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Minaccia a pubblico ufficiale: basta una frase?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di due soggetti condannati per minaccia a pubblico ufficiale. La Corte ha stabilito che frasi come “vi facciamo perdere il posto di lavoro”, rivolte ad agenti durante un controllo, integrano pienamente il reato, poiché è sufficiente una coazione morale o una minaccia indiretta per ostacolare l’attività del pubblico ufficiale. La richiesta di attenuanti generiche è stata respinta a causa dei numerosi precedenti penali degli imputati.

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Pubblicato il 14 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Minaccia a Pubblico Ufficiale: Quando una Frase Diventa Reato?

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta un caso emblematico di minaccia a pubblico ufficiale, chiarendo i confini di questo delitto. La vicenda riguarda due persone che, durante un controllo di polizia, hanno rivolto agli agenti frasi intimidatorie. La Suprema Corte ha confermato la loro condanna, stabilendo un principio fondamentale: per commettere questo reato non è necessaria una minaccia diretta o fisica, ma è sufficiente una qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, purché sia idonea a limitare la libertà di azione dell’agente. Questo caso offre spunti cruciali per comprendere come la legge tutela i pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni.

I Fatti del Caso

Tutto ha origine da un controllo di polizia. Due soggetti, fermati perché sospettati di aver commesso un furto di un paio di occhiali da sole, si sono rivolti agli operanti con toni e parole minacciose. In particolare, hanno proferito la frase: “andiamo dall’avvocato e vi facciamo un culo così, vi facciamo perdere il posto di lavoro”. A seguito di questo comportamento, sono stati condannati in primo e secondo grado per il reato di minaccia a pubblico ufficiale previsto dall’articolo 336 del codice penale. I due imputati hanno quindi deciso di presentare ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, confermando integralmente la decisione della Corte d’Appello. I giudici hanno ritenuto che i motivi presentati dai ricorrenti fossero una semplice riproposizione di censure già esaminate e correttamente respinte nei precedenti gradi di giudizio. La condanna per minaccia a pubblico ufficiale è stata quindi ritenuta legittima e fondata.

Le Motivazioni della Sentenza

Le motivazioni della Corte si concentrano su due aspetti principali: la configurabilità del reato e il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

La Configurazione della Minaccia a Pubblico Ufficiale

La Corte ha ribadito che, ai fini dell’integrazione del reato di minaccia a pubblico ufficiale, non è necessaria una minaccia diretta o personale. È sufficiente, invece, l’uso di qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, che abbia l’idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale. La frase “vi facciamo perdere il posto di lavoro”, secondo i giudici, rappresenta una chiara condotta intimidatoria volta a ostacolare l’operato degli agenti. La Corte richiama un proprio precedente orientamento (Sez. 6, n. 2104 del 16/12/2021), consolidando l’interpretazione estensiva della norma a tutela della libera determinazione del funzionario pubblico.

Il Diniego delle Attenuanti Generiche

Anche il secondo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, è stato giudicato manifestamente infondato. La Corte ha evidenziato due punti cruciali: in primo luogo, gli stessi ricorrenti avevano ammesso di non averle richieste nell’atto di appello. In secondo luogo, e in ogni caso, la Corte territoriale aveva già sottolineato la presenza di numerosi precedenti penali a carico di entrambi gli imputati per reati contro il patrimonio, e per uno di essi anche un episodio di resistenza. Tali circostanze, secondo i giudici, dimostrano l’assenza di “elementi di valutazione positiva” necessari per la concessione del beneficio.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza un principio giuridico di grande importanza pratica: la tutela del pubblico ufficiale non si limita alle sole aggressioni fisiche o alle minacce esplicite di un male ingiusto. Anche una frase che prospetta conseguenze negative sul piano lavorativo o legale, se pronunciata con l’intento di intimidire e ostacolare l’attività di servizio, integra pienamente il reato di minaccia a pubblico ufficiale. La decisione, inoltre, conferma che la concessione delle attenuanti generiche non è un atto dovuto, ma una valutazione discrezionale del giudice, che tiene conto della condotta di vita e dei precedenti dell’imputato.

Per commettere il reato di minaccia a pubblico ufficiale è necessaria un’intimidazione diretta e personale?
No, la Corte di Cassazione ha chiarito che per integrare il reato è sufficiente qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, purché sia idonea a limitare la libertà d’azione del pubblico ufficiale.

La frase “vi facciamo perdere il posto di lavoro” rivolta a un agente di polizia costituisce reato?
Sì, secondo la sentenza, questa espressione è una condotta chiaramente integrante il delitto contestato, in quanto rappresenta una minaccia volta a coartare la volontà e l’operato del pubblico ufficiale.

Avere precedenti penali può impedire il riconoscimento delle attenuanti generiche?
Sì, la Corte ha confermato che la presenza di numerosi precedenti penali a carico degli imputati costituisce una valida ragione per negare la concessione delle attenuanti generiche, in quanto evidenzia l’assenza di elementi di valutazione positiva della loro personalità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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