi principali:
1. Violazione procedurale: Sosteneva che non fosse stato rispettato il nuovo termine a comparire di 40 giorni per il giudizio d’appello.
2. Errata qualificazione del reato: Affermava che la sua condotta dovesse essere qualificata come minaccia semplice (art. 612 c.p.) e non come minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), in quanto, a suo dire, mancava l’elemento della costrizione a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.
3. Mancata concessione delle attenuanti generiche: Lamentava il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

La Decisione della Corte: Analisi sulla minaccia a pubblico ufficiale

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato in ogni suo punto e confermando la condanna. Vediamo nel dettaglio il ragionamento seguito dai giudici.

La Questione Procedurale sul Termine a Comparire

Sul primo punto, la Corte ha chiarito che la nuova disciplina che estende il termine a comparire in appello a 40 giorni, introdotta dal D.Lgs. 150/2022, non era applicabile al caso di specie. Richiamando un precedente delle Sezioni Unite, ha specificato che tale normativa si applica solo agli atti di impugnazione proposti a partire dal 1° luglio 2024. Poiché l’appello era stato depositato nel 2021, vigeva ancora il precedente termine di 20 giorni, che era stato pienamente rispettato.

La Differenza tra Semplice Minaccia e Coartazione del Pubblico Ufficiale

Il cuore della sentenza risiede nell’analisi del secondo motivo. La Corte ha stabilito che la condotta dell’imputato non si era esaurita in una mera formulazione di minacce, ma si era concretizzata in una pretesa specifica, formulata con toni intimidatori, finalizzata a costringere gli agenti a disattendere gli ordini di servizio e la programmazione interna dell’ufficio. L’obiettivo era ottenere il rilascio immediato del permesso, un atto che in quel momento era contrario ai doveri d’ufficio degli agenti. La minaccia a pubblico ufficiale, in questo contesto, non era una reazione a un’azione pregressa, ma uno strumento per influenzare e costringere la volontà del funzionario a compiere un atto indebito.

Il Diniego delle Attenuanti Generiche

Infine, la Corte ha ritenuto corretta e ben motivata la decisione dei giudici di merito di non concedere le circostanze attenuanti generiche. Tale diniego era basato su elementi concreti e decisivi: i numerosi precedenti penali dell’imputato e la particolare intensità del dolo, dimostrata dalla sua “pervicacia”, ovvero l’ostinazione con cui ha insistito nella sua pretesa illecita.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte Suprema si fondano su una distinzione netta tra la libera manifestazione di dissenso e l’azione criminale volta a piegare la pubblica amministrazione ai propri voleri. La condotta dell’imputato è stata giudicata come un’arbitraria pretesa che esorbitava dalla mera protesta, esprimendo la ferma volontà di ottenere con la forza ciò che non era possibile conseguire legalmente in quel momento. Le minacce di morte sono state quindi correttamente inquadrate nell’alveo normativo dell’art. 336 c.p., che tutela non solo l’incolumità del pubblico ufficiale, ma anche e soprattutto il corretto e imparziale funzionamento della pubblica amministrazione.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: minacciare un pubblico ufficiale per costringerlo a violare i propri doveri costituisce un reato grave, distinto dalla minaccia semplice. La finalità di coartazione è l’elemento decisivo che qualifica la condotta. Inoltre, la decisione conferma che la valutazione delle circostanze attenuanti generiche deve tenere conto del passato criminale e dell’intensità dell’intenzione delittuosa, rendendo la motivazione sul punto, se logica e congrua, insindacabile in sede di legittimità.

Quando una minaccia verso un funzionario pubblico integra il reato più grave previsto dall’art. 336 c.p.?
Secondo la sentenza, ciò avviene quando la minaccia non è una semplice reazione all’operato del funzionario, ma è specificamente finalizzata a costringerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio o a ometterlo, influenzando così il compimento dell’atto stesso.

Perché la Corte ha negato le circostanze attenuanti generiche all’imputato?
La Corte ha ritenuto fondato il diniego sulla base di elementi specifici e concreti, quali i numerosi precedenti penali dell’imputato e la particolare intensità del dolo, dimostrata dalla sua ostinazione (pervicacia) nel portare avanti la sua pretesa illecita con toni gravemente minacciosi.

Il nuovo termine a comparire di 40 giorni in appello si applica a tutti i processi?
No. La sentenza chiarisce, richiamando una decisione delle Sezioni Unite, che il nuovo termine di 40 giorni si applica solo agli atti di impugnazione proposti a partire dal 1° luglio 2024. Per gli appelli presentati prima di tale data, continua a valere il precedente termine di 20 giorni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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