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Minaccia a pubblico ufficiale: quando è reato?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino condannato per minaccia a pubblico ufficiale. L’imputato, durante un controllo per possesso di stupefacenti, aveva usato espressioni intimidatorie per impedire il sequestro. La Corte ha stabilito che tali espressioni, avendo una chiara portata minatoria e finalità coercitiva, integrano il reato contestato e non possono essere derubricate a semplice molestia, confermando la condanna e sanzionando il ricorrente con il pagamento delle spese e di un’ammenda.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Minaccia a Pubblico Ufficiale: Quando le Parole Superano il Limite

L’interazione con le forze dell’ordine è una situazione delicata in cui i toni possono facilmente accendersi. Ma dove si trova il confine tra una legittima protesta e una vera e propria minaccia a pubblico ufficiale? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo punto, chiarendo quando delle espressioni verbali, nate da un atteggiamento di intolleranza, possono integrare il grave reato previsto dall’articolo 336 del codice penale.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un controllo di polizia durante il quale un individuo veniva trovato in possesso di una modica quantità di sostanza stupefacente (nello specifico, uno “spinello”). Gli agenti procedevano quindi a contestare la violazione dell’art. 75 del D.P.R. 309/90, che sanziona l’uso personale di droghe, e a sequestrare la sostanza.

In risposta a questa azione, l’individuo rivolgeva agli agenti delle espressioni che venivano ritenute minatorie. Per questo motivo, veniva condannato nei primi due gradi di giudizio per il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale. L’imputato, non accettando la decisione, proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo che le sue parole fossero frutto di mera intolleranza e non avessero un reale carattere minatorio, chiedendo la riqualificazione del fatto in un reato meno grave, come le molestie.

La Decisione della Cassazione sulla Minaccia a Pubblico Ufficiale

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, dichiarandolo inammissibile. I giudici hanno ritenuto che le argomentazioni della difesa fossero semplicemente una ripetizione di tesi già esaminate e respinte dalla Corte d’Appello. Secondo la Cassazione, il tentativo di sminuire la gravità delle espressioni usate non aveva fondamento.

Il cuore della decisione risiede nella valutazione della condotta dell’imputato. Non si trattava di una semplice manifestazione di dissenso, ma di un comportamento finalizzato a un obiettivo preciso: impedire ai pubblici ufficiali di compiere un atto del loro ufficio, ovvero il sequestro dello stupefacente e la relativa contestazione amministrativa.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha evidenziato due elementi chiave per confermare la condanna per minaccia a pubblico ufficiale:

1. La Portata Minatoria delle Espressioni: I giudici di merito avevano correttamente valutato che le frasi pronunciate dall’imputato non erano semplici sfoghi, ma possedevano una reale capacità di intimidire. La loro natura era oggettivamente minacciosa.

2. L’Idoneità Coartante e la Finalità: Le parole erano state utilizzate con lo scopo specifico di coartare la volontà degli agenti, cercando di forzarli a desistere dal compiere il proprio dovere. Questa finalità di impedire l’atto d’ufficio è un elemento costitutivo del reato previsto dall’art. 336 c.p.

La Cassazione ha quindi concluso che il ricorso era manifestamente infondato, in quanto non solo riproponeva argomenti già sconfessati, ma ignorava la corretta valutazione dei fatti operata dai giudici di merito. Di conseguenza, l’imputato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla cassa delle ammende.

Conclusioni: le Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: nel rapporto con un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, esiste una netta differenza tra l’espressione di un dissenso, anche acceso, e l’utilizzo di un linguaggio intimidatorio volto a ostacolarne l’operato. La legge tutela la libera formazione della volontà del pubblico ufficiale, sanzionando qualsiasi condotta che tenti di influenzarla con la minaccia. Pertanto, anche se si ritiene di subire un’ingiustizia, è essenziale mantenere un comportamento che non possa essere interpretato come un tentativo di coartazione, per non incorrere in gravi conseguenze penali.

Quando delle semplici parole offensive diventano reato di minaccia a pubblico ufficiale?
Secondo la Corte, le parole integrano il reato quando possiedono una concreta “portata minatoria” (capacità di spaventare) e una “idoneità coartante” (capacità di costringere), essendo pronunciate con la finalità specifica di impedire al pubblico ufficiale di compiere un atto del proprio ufficio.

È possibile chiedere in Cassazione di riclassificare un reato se si ritiene che la condotta sia meno grave?
Sì, è possibile, ma il ricorso deve basarsi su motivi validi e non essere una mera ripetizione di argomentazioni già respinte nei precedenti gradi di giudizio. La Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile proprio perché lo ha ritenuto “meramente reiterativo” e “manifestamente infondato”.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Comporta la conferma della decisione impugnata e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro, stabilita equitativamente dalla Corte, in favore della cassa delle ammende. In questo caso, la somma è stata fissata in tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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