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Metodo mafioso: la percezione della vittima è cruciale

Un imputato minaccia un pubblico ufficiale facendo riferimento al fratello detenuto, membro di una cosca. La Corte di Cassazione conferma l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso perché la vittima non era a conoscenza di tale legame criminale. La sentenza stabilisce che, per l’applicazione di tale aggravante, è essenziale la percezione del contesto mafioso da parte della persona offesa, non essendo sufficiente il solo legame effettivo dell’autore della minaccia con l’ambiente criminale.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Metodo Mafioso: Quando la Percezione della Vittima Fa la Differenza

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale per la lotta alla criminalità organizzata: la configurabilità dell’aggravante del metodo mafioso. Il caso in esame chiarisce che non basta il legame dell’autore di una minaccia con un clan per applicare l’aggravante, ma è indispensabile che la vittima percepisca tale connessione. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso

Un cittadino è stato accusato di aver rivolto gravi minacce a un assessore comunale per costringerlo a compiere atti contrari ai suoi doveri d’ufficio. In particolare, l’imputato aveva minacciato l’assessore di ritorsioni che sarebbero state attuate dal fratello una volta scarcerato. Il fratello in questione era un elemento di spicco di una nota cosca di ‘ndrangheta.

Il Percorso Giudiziario e l’Aggravante del Metodo Mafioso

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte di Appello hanno escluso l’applicazione dell’aggravante del metodo mafioso, prevista dall’articolo 416-bis.1 del codice penale. Senza questa aggravante, il reato di minaccia grave non era procedibile d’ufficio e, in assenza di querela da parte della persona offesa, l’imputato è stato prosciolto.
La ragione di questa esclusione risiede in un elemento fattuale decisivo: l’assessore minacciato, al momento dei fatti, non era a conoscenza né dello spessore criminale del fratello dell’imputato, né della sua appartenenza alla cosca. Di conseguenza, pur percependo la minaccia, non ha potuto avvertire quella particolare coartazione psicologica derivante dalla forza intimidatrice dell’associazione mafiosa.

La Decisione della Cassazione: Analisi del Metodo Mafioso

Il Procuratore generale ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che il riferimento a un familiare detenuto, noto esponente di un clan, integrasse di per sé un “fare mafioso”, indipendentemente dalla consapevolezza della vittima. La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando le sentenze dei gradi precedenti.

Le Motivazioni della Suprema Corte

I giudici hanno ribadito un principio fondamentale: l’aggravante del metodo mafioso postula, nel destinatario dell’azione illecita, la percezione di un’evocazione del legame con un contesto mafioso. La minaccia deve essere in grado di produrre nella vittima quella particolare forma di intimidazione che deriva dalla forza di un’organizzazione criminale, generando assoggettamento e omertà.
Nel caso di specie, la Corte di Appello aveva accertato in fatto che l’assessore non aveva percepito alcun riferimento alla cosca Lanzino. Le espressioni usate dall’imputato, sebbene intimidatorie, non erano state idonee a evocare nella vittima la potenza del clan. Affermare il contrario, secondo la Cassazione, significherebbe sostenere irragionevolmente che in territori ad alta densità mafiosa qualsiasi minaccia sia automaticamente attuata con metodo mafioso, anche senza alcun collegamento percepito dalla vittima.
La Corte ha specificato che il ricorso del Procuratore si basava su una ricostruzione dei fatti diversa da quella accertata in sede di merito, tentando di ottenere una nuova valutazione delle prove, attività preclusa nel giudizio di legittimità.

Le Conclusioni

Questa sentenza consolida un importante orientamento giurisprudenziale. Per la configurabilità dell’aggravante del metodo mafioso, non è sufficiente l’oggettiva appartenenza dell’autore del reato (o di suoi familiari) a un’associazione criminale. È necessario che la condotta intimidatoria sia posta in essere con modalità che richiamino, nella percezione della vittima, la forza e il potere del sodalizio mafioso. La consapevolezza della persona offesa diventa, quindi, un elemento chiave per distinguere una minaccia grave da una minaccia aggravata dal metodo mafioso, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di procedibilità e di pena.

Quando si applica l’aggravante del metodo mafioso in caso di minaccia?
Secondo la sentenza, l’aggravante del metodo mafioso si applica quando la condotta intimidatoria evoca nella vittima la percezione di un legame con un contesto mafioso, generando una particolare coartazione psicologica derivante dalla forza dell’organizzazione criminale.

È sufficiente che chi minaccia abbia legami con la criminalità organizzata per configurare il metodo mafioso?
No, non è sufficiente. La sentenza chiarisce che la vittima deve percepire questo collegamento. Se la persona offesa, al momento del fatto, non è consapevole dei legami dell’autore della minaccia (o dei suoi parenti) con la mafia, l’aggravante non può essere applicata.

Perché il ricorso del Procuratore generale è stato respinto?
Il ricorso è stato respinto perché si basava su una ricostruzione dei fatti diversa da quella accertata dalla Corte di Appello, la quale aveva stabilito che la vittima non era consapevole dello spessore criminale del fratello dell’imputato. La Corte di Cassazione non può riesaminare i fatti, ma solo verificare la corretta applicazione della legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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