Minaccia a Pubblico Ufficiale: Quando una Frase Diventa Reato?
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta un caso emblematico di minaccia a pubblico ufficiale, chiarendo i confini di questo delitto. La vicenda riguarda due persone che, durante un controllo di polizia, hanno rivolto agli agenti frasi intimidatorie. La Suprema Corte ha confermato la loro condanna, stabilendo un principio fondamentale: per commettere questo reato non è necessaria una minaccia diretta o fisica, ma è sufficiente una qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, purché sia idonea a limitare la libertà di azione dell’agente. Questo caso offre spunti cruciali per comprendere come la legge tutela i pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni.
I Fatti del Caso
Tutto ha origine da un controllo di polizia. Due soggetti, fermati perché sospettati di aver commesso un furto di un paio di occhiali da sole, si sono rivolti agli operanti con toni e parole minacciose. In particolare, hanno proferito la frase: “andiamo dall’avvocato e vi facciamo un culo così, vi facciamo perdere il posto di lavoro”. A seguito di questo comportamento, sono stati condannati in primo e secondo grado per il reato di minaccia a pubblico ufficiale previsto dall’articolo 336 del codice penale. I due imputati hanno quindi deciso di presentare ricorso in Cassazione.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, confermando integralmente la decisione della Corte d’Appello. I giudici hanno ritenuto che i motivi presentati dai ricorrenti fossero una semplice riproposizione di censure già esaminate e correttamente respinte nei precedenti gradi di giudizio. La condanna per minaccia a pubblico ufficiale è stata quindi ritenuta legittima e fondata.
Le Motivazioni della Sentenza
Le motivazioni della Corte si concentrano su due aspetti principali: la configurabilità del reato e il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La Configurazione della Minaccia a Pubblico Ufficiale
La Corte ha ribadito che, ai fini dell’integrazione del reato di minaccia a pubblico ufficiale, non è necessaria una minaccia diretta o personale. È sufficiente, invece, l’uso di qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, che abbia l’idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale. La frase “vi facciamo perdere il posto di lavoro”, secondo i giudici, rappresenta una chiara condotta intimidatoria volta a ostacolare l’operato degli agenti. La Corte richiama un proprio precedente orientamento (Sez. 6, n. 2104 del 16/12/2021), consolidando l’interpretazione estensiva della norma a tutela della libera determinazione del funzionario pubblico.
Il Diniego delle Attenuanti Generiche
Anche il secondo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, è stato giudicato manifestamente infondato. La Corte ha evidenziato due punti cruciali: in primo luogo, gli stessi ricorrenti avevano ammesso di non averle richieste nell’atto di appello. In secondo luogo, e in ogni caso, la Corte territoriale aveva già sottolineato la presenza di numerosi precedenti penali a carico di entrambi gli imputati per reati contro il patrimonio, e per uno di essi anche un episodio di resistenza. Tali circostanze, secondo i giudici, dimostrano l’assenza di “elementi di valutazione positiva” necessari per la concessione del beneficio.
Le Conclusioni
L’ordinanza in esame rafforza un principio giuridico di grande importanza pratica: la tutela del pubblico ufficiale non si limita alle sole aggressioni fisiche o alle minacce esplicite di un male ingiusto. Anche una frase che prospetta conseguenze negative sul piano lavorativo o legale, se pronunciata con l’intento di intimidire e ostacolare l’attività di servizio, integra pienamente il reato di minaccia a pubblico ufficiale. La decisione, inoltre, conferma che la concessione delle attenuanti generiche non è un atto dovuto, ma una valutazione discrezionale del giudice, che tiene conto della condotta di vita e dei precedenti dell’imputato.
Per commettere il reato di minaccia a pubblico ufficiale è necessaria un’intimidazione diretta e personale?
No, la Corte di Cassazione ha chiarito che per integrare il reato è sufficiente qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, purché sia idonea a limitare la libertà d’azione del pubblico ufficiale.
La frase “vi facciamo perdere il posto di lavoro” rivolta a un agente di polizia costituisce reato?
Sì, secondo la sentenza, questa espressione è una condotta chiaramente integrante il delitto contestato, in quanto rappresenta una minaccia volta a coartare la volontà e l’operato del pubblico ufficiale.
Avere precedenti penali può impedire il riconoscimento delle attenuanti generiche?
Sì, la Corte ha confermato che la presenza di numerosi precedenti penali a carico degli imputati costituisce una valida ragione per negare la concessione delle attenuanti generiche, in quanto evidenzia l’assenza di elementi di valutazione positiva della loro personalità.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 45531 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 45531 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 25/11/2024
ORDINANZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato a ROMA il 04/02/1989 NOME COGNOME NOME nato a ROMA il 02/03/1985
avverso la sentenza del 31/01/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
visti gli atti e la sentenza impugnata; dato avviso alle parti; esaminati i motivi dei ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
OSSERVA
Ritenuto che i motivi dedotti nei ricorsi in relazione alla condanna det ricorrenti per il reato di cui all’art. 336 cod. pen. sono inammissibili in quanto riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dai giudici di merito;
Considerato, invero, che la Corte d’appello, con congrua ed esaustiva motivazione, ha ritenuto integrati gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 336 cod. pen., dal momento che – alla luce dell’accertata dinamica dei fatti – i ricorrenti proferivano frasi minacciose (“andiamo dall’avvocato e vi facciamo un culo così, vi facciamo perdere il posto di lavoro”) nei confronti degli operanti che intendevano procedere al controllo sui predetti che si erano allontanati a bordo di un vauto segnalata come occupata da soggetti che poco prima avevano commesso il furto di un paio di occhiali da sole in un esercizio commerciale. Condotta, questa, chiaramente integrante il delitto contestato, atteso che ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia o di resistenza a pubblico ufficiale non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale (da ultimo, Sez. 6, n. 2104 del 16/12/2021 – dep. 18/01/2022, NOME, Rv. 282666 – 01);
Rilevato che anche il secondo motivo – con il quale si censura la sentenza di appello per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche – è manifestamente infondato, considerato che, da un lato, gli stessi ricorrenti ammettono che esse non erano state richieste nell’atto di appello e che, comunque, la Corte territoriale dà atto che gli imputati sono gravati da numerosi precedenti per reati contro il patrimonio e il Di Rocco anche di un episodio di resistenza, seppur risalente nel tempo; circostanze che evidenziano – come rilevato dalla sentenza impugnata – l’insussistenza di “elementi di valutazione positiva per concedere le attenuanti generiche”;
Ritenuto che i ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 25/11/2024
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