Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 44818 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 44818 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di NOME nata a Latina il 30.4.1984, contro la sentenza della Corte d’appello di Roma del 27.2.2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
uditi l’Avv. NOME COGNOME per la costituita parte civile Comune di Latina, e l’Avv. NOME COGNOME per la costituita parte civile RAGIONE_SOCIALE e le NOME COGNOME per il solo capo 32, che si riportano alle conclusioni scritte che depositano unitamente alla relativa nota spese;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME che ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con cui, in data 7.6.2023, il Tribunale di Latina aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile dei fatti di reato a lei ascritti e, qualificato quello di cui al capo 17) sensi del comma 5 dell’art. 73 del DPR 309 del 1990, esclusa per il capo 32) l’aggravante di cui al comma secondo dell’art. 629 cod. pen. (in relazione al n. 3 del comma 3 dell’art. 628 cod. pen.), applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, l’aveva condannata alla pena di mesi 8 di reclusione ed euro 800 di multa per il delitto di cui al capo 17) ed alla pena di anni 4 di reclusione ed euro 900 di multa per il delitto di cui al capo 32) e, pertanto, complessivamente, alla pena dì anni 4 e mesi 8 di reclusione ed euro 1.700 di multa; il primo giudice aveva inoltre applicato alla Di Silvio la pena accessoria conseguente alla entità di quella principale e l’aveva condannata al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili da liquidarsi in separata sede;
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
2.1 nullità dell’impugnata sentenza per violazione di legge penale sostanziale e processuale, vizio di motivazione ed erronea valutazione delle prove: ricorda che, con l’atto di appello, la difesa aveva insistito sulla necessità di procedere ad una integrale trascrizione della intercettazione del 2.3.2021 la cui parziale lettura aveva consentito al primo giudice di stravolgerne il senso; osserva che la Corte territoriale non ha affrontato le doglianze difensive con riguardo, in primo luogo, al tenore ed alla ascrivibilità ad essa ricorrente, piuttosto che alla di lei figlia, della conversazione del 2.3.2021 su cui si fonda l’episodio di cessione non riscontrato da altri elementi oggettivi; sottolinea come proprio la COGNOME, presente nell’occasione, fosse adusa allo spaccio di sostanze stupefacenti e presente nell’occasione e che, nel richiamare il tenore della intercettazione, la Corte d’appello ha omesso di confrontarsi con la minuziosa ricostruzione operata dalla difesa secondo cui la parzialità della trascrizione, come riportata nelle due sentenze di merito, non consentiva nemmeno di avere certezza dell’oggetto della cessione; rileva, quanto al capo 32), che la responsabilità della ricorrente è stata affermata esclusivamente sulla scorta del contenuto delle intercettazioni eseguite all’interno della vettura in uso alla Di Silvio senza tener conto delle dichiarazioni della persona offesa rese sia in sede di indagini che in sede di giudizio abbreviato
condizionato, finendo la Corte d’appello per aderire acriticamente alle valutazioni del primo giudice che, a sua volta, si era adagiato su quelle della pubblica accusa; segnala che la Corte non ha considerato, da un lato, la condotta dello COGNOME, che non aveva mostrato alcun timore della donna e, dall’altro, che il materiale intercettivo poteva essere ben diversamente interpretato; aggiunge che le stesse dichiarazioni dello COGNOME, invece di essere considerate per una ricostruzione diversa della vicenda, sono state valorizzate in termini accusatori, come riprova dell’intimidazione subita;
2.2 nullità dell’impugnata sentenza per violazione di legge; vizio di motivazione per assenza, manifesta illogicità, contraddittorietà ed apparenza; omessa motivazione sulla riqualificazione giuridica del fatto: rileva che la lettura integrale della intercettazione di cui al progressivo 24 RIT 287/2021 consente di approdare ad una ricostruzione diversa da quella cui sono pervenuti i giudici di merito risultando la persona offesa tutt’altro che intimidita dall’odierna ricorrente tanto che lo COGNOME, ad un certo punto, di fronte alle richieste della ricorrente, si era allontanato; sottolinea come il tenore della conversazione intercettata sia in realtà in linea con quanto riferito dalla persona offesa escussa a sit e poi come teste ma che i giudici di merito hanno affermato aver inteso ridimensionare la vicenda invece perfettamente evincibile proprio dalla captazione; segnala che la Corte avrebbe dovuto motivare sulla conferma della condanna in assenza dell’elemento costitutivo del delitto di estorsione, ovvero della minaccia; osserva che i giudici di merito hanno inoltre mancato di prendere in esame la censura, di cui pure hanno dato atto, secondo cui l’episodio andava ricondotto nella ipotesi contemplata dall’art. 610 cod. pen.;
2.3 nullità dell’impugnata sentenza per violazione di legge; vizio di motivazione per assenza, manifesta illogicità, contraddittorietà ed apparenza: segnala che, con l’atto di appello, la difesa aveva insistito sull’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestata sotto il profilo del “metodo” che, tuttavia, la Corte territoriale ha confermato valorizzando una serie di elementi quali il rapporto di parentela della Di Silvio con alcuni imputati del processo “Reset” nonché l’uso del “plurale” che, si è detto, la collocavano all’interno dell’ambito associativo; osserva che l’uso del plurale era in realtà giustificato proprio dalla presenza del suo interlocutore ma che l’evocazione della forza del gruppo era in realtà contraddetta dall’atteggiamento dello COGNOME che non si era affatto sottomesso alla richiesta proveniente dalla COGNOME; segnala, ancora, l’illogicità del ragionamento seguito dalla Corte territoriale laddove ha insistito sul fatto che lo COGNOME avesse la disponibilità di denaro per soddisfare la richiesta della COGNOME e che questo dato conferma che, nel rigettare la richiesta
della donna, non si era sentito affatto minacciato; riporta, inoltre, un passo della sentenza impugnata in cui la Corte ha evocato le risultanze dei procedimenti “Don’t touch” e “Reset” e aggiunge che le misure cautelari adottate nell’ambito di quest’ultimo risalgono al 2015, dato anch’esso ignorato dalla Corte territoriale che, per altro verso, ha omesso di confrontarsi con il fatto che nel processo Don’t touch era stata affermata l’esistenza di una associazione “semplice”; osserva che una corretta interpretazione della norma relativa alla aggravante impone di operarne una lettura “oggettiva” non essendo sufficiente l’esistenza di legami tra l’agente e contesti di criminalità organizzata dovendo invece concretarsi in condotte oggettivamente idonee a realizzare una particolare coartazione della volontà della vittima, elemento nel caso di specie mancanta;
2.4 nullità dell’impugnata sentenza per violazione di legge; vizio di motivazione per assenza, manifesta illogicità, contraddittorietà ed apparenza, in ordine al trattamento sanzionatorio: richiama le considerazioni svolte con l’atto di appello per invocare un ridimensionamento della pena a partire dalla esiguità dell’importo ed alla unicità dell’atto di cessione di stupefacente per il quale è stata inflitta una pena non proporzionata motivando sulla personalità dell’imputata che, tuttavia, non aveva mai subito condanne legate agli stupefacenti; segnala che anche per il capo 32) i giudici di merito hanno inflitto una pena appena al di sotto del minimo edittale quanto all’ipotesi consumata, per una vicenda priva di alcun rilievo sostanziale;
la Procura Generale ha trasmesso le conclusioni scritte insistendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile poiché articolato con censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede.
NOME COGNOME era stata tratta a giudizio e riconosciuta responsabile, nei due gradi di merito ed all’esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di cessione di sostanza stupefacente (ricondotto il fatto nella ipotesi disciplinata dal comma quinto dell’art. 73 del DPR 309 del 1990) e di quello di tentata estorsione aggravata ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. in danno di NOME COGNOME (già vittima di condotte estorsive poste in atto dai figli della COGNOME, NOME e NOME COGNOME pochi giorni prima tratti in arresto in esecuzione di una ordinanza custodiale per estorsione aggravata dal metodo mafioso in danno dello stesso COGNOME) da cui
tentava di farsi dare, senza riuscirci per il rifiuto opposto dal predetto COGNOME, la somma di 2.000 euro.
2. Il primo ed il secondo motivo del ricorso denunziano violazione di legge e vizio di motivazione in punto di responsabilità della Di Silvio quanto ai reati a lei ascritti; pur volendo superare la non irrilevante circostanza secondo cui la difesa deduce cumulativamente ed in maniera indifferenziata sia la violazione di legge che tutti i profili di vizio della motivazione (manifesta illogicità, contraddittorie ed apparenza) (cfr., Sez. 2 – , n. 38676 del 24/05/2019, COGNOME, Rv. 277518 – 02; conf., Sez. 4 – , n. 8294 del 01/02/2024, COGNOME, Rv. 285870 – 01, secondo cui è inammissibile, per aspecificità, ex artt. 581, comma 1 e 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., il motivo che denunci l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale, nonché, in modo cumulativo, promiscuo e perplesso, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, ove non sia indicato specificamente il vizio di motivazione dedotto per i singoli, distinti aspetti, con puntuale richiamo, alle parti della motivazione censurata), va rilevato che, significativamente, il primo motivo è intitolato (anche) “erronea valutazione della prova ai sensi degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen.” che, all’evidenza, evoca un profilo valutativo del compendio probatorio cui è estraneo il giudizio di legittimità.
2.1 Ed in effetti, pur intitolando il motivo in termini di violazione di legge, la difesa finisce, in realtà, per contestare il giudizio di responsabilità, ovvero i risultato probatorio cui sono approdati i giudici di merito che, con valutazione conforme delle medesime emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ritenere al contrario gli elementi delle fattispecie delittuose contestate pienamente riscontrati all’esito della ricostruzione delle concrete vicende processuali; il motivo di ricorso fondato sulla lett. b) dell’art. 606 cod. proc. pen. deve essere invero articolato sotto il profilo della contestazione della riconducibilità del fatto – cos come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispecie astratta delineata dal legislatore; altra, invece, come accade sovente ed anche nel caso di specie, è mettere in dubbio o contestare che le emergenze istruttorie acquisite consentano di ricostruire la condotta di cui si discute in termini idonei a ricondurla al paradigma legale.
Con riguardo, poi, al vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il sindacato di legittimità sulla motivazione deve essere mirato a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della
logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr., Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, COGNOME, Rv. 251516; Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, COGNOME, Rv. 233708; Sez. 2, n. 36119 del 04/07/2017, COGNOME, Rv. 270801).
Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali per pervenire ad una diversa conclusione del processo; sono dunque inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenz probatoria del singolo elemento (cfr., in tal senso, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965; Sez. 2 – , n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747).
Né, per altro verso, è consentito il ricorso per cassazione che, “sub specie” della violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., finisce in realtà per fondarsi su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. (cfr., Sez. 6, n. 13442 del 08/03/2016, COGNOME ed altro, Rv. 266924; Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, COGNOME, Rv. 258153; conf., ancora, Sez. U – , n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 04, in cui la Corte ha ribadito che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità).
E’, d’altra parte, certamente preclusa al giudice di legittimità l’operazione di rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata ovvero l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, anche qualora indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., Sez. 6 – , n. 5465 del 04/11/2020, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507; cfr., ancora, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; conf., da ultimo, Sez. 3 – , n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556 – 01, in cui la Corte ha ribadito che eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile).
Vagliando, inoltre, la completezza e congruità della motivazione della sentenza di appello, si è da sempre ribadito che l’emersione di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata non è di per sé rilevante laddove l’apparato motivazionale offra, nel suo complesso, ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non potendo perciò comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione che rileva solo quando, per effetto di tale critica, ed all’esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, il ragionamento risulti disarticolato in uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (cfr., Sez. 1, Sentenza n. 46566 del 21/02/2017, M. ed altri Rv. 271227).
Da ultimo, è appena il caso di segnalare, con la costante giurisprudenza di questa Corte, che la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” rileva in sede di legittimità esclusivamente laddove la sua violazione si sia tradotta nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (cfr., in tal senso
Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, GLYPH COGNOME, GLYPH Rv. 270108 GLYPH 01; Sez. 4, n. 2132 del 12/01/2021, Maggio, Rv. 280245 – 01).
2.2.1 Tanto premesso, rileva il collegio che la Corte territoriale ha fornito una risposta congrua ed esaustiva ai rilievi formulati dalla difesa con l’atto di gravame interposto contro la sentenza di primo grado che, con il primo motivo d’appello, aveva mosso contestazioni di merito del tutto sovrapponibili a quelle formulate con il primo ed il secondo motivo del ricorso.
Quanto al capo 17) (cfr., pagg. 7-10 della sentenza impugnata), la Corte d’appello ha riportato parte della conversazione intercettata il giorno 2.3.2021 motivando in termini puntuali sul perché ha ritenuto indubbio che l’oggetto del colloquio fosse stato la cessione di sostanza stupefacente”… in considerazione del contesto ambientale in cui è avvenuto il colloquio ed in assenza di valida versione alternativa”, tenuto conto delle intercettazioni complessivamente riferite a cessione di sostanze stupefacenti normalmente effettuate negli alloggi ATER abusivamente occupati come quello della COGNOME.
Con argomentazione che non sconta profili di manifesta illogicità, i giudici romani hanno concluso nel senso che la cessione era stata effettuata dalla Di Silvio, che hanno spiegato non essere estranea all’attività della figlia, come dimostrato dalle intercettazioni pure riportate (cfr., pag. 9) e dallo stesso tenore delle espressioni utilizzate dalla donna che, nel discutere di stupefacenti, aveva significativamente fatto uso del plurale (cfr., “… ma allora perché c’ha dato quella che non è bona …”) emblematico di un suo diretto coinvolgimento nell’attività di spaccio; da ultimo, hanno evocato la conversazione tra la COGNOME e tale NOME COGNOME (cfr., pagg. 9-10 della sentenza) in cui la ricorrente finisce per confessare il proprio coinvolgimento.
La Corte d’appello non ha inoltre omesso di motivare in ordine alla identificazione della COGNOME Silvio la cui voce era stata riconosciuta dagli investigatori che più volte l’avevano sentita discorrere con la figlia per questo motivo essedo stati in grado di distinguerla e di individuarla rispetto alla sua interlocutrice; a ta proposito, peraltro, è appena il caso di ribadire che, ai fini dell’identificazione degli interlocutori coinvolti in conversazioni intercettate, il giudice ben può utilizzare le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che abbiano asserito di aver riconosciuto le voci di taluni imputati, così come qualsiasi altra circostanza o elemento che suffraghi detto riconoscimento, incombendo sulla parte che lo contesti l’onere di allegare oggettivi elementi sintomatici di segno contrario (cfr., Sez. 2, n. 12858 del 27/01/2017, COGNOME, Rv. 269900 – 01; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, COGNOME, Rv. 259478 – 01; cfr., anche, Sez. 6 – , n. 27911 del 23/09/2020, Mura, Rv. 279623 01;
Sez. 5 – , n. 20610 del 09/03/2021, COGNOME, Rv. 281265 – 01, in cui la Corte ha spiegato che, in tema di intercettazioni telefoniche, qualora sia contestata l’identificazione delle persone colloquianti, il giudice non deve necessariamente disporre una perizia fonica, ma può trarre il proprio convincimento da altre circostanze – quali i contenuti delle conversazioni intercettate; il riconoscimento delle voci da parte del personale della polizia giudiziaria; le intestazioni formali delle schede telefoniche – elementi tutti che consentano di risalire con certezza all’identità degli interlocutori, mentre incombe sulla parte che contesti il riconoscimento l’onere di allegare oggettivi elementi sintomatici di segno contrario).
Altrettanto esaustiva risulta, inoltre, la motivazione (cfr., pagg. 10-14 della sentenza impugnata) con cui la Corte d’appello ha confermato la responsabilità della ricorrente per il tentativo di estorsione aggravata di cui al capo 32) della rubrica.
Pacifica la vicenda in fatto, era accaduto che il giorno 18.2.2021 (ovvero il giorno successivo all’esecuzione delle misure cautelari nei confronti dei figli nell’ambito del proc. Reset) la Di Silvio si era recata presso la stazione di servizio ove lavorava lo COGNOME dal quale era tornata per farsi consegnare la somma di euro 1.000 (dei 2.000 che, conversando con la figlia all’interno della vettura Nissan munita di “cimice”, aveva sostenuto che le erano dovuti).
La sentenza impugnata ha confermato, con motivazione che non si presta a rilievi di legittimità, che proprio la considerazione complessiva delle conversazioni intercettate aveva consentito di concludere nel senso che l’odierna ricorrente aveva corredato la sua richiesta con minacce ed in un contesto tale da concretare, anche, il “metodo mafioso”.
E’ consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui, in tema di tentata estorsione, l’idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio operato “ex ante”, sicché, ai fini della valutazione dell’idoneità di una minaccia estorsiva, è priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima dopo la formulazione della minaccia (cfr., Sez. 2 – , n. 24166 del 20/03/2019, COGNOME Rv. 276537 – 01; conf., Sez. 2, n. 12568 del 05/02/2013, COGNOME, Rv. 255538 – 01; per altro verso, è altrettanto pacifico che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione oltre che essere esplicita, palese e determinata, può essere manifestata anche in maniera indiretta, ovvero implicita ed indeterminata, purché sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, con valutazione che deve essere operata in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera
(cfr., Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012, dep. 14/03/2013, COGNOME Rv. 254797 01) e che, anche nel tentativo di estorsione, l’assenza di esplicite minacce comporta che l’idoneità della condotta rispetto all’ingiusto risultato debba essere apprezzata in riferimento alle modalità con cui è stata posta in essere, avendo riguardo alla personalità sopraffattrice del soggetto agente, alle circostanze ambientali, all’ingiustizia del profitto, alle particolari condizioni soggettive del vittima (cfr., in questi termini, tra le altre, Sez. 2, n. 2833 del 27/09/2012, dep. 18/01/2013, Rv. 254297 – 01).
I giudici romani hanno a tal proposito ed in primo luogo congruamente valorizzato la conversazione intercorsa tra la COGNOME e la figlia NOME COGNOME in cui la prima, accennando proprio alla sia “visita” allo Zivarello, aveva affermato che “gli tocca andarci con la pistola …” (cfr., pag. 11).
Pacifico, inoltre, che la richiesta di denaro avanzata nei confronti della persona offesa non era assistita da un alcun lecito rapporto sottostante (il che, dunque, non consentiva in alcun modo di qualificare il fatto in termini di tentata violenza privata), men che meno che si trattasse un prestito anche perché, hanno spiegato, lo COGNOME era incapiente tanto che, proprio per le sue scellerate abitudini di vita, era stato sollevato dalla amministrazione del distributore (cfr., ivi).
Per altro verso, la Corte d’appello ha correttamente considerato il contenuto della deposizione dello COGNOME resa all’udienza del 25.5.2023 quando la persona offesa aveva ammesso che i COGNOME ed i COGNOME si rifornivano nel suo distributore e spesso e volentieri non pagavano finendo, così, per avere accumulato un debito tra i 7 ed i 10 mila euro; il PM, per altro verso, gli aveva contestato di aver riferito, nel corso delle indagini, che egli non pretendeva il pagamento perché “mi incutevano paura” e temeva che potessero danneggiare il distributore, erano noti a Latina ed aveva paura di ritorsioni.
Vero che, su domanda del difensore (cfr., pag. 12 della sentenza), lo COGNOME, riferendosi all’episodio di cui si discute e che egli inizialmente aveva sostenuto di non ricordare, aveva affermato che “non mi sentivo intimorito” (cfr., ivi).
Se non ché, la sentenza impugnata, nel contestare la considerazione della difesa sul fatto di non avere tenuto conto delle parole dello COGNOME (che è la stessa censura reiterata in questa sede), ha riportato integralmente il passo della sentenza di primo grado in cui tale valutazione – condivisa dai giudici di secondo grado – era stata invece puntualmente operata sino a considerare la deposizione dello COGNOME come volutamente reticente (a partire dal fatto che il teste e
persona offesa aveva dovuto essere accompagnato coattivamente in aula perché non si era presentato) ed aveva spiegato le ragioni per le quali – contrariamente a quanto affermato dal teste – non si poteva concludere nel senso che non si fosse sentito intimidito.
2.2.2 La sentenza impugnata ha motivato in termini non censurabili anche in ordine all’aggravante del “metodo mafioso” su cui, pure, la difesa aveva articolato un motivo di appello corredato di considerazioni simili a quelle reiterate in questa sede.
E’ assolutamente consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per cui la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione con le caratteristiche di cui all’art. 416-bis, cod. pen., essendo sufficiente il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice “tipica” dell’agire mafioso essendo perciò l’aggravante configurabile tanto con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, che nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo (cfr., Sez. 6, n. 41772 del 13.6.2017, Vicidomini; Sez. 5, n. 21530 dell’8.2.2018, COGNOME).
La circostanza aggravante del metodo mafioso è, pertanto, configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto (cfr., Sez. 2, n. 38094 del 5.6.2013, De Paola; Sez. 2, n. 16053 del 25.23.2015, Campanella; Sez. 1, n. 5881 del 4.11.2011, COGNOME; Sez. 2, n. 322 del 2.10.2013, COGNOME).
In altri termini, quel che rileva non è la effettiva e reale esistenza di un sodalizio riconducibile a quelli connotati dalle caratteristiche proprie di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero che il reo (o anche i suoi accoliti) ne faccia effettivamente parte, ma il fare ricorso a metodi propri e simili a quelli utilizzati nell’ambito di quelle consorterie criminali, connotate per l’appunto dalla forza intimidatrice promanante per l’appunto dalla consapevolezza, da parte delle vittime, che la condotta criminosa di cui sono destinatarie non è riconducibile esclusivamente all’autore materiale della condotta in quel momento da essi subita ma, ben diversamente, che costui possa contare sull’apporto di terzi in grado di sostenerne l’azione, di vendicarlo se occorre, comunque di intervenire in suo aiuto anche con metodi violenti; con l’effetto, così, di ridurre, per ciò solo, i margini di “resistenza” della persona offesa in tal modo indotta ad accondiscendere
“spontaneamente” ed a non reagire rispetto alle illegittime pretese avanzate nei suoi confronti.
Come è stato chiarito, è sufficiente, cioè, che l’esistenza di un sodalizio appaia sullo sfondo, perché evocato dall’agente, inducendo perciò la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze; ciò in quanto “la ratio della disposizione di cui all’art. 7 D. L. 152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata” (cfr., così, Sez. 6, n. 582 del 19.2.1998, Primasso).
La Corte d’appello si è conformata a tali principi avendo dato conto, in maniera convincente ed esaustiva, del contesto in cui si era collocato l’episodio (pagg. 13-14), ricostruendolo, in particolare, alla luce delle emergenze emerse nell’ambito dei due processi (Don’t touch e Reset) in cui era stata accertata una diffusa attività di estorsione posta in essere in danno di commercianti del luogo, che non denunciavano i fatti in quanto costretti a subire, inermi, le iniziative degli appartenenti al gruppo (cfr., pag. 15 della sentenza); non ha mancato di prendere in esame anche la distanza temporale della vicenda in esame rispetto alle condotte estorsive oggetto del processo Don’t touch e, tuttavia, ha bene e congruamente valorizzato il fatto che l’episodio era avvenuto proprio il giorno successivo agli arresti dei di lei figli di cui era stata data notizia sulla stampa tanto da essere stato oggetto anche della conversazione intercettata dagli investigatori (cfr., ivi, pag. 14); la COGNOME, infatti, dopo averne parlato con tale COGNOME da cui aveva appreso che la misura aveva riguardato anche i rifornimenti al distributore dello COGNOME, aveva rimproverato a quest’ultimo di avere denunciato i figli, circostanza in realtà non riscontrata essendo tuttavia emerso che, effettivamente, lo COGNOME era stato sentito dagli investigatori.
In definitiva, con argomentazione che non si presta a rilievi di legittimità, i giudici romani hanno potuto concludere nel senso del ricorso della richiamata aggravante in quanto “… lo COGNOME era stato vittima di condotte estorsive attuate dai Travali e da altri soggetti a essi collegati consistite in ripetute forniture d carburante ottenute dai componenti del gruppo senza il pagamento del relativo
corrispettivo sicché non poteva che percepire la minaccia come proveniente dallo stesso sodalizio criminale” (cfr., ivi, pag. 14).
2.3 Del tutto appagante, infine, e passando al terzo motivo del ricorso, è la motivazione con cui la Corte d’appello ha confermato la congruità della pena inflitta dal primo giudice (cfr., pagg. 16-17 della sentenza impugnata); a tal fine, infatti, ha puntualmente evocato la personalità dell’imputata, gravata da precedenti per reati contro il patrimonio ivi compresi fatti di rapina come di estorsione tentata e consumata, dovendosi comunque rilevare come quella di partenza – sia per il capo 17) che per il capo 32) – fosse state comunque parametrata in termini di gran lunga inferiori alla media edittale.
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non emergendo elemento alcuno di esclusione di profili di colpa.
La Di NOME va infine condannata alla rifusione delle spese sostenute, nel grado, dalle costituite parti civili liquidate, alla luce delle rispettive notule e del disposizioni tabellari vigenti, nella misura per ciascuna di esse indicata in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna, inoltre, l’imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Comune di Latina, in persona del Sindaco p.t., che liquida in complessivi euro 1.418,00 oltre accessori di legge, e RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME, in persona del legale rappresentante p.t., che liquida in complessivi euro 2.515,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 15.10.2024