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Minaccia a pubblico ufficiale: i limiti del reato

Un cittadino viene assolto dall’accusa di minaccia a pubblico ufficiale per aver minacciato una dipendente comunale. La Corte di Cassazione conferma la decisione, specificando che il reato non sussiste se il dipendente minacciato non ha la competenza legale per compiere l’atto che si vuole impedire. Il ricorso del Procuratore, che tentava di collegare l’episodio ad altre vicende, è stato dichiarato inammissibile.

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Pubblicato il 16 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Minaccia a Pubblico Ufficiale: la Cassazione Chiarisce i Limiti del Reato

La configurabilità del reato di minaccia a pubblico ufficiale, previsto dall’art. 336 del codice penale, richiede requisiti precisi che non sempre sono presenti, anche quando la minaccia è rivolta a un dipendente pubblico. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 20056/2024) offre un importante chiarimento: affinché si configuri tale reato, è indispensabile che la condotta minatoria sia diretta a costringere il funzionario a compiere o omettere un atto rientrante nelle sue specifiche competenze legali. Se il dipendente non ha la competenza per l’atto in questione, il reato non sussiste.

I Fatti del Caso

La vicenda giudiziaria ha origine da una contestazione di violenza o minaccia a pubblico ufficiale mossa nei confronti di un cittadino. L’uomo avrebbe minacciato una dipendente dell’Ufficio Anagrafe di un Comune per impedirle di notificargli un atto.

Inizialmente condannato, l’imputato vedeva la sua posizione cambiare in appello. La Corte territoriale, infatti, aveva riqualificato il fatto da minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) a minaccia aggravata (art. 612 c.p.). Successivamente, aveva assolto l’imputato per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., ritenendo l’offensività della condotta molto scarsa.

Contro questa decisione, il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso in Cassazione, ritenendo errata la riqualificazione e l’assoluzione.

Le Argomentazioni del Ricorso: una Tentata Estensione della Minaccia a Pubblico Ufficiale

Il Procuratore ricorrente ha basato la sua impugnazione su due motivi principali:

1. Errata valutazione dei fatti: Secondo l’accusa, la Corte d’appello non avrebbe considerato un episodio precedente, avvenuto pochi giorni prima, in cui lo stesso imputato aveva minacciato la messa notificatrice incaricata della notifica. Valutando i due episodi congiuntamente, la condotta complessiva sarebbe stata chiaramente finalizzata a impedire la notifica, integrando così il reato di minaccia a pubblico ufficiale.
2. Violazione di legge: Il Procuratore sosteneva che la minaccia rivolta alla dipendente dell’Anagrafe dovesse essere interpretata come una minaccia indiretta, ma funzionale a raggiungere la vera destinataria, ovvero la messa notificatrice, configurando comunque il reato più grave.

In sostanza, l’accusa tentava di estendere la portata della contestazione specifica (la minaccia alla dipendente dell’Anagrafe) collegandola a un contesto più ampio per giustificare la qualificazione originaria del reato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso del Procuratore inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato. Le motivazioni della decisione sono nette e si basano su un’analisi rigorosa dei presupposti del reato di cui all’art. 336 c.p.

Il punto centrale della sentenza è la competenza funzionale del soggetto che riceve la minaccia. I giudici hanno stabilito che, per configurare il reato di minaccia a pubblico ufficiale, l’azione intimidatoria deve avere lo scopo di ostacolare l’esercizio di competenze e funzioni specifiche del pubblico ufficiale.

Nel caso di specie, la dipendente dell’Anagrafe non aveva alcuna competenza legale per effettuare la notifica dell’atto. La legge, infatti (specificamente l’art. 1, comma 160, l. n. 296/2006), non consente al messo notificatore di delegare o farsi sostituire in tale attività. La dipendente si era adoperata solo su richiesta della collega, assumendo un ruolo di mera mediazione informale e non un incarico ufficiale.

Di conseguenza, la minaccia subita non poteva essere finalizzata a costringerla a “omettere un atto del proprio ufficio”, semplicemente perché quell’atto non rientrava tra i suoi doveri. La Corte ha sottolineato che i fatti precedenti, riguardanti la messa notificatrice, erano estranei al perimetro della contestazione specifica e non potevano essere utilizzati per “ricostruire” diversamente il fatto giudicato.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale del diritto penale: la necessità di un nesso diretto e inequivocabile tra la condotta minatoria e la funzione pubblica esercitata. Non è sufficiente che la minaccia sia rivolta a un dipendente pubblico in un contesto lavorativo; è necessario che essa incida direttamente su un’attività che quel dipendente è legalmente tenuto o autorizzato a compiere.

L’insegnamento pratico è chiaro: per contestare il reato di minaccia a pubblico ufficiale, l’accusa deve provare non solo la minaccia, ma anche che la vittima era, in quel preciso momento, nell’esercizio delle sue specifiche funzioni e che la condotta dell’agente era volta a coartarne la volontà proprio in relazione a tali funzioni. Qualsiasi minaccia che avvenga al di fuori di questo schema, pur potendo costituire un illecito diverso (come la minaccia semplice o aggravata), non integra la fattispecie più grave prevista dall’art. 336 del codice penale.

Quando una minaccia a un dipendente comunale non costituisce il reato di minaccia a pubblico ufficiale?
Secondo la sentenza, il reato non si configura se la minaccia è rivolta a un dipendente pubblico per impedirgli di compiere un’attività per la quale non ha una specifica competenza funzionale attribuita dalla legge. La condotta deve essere diretta a costringere il soggetto a compiere o omettere un atto del proprio ufficio.

È possibile per un messo notificatore delegare la sua funzione di notifica a un altro dipendente comunale?
No. La Corte ha specificato che, in base alla normativa di riferimento (l. n. 296/2006), l’attività di notifica non è delegabile e il messo notificatore non può farsi sostituire o rappresentare da altri.

Perché la Corte di Cassazione ha considerato irrilevante la precedente minaccia rivolta alla messa notificatrice?
Perché tale episodio, pur essendo avvenuto, era estraneo al perimetro della specifica contestazione oggetto del processo, che riguardava unicamente la minaccia rivolta alla dipendente dell’Ufficio Anagrafe. Nel processo penale, il giudice deve decidere solo sui fatti precisi che sono stati formalmente contestati all’imputato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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