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Metodo mafioso: la minaccia ‘silente’ è sufficiente

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un indagato per estorsione e concorrenza illecita, aggravate dal metodo mafioso. Per i giudici, in contesti ad alta densità criminale, la minaccia può essere ‘silente’, senza necessità di atti espliciti, essendo sufficiente la fama del clan per intimidire le vittime.

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Pubblicato il 26 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Metodo mafioso: per la Cassazione la minaccia può essere ‘silente’

In contesti ad alta densità criminale, la forza intimidatrice di un clan può essere così pervasiva da rendere superflue minacce esplicite per commettere reati come l’estorsione. Questo è il principio chiave ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Penale, nella sentenza n. 2165 del 2024. Il caso analizzato riguarda l’applicazione del cosiddetto metodo mafioso, dove l’ambiente di omertà e assoggettamento è sufficiente a integrare l’aggravante, anche in assenza di atti di violenza diretta. Analizziamo insieme la vicenda e le conclusioni dei giudici.

I fatti del processo

La vicenda giudiziaria ha origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Catanzaro. Un soggetto era indagato per reati di illecita concorrenza con violenza e minaccia e di estorsione, entrambi aggravati dall’articolo 416-bis.1 del codice penale, ovvero l’aver agito con il metodo mafioso.

Secondo l’accusa, l’indagato, insieme ad altri soggetti appartenenti a una locale della ‘ndrangheta radicata a Cirò Marina, avrebbe costretto alcuni pescatori locali a subire le loro condizioni. In particolare, il gruppo imponeva ai pescatori di rifornirsi di pesce da loro e di cedere il proprio pescato a prezzi e con modalità decise unilateralmente. Inoltre, all’indagato veniva contestato di aver occupato in regime di esclusiva uno specchio d’acqua per la pesca del polipo, impedendo ad altri di esercitare la propria attività. Le prove a sostegno dell’accusa si basavano principalmente sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia e su diverse intercettazioni telefoniche.

Il ricorso in Cassazione: i motivi della difesa

L’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. La difesa sosteneva che il Tribunale avesse travisato le prove, in particolare le dichiarazioni del collaboratore e il contenuto delle intercettazioni. Secondo il ricorrente, queste prove dimostrerebbero, al contrario, la mancanza di soggezione dei pescatori e l’assenza di contenuti minacciosi nelle sue condotte. Si contestava inoltre la capacità di monopolizzare l’attività di pesca, data l’esiguità delle risorse imprenditoriali dell’indagato, e si negava la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso.

L’aggravante del metodo mafioso e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. I giudici hanno sottolineato che le argomentazioni della difesa costituivano un tentativo di rivalutare i fatti, operazione non consentita nel giudizio di legittimità, il cui scopo è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione, non riesaminare le prove.

Il Tribunale, secondo la Suprema Corte, aveva correttamente analizzato e valutato in modo sinergico tutti gli elementi a disposizione, dalle dichiarazioni del collaboratore ai dialoghi intercettati, senza incorrere in vizi logici.

Le motivazioni

La parte centrale della motivazione della sentenza riguarda la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso. La Corte ha spiegato che, per la configurazione di tale aggravante, non sono sempre necessarie minacce esplicite o atti di violenza palesi. In un ambiente caratterizzato dalla presenza egemone di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta, la forza intimidatrice del clan è tale da rendere superfluo un avvertimento diretto.

L’utilizzo di un messaggio intimidatorio può essere anche ‘silente’. La fama criminale del gruppo, la consapevolezza da parte delle vittime della sua pericolosità e capacità di ritorsione creano un clima di assoggettamento e omertà che costituisce l’essenza stessa del metodo mafioso. Nel caso di specie, il collegamento dell’indagato con esponenti del sodalizio criminale, emerso sia dalle intercettazioni che dalle dichiarazioni accusatorie, era sufficiente a connotare le sue condotte prevaricatrici. Le sue azioni erano inserite in una più ampia dinamica di vessazione dei pescatori, finalizzata ad agevolare gli interessi economici della cosca.

Le conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata. Il principio affermato è chiaro: la pericolosità di un’associazione mafiosa risiede anche nella sua capacità di controllare il territorio e le attività economiche attraverso un’intimidazione diffusa, che non ha bisogno di manifestarsi in ogni singola condotta criminale. Per i giudici, quando un soggetto agisce sfruttando la percezione di appartenenza a un clan temuto, le sue azioni, anche se apparentemente non violente, sono intrinsecamente minacciose e integrano pienamente l’aggravante del metodo mafioso.

È necessaria una minaccia esplicita per configurare l’aggravante del metodo mafioso?
No, secondo la sentenza non è necessaria una minaccia esplicita. In contesti dominati da un’associazione criminale, la forza intimidatrice del clan può rendere l’avvertimento superfluo. L’uso di un messaggio intimidatorio ‘silente’, derivante dalla fama criminale del gruppo, è sufficiente a integrare l’aggravante.

In cosa consisteva l’illecita concorrenza contestata nel caso?
La condotta consisteva nell’occupare in regime di esclusiva uno spazio di mare per la pesca del polipo, impedendo ad altri pescatori di esercitare la loro attività in quella zona, e nel costringere i pescatori a rifornirsi di pesce e a cedere il proprio pescato a condizioni imposte unilateralmente.

Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile?
La Corte ha ritenuto che i motivi del ricorso fossero manifestamente infondati perché tentavano di ottenere una nuova valutazione dei fatti e delle prove, attività non permessa nel giudizio di legittimità. La Cassazione ha invece stabilito che il Tribunale aveva analizzato le prove in modo corretto e logico, senza vizi rilevabili.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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