Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 8616 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 8616 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Bari il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/01/2023 della Corte di appello di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del AVV_NOTAIO Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio limitatamente all’aumento per la recidiva reiterata, rideterminando la pena, e il rigetto del ricorso nel resto.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Bari riduceva a dieci mesi la pena di un anno irrogata in primo grado, a seguito di giudizio abbreviato, a NOME COGNOME, per il delitto di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 cod. pen.),
per aver minacciato due Carabinieri intervenuti presso un centro scommesse ad identificare i presenti e, specificamente, al fine di opporsi alla propria identificazione.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso NOME COGNOME, per il tramite del suo difensore, AVV_NOTAIO, articolando i seguenti due motivi.
2.1. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 336 cod. pen. e correlato vizio di motivazione.
Il ricorrente si è limitato a pronunciare minacce verbali del tutto generiche da cui non può desumersi la volontà di impedire l’atto della propria identificazione.
D’altro canto, tale esito era impossibile, dal momento che i Carabinieri ben conoscevano l’imputato per averlo, negli ultimi tempi, controllato più volte (il che, d’altra parte, aveva dato adito al suo disappunto).
La riprova della perfetta conoscenza che le forze dell’ordine avevano dell’imputato emerge dal fatto, anch’esso risultante dall’annotazione in atti, che l’imputato fu identificato, dopo aver declinato le sue generalità, pur essendo sprovvisto di documento di identità.
2.2. Errata applicazione dell’art. 99, comma 4, cod. pen. e correlato vizio di motivazione.
La Corte non ha motivato il giudizio di accresciuta pericolosità che sarebbe derivato dalla recidiva.
D’altronde, stante la scarsa gravità del fatto, la pena avrebbe potuto essere fissata nel minimo edittale.
Infine, la Corte ha ribadito l’aumento di sei mesi operato dal primo giudice senza rendersi conto che tale aumento corrispondeva alla metà della pena base in precedenza inflitta. Avendo tuttavia la Corte di appello ridotto la pena a nove mesi di reclusione, l’aumento per la recidiva avrebbe dovuto essere rideterminato nella misura della metà di tale nuova pena, e cioè in quattro mesi e quindici giorni di reclusione.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti, di discussione orale, il AVV_NOTAIO generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
Il ricorrente ha presentato una memoria di replica alla requisitoria scritta del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO nella quale ribadisce come, secondo la giurisprudenza di legittimità, la mera prospettazione di generiche conseguenze negative, l’atteggiamento ingiurioso o genericamente minaccioso, ma non finalizzato ovvero
inidoneo a impedire l’azione del pubblico ufficiale, non possono integrare il delitto in oggetto, insistendo, inoltre, sul fatto che le frasi non potevano mirare ad impedire l’identificazione dell’imputato, essendo questi già noto alle forze dell’ordine, come emerge dal testo della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
1.1. È vero che, per insegnamento costante di questa Corte, la minaccia di cui all’art. 336 cod. pen. – da apprezzare secondo una prospettiva prognostica e non ex post deve avere un grado di serietà (per tutte, Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014, Coccia, Rv. 260324).
Tuttavia, tale caratteristica è stata, nel caso concreto, argomentata dai Giudici di merito in modo completo nonché logico, e pertanto insindacabile in questa Sede.
1.2. Per quanto scontato, è infatti opportuno precisare che il tenore generico o meno della minaccia può essere valutato non in astratto, ma soltanto in concreto: vale a dire, alla luce delle circostanze del caso nonché delle condizioni e caratteristiche personali di chi la proferisce.
Di conseguenza, affermazioni inidonee a prospettare la seria volontà di cagionare ad altri un male ingiusto in un certo contesto, in altro contesto possono assumere, invece, una potenzialità lesiva anche spiccata.
1.3. Questo è quanto accaduto nel caso di specie.
La pronuncia di primo grado – che, incidentalmente, con quella d’appello forma un unico corpo decisionale, trattandosi di c.d. doppia conforme (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) – aveva, infatti, già ritenuto le minacce pronunciate dall’imputato non soltanto idonee, ma anche «piuttosto serie e gravemente percepite nell’occasione dai militari», provenendo da persona «ben not agli stessi in quanto soggetto che annovera moltissime condanne», tra cui una definitiva per associazione di tipo mafioso nonché per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ed un’altra sempre per associazione di tipo mafioso.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, dunque, le frasi con cui questi – mutuando quasi testualmente le parole della sentenza impugnata – aveva ventilato agli operanti, se avessero eseguito il controllo, il male che avrebbe potuto loro procurare, attivando le conoscenze maturate in ambito criminale («sempre a me controllate; mi dovete lasciar perdere altrimenti va a finire male, ora chiamo il mio avvocato e vi denuncio: io mi sono fatto trent’anni di carcere con alcuni pezzi grossi e ve la faccio pagare»), a ragione sono state considerate tutt’altro che generiche o poco serie.
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Ciò posto, deve inoltre rilevarsi che l’art. 336 cod. pen. delinea un reato a dolo specifico, sicché la dedotta impossibilità che le parole dell’imputato ostacolassero il compimento dell’atto d’ufficio da parte delle forze dell’ordine, essendo il ricorrente già ad esse noto, non esclude che risultino, nel caso di specie, integrati gli elementi della fattispecie, compresa la finalizzazione soggettiva della condotta.
Il disappunto sotteso alle minacce dell’imputato è, infatti, riconducibile, in tesi, all’alveo delle motivazioni, suscettibili, al limite, di incidere sul trattamen sanzionatorio (in effetti, ridimensionato dal secondo Giudice di merito); non toglie, però, che le parole pronunciate mirassero ad impedire il compimento di un atto dell’ufficio al quale le forze dell’ordine erano autorizzate e tenute.
Attesa l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, la responsabilità dell’imputato per il reato ascritto deve ritenersi irrevocabilmente accertata.
Fondato appare, invece, il secondo motivo di ricorso.
3.1. La motivazione della sentenza di appello è incentrata soltanto sui precedenti dell’imputato e non spiega adeguatamente come la commissione del nuovo reato – del quale, nei motivi di appello, si eccepiva la contenuta gravità ne denoti una pericolosità accresciuta.
La sentenza va, pertanto, annullata sul punto, con rinvio al giudice dell’appello.
Il terzo motivo, concernente il mancato rispetto della necessaria proporzione nel computo dell’aumento di pena a seguito della ritenuta recidiva, è assorbito.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla recidiva e al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello , di Bari. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso e dichiara altresì irrevocabile -l’accertamento di responsabilità.
Così deciso il 24/01/2024