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Metodo mafioso: rissa tra parenti e Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la misura cautelare in carcere per quattro indagati accusati di tentato omicidio, porto d’armi e aggravante del metodo mafioso a seguito di una violenta aggressione nata da una lite familiare. La sentenza stabilisce che l’aggravante del metodo mafioso non dipende dall’appartenenza a un clan, ma dalle modalità plateali e intimidatorie dell’azione, volte a manifestare potere e a generare omertà in un territorio a forte influenza criminale, anche se il movente è di natura privata.

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Pubblicato il 4 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Metodo Mafioso in una Rissa Familiare: L’Analisi della Cassazione

Può una lite tra parenti, sfociata in una violenta aggressione, essere considerata un reato commesso con l’aggravante del metodo mafioso? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9046 del 2024, ha fornito una risposta affermativa, chiarendo che non è l’appartenenza formale a un clan a determinare l’applicazione di tale aggravante, ma le modalità con cui il crimine viene eseguito.

I Fatti del Caso

La vicenda ha origine da un alterco tra alcune donne appartenenti allo stesso nucleo familiare allargato in una piazza di Napoli. La situazione degenera rapidamente con l’arrivo di quattro uomini, parenti di una delle fazioni, a bordo di scooter. Questi ultimi aggrediscono due fratelli della fazione opposta, colpendoli ripetutamente con un’arma da taglio al torace.

Durante l’aggressione, uno degli indagati viene ripreso dalle telecamere di videosorveglianza mentre impugna una pistola, ostentandola per scoraggiare l’intervento di eventuali passanti. L’intera azione si svolge in un luogo pubblico e affollato, in pieno giorno e in un’area nota per essere sotto l’egemonia di un noto clan camorristico.

Gli aggressori vengono sottoposti a misura cautelare in carcere per tentato omicidio, detenzione e porto illegale di armi, con l’aggravante del metodo mafioso. Essi presentano ricorso in Cassazione, sostenendo che si trattava di una semplice disputa familiare, senza alcuna intenzione omicida o connotazione mafiosa.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato tutti i ricorsi, confermando integralmente l’ordinanza del Tribunale della Libertà. Gli Ermellini hanno ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per tutti i reati contestati, inclusa la pesante aggravante del metodo mafioso, offrendo importanti chiarimenti sulla sua applicazione.

Le Motivazioni: L’Aggravante del Metodo Mafioso

Il punto centrale della sentenza riguarda la configurabilità del metodo mafioso. La difesa sosteneva che una lite familiare non potesse integrare tale aggravante. La Cassazione, al contrario, ha stabilito che la valutazione deve basarsi sulle modalità oggettive dell’azione e non sulle caratteristiche soggettive degli autori o sul movente privato.

Secondo la Corte, gli elementi che giustificano l’aggravante sono:

* Platealità dell’azione: L’aggressione è avvenuta a volto scoperto, in pieno giorno, in un luogo affollato e in una zona soggetta all’egemonia di un clan.
* Forza intimidatrice: L’ostentazione della pistola era chiaramente finalizzata a intimidire i presenti, per impedire qualsiasi intervento e affermare il proprio dominio sul territorio.
* Evocazione del potere mafioso: Tali modalità esecutive evocano la forza intimidatrice tipica delle organizzazioni criminali, creando un clima di assoggettamento e omertà. Si sfrutta la percezione che in quel territorio comanda la logica della violenza e che è meglio non immischiarsi.

In sostanza, gli indagati hanno agito come se stessero compiendo una spedizione punitiva, rivendicando platealmente la paternità dell’azione per lanciare un messaggio di potere.

Le Motivazioni: Tentato Omicidio e Concorso nel Reato

La Corte ha inoltre confermato l’accusa di tentato omicidio. L’utilizzo di un’arma da taglio e la direzione dei colpi verso il torace, una zona vitale del corpo, sono stati ritenuti elementi sufficienti a dimostrare l’intenzione di uccidere (animus necandi), escludendo la tesi della legittima difesa, dato che gli aggressori si erano recati volontariamente sul luogo per attaccare.

Infine, è stato ritenuto sussistente il concorso di tutti gli indagati nel porto e detenzione dell’arma, anche per coloro che non la impugnavano materialmente. L’azione è stata considerata un “fatto collettivo” unitario, in cui la presenza della pistola, impugnata da uno, ha rafforzato il proposito criminoso di tutti e agevolato l’esecuzione del reato principale.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa pronuncia ribadisce un principio fondamentale: l’aggravante del metodo mafioso ha una portata applicativa ampia, che va oltre i crimini commessi direttamente dai clan. Ciò che conta è l’utilizzo di una modalità operativa che, per la sua platealità, violenza e capacità di intimidazione, è in grado di generare nella collettività una percezione di assoggettamento e paura, tipica del potere mafioso.

La sentenza insegna che anche un reato nato da contrasti privati può assumere una connotazione mafiosa se viene eseguito con lo scopo di affermare il proprio potere in modo eclatante e intimidatorio, sfruttando il contesto ambientale di omertà preesistente.

Quando si applica l’aggravante del metodo mafioso?
L’aggravante si applica quando un reato è commesso con modalità che evocano la forza intimidatrice tipica delle associazioni mafiose, creando un clima di assoggettamento e omertà nei presenti. Non è necessario che l’autore sia affiliato a un clan, ma che l’azione, per la sua platealità e violenza, sfrutti tale potere intimidatorio.

Perché l’aggressione è stata qualificata come tentato omicidio e non come lesioni aggravate?
È stata qualificata come tentato omicidio perché gli aggressori hanno usato un’arma da taglio per colpire le vittime in una zona vitale del corpo, il torace. Secondo la Corte, questa scelta dimostra l’intenzione di uccidere (animus necandi), indipendentemente dalla gravità finale delle ferite riportate.

Perché anche chi non impugnava la pistola è stato accusato di porto e detenzione d’armi?
Perché la Corte ha considerato l’intera aggressione come un ‘fatto collettivo’ unitario. La presenza della pistola, impugnata da uno dei complici, ha rafforzato il proposito criminale di tutto il gruppo e ha facilitato l’esecuzione dell’aggressione. Pertanto, tutti i partecipanti sono stati ritenuti concorrenti nel reato, avendo beneficiato della forza intimidatrice dell’arma.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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