Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 34941 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 34941 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di NOME NOME, nato a Conversano il DATA_NASCITA, contro la sentenza della Corte d’appello di Bari del 5.4.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di NOME COGNOME, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19.10.2021 il GUP del Tribunale di Bari, procedendo con rito abbreviato, aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di
tentata estorsione aggravata in concorso, contestatogli al capo 1) della rubrica e lo aveva pertanto condannato alla pena, così ridotta per la scelta del rito, di anni 4 di reclusione ed euro 1.600 di multa, oltre al pagamento delle speSe processuali; aveva applicato al NOME la pena accessoria conseguente all’entità di quella principale assolvendolo, inoltre, dai fatti di cui al capo 2) dell’imputazione, per insussistenza del fato;
la Corte d’appello di Bari, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata per il resto, ha ridotto la pena inflitta all’imputato rideterminandola nella misura di anni 2 e mesi 8 di reclusione ed euro 533,33 di multa e revocando, di conseguenza, la pena accessoria applicata dal primo giudice;
ricorre per cassazione NOME NOME a mezzo del difensore di fiducia che deduce:
3.1 contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo, nonché inosservanza o erronea applicazione della legge penale: rileva che la condanna del ricorrente è il frutto di un duplice errore in cui sono incorsi i giudici di merito s in punto di travisamento della prova che nell’applicazione della legge penale; osserva che, sotto il primo profilo, la Corte non ha considerato l’effettivo contenuto delle dichiarazioni del COGNOME da cui risulta che il ricorrente si era presentato due volte presso il cantiere dove il dichiarante non si era fatto negare, avendo fissato un appuntamento con il COGNOME con il quale si era effettivamente incontrato ed a cui aveva riferito di avere necessità di sottoporre la sua proposta ai titolari dell’azienda, in Caserta; richiama le caratteristiche proprie della desistenza sottolineando come, nel caso di specie, il COGNOME si fosse determinato a sporgere denuncia, al suo ritorno da Caserta, quando già il NOME aveva abbandonato il suo proposito;
3.2 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal provvedimento impugnato quanto alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.: segnala come la difesa, con l’atto di appello, avesse denunziato l’erroneo procedimento logico che aveva portato il primo giudice a ritenere la contestata aggravante esclusivamente in forza del contesto territoriale in cui era maturato l’episodio; riporta il passo della sentenza impugnata in cui la Corte aveva sottolineato la circostanza secondo cui Il NOME si era presentato in cantiere più volte in compagnia di persone sempre diverse; segnala che, tuttavia, la persona offesa non aveva riconosciuto il NOME ‘come soggetto pregiudicato né alcuno dei suoi accompagnatori essendosi determinato a denunziare l’episodio non perché intimidito ma perché già vittima in passato di
analoghe richieste estorsive; evidenzia la contraddittorietà della decisione alla luce dell’intervenuta assoluzione degli imputati per il fatto di cui al capo 2) della rubrica su cui la Corte ha motivato in maniera sostanzialmente apparente;
2.3 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal provvedimento impugnato in ordine al trattamento sanzionatorio: segnala come la Corte non abbia dato rilievo ed omesso di valutare la condotta dell’imputato successiva all’episodio e indicativa della positiva evoluzione della sua personalità; aggiunge che la Corte è rimasta silente in merito alla questione relativa alla entità dell’aumento operato per l’aggravante speciale di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.;
la Procura AVV_NOTAIO, nonostante la richiesta di trattazione orale del processo, ha trasmesso una requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso: quanto al primo motivo, sottolinea l’impossibilità di configurare la desistenza nei reati di danno a forma libera; quanto al secondo motivo, osserva che la Corte distrettuale ha dato conto degli elementi che, unitamente considerati, avevano consentito di concludere per la sussistenza del metodo mafioso; in merito al terzo motivo, richiama, quindi, il principio secondo cui il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non può fondarsi sulla scelta del rito abbreviato e, per altro verso, che l’aumento per l’aggravante mafiosa era stato operato nella misura minima;
4. la difesa del NOME ha trasmesso, nei termini, motivi nuovi deducendo:
4.1 violazione di legge con riferimento all’art. 416-bis.1 cod, pen. e vizio di motivazione – travisamento per omissione: rileva che la Corte d’appello ha operato una illegittima commistione tra gli elementi costitutivi del delitto di tentata estorsione e quelli, ben diversi ed ultronei, della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., contestata sotto il profilo dell’aver agit “con metodo mafioso”; rileva che l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale ha dato luogo ad una motivazione apparente, ben stigmatizzata dalla dichiarata intenzione dei giudici di secondo grado di valutare congiuntamente il primo ed il terzo motivo del gravame di merito finendo per dar luogo ad una motivazione unitaria in cui la condotta integrante i requisiti propri del delitto di estorsione stata nel contempo giudicata idonea ad integrare l’uso del metodo mafioso in forza di circostanze fattuali nessuna delle quali utilmente spendibile a sostegno di una siffatta diagnosi; segnala che la sentenza impugnata risulta viziata anche sotto il profilo del travisamento avendo omesso di tener conto dell’attestatà estraneità del ricorrente a compagini di natura mafiosa rispetto a NOME COGNOME, invece menzionato dall’COGNOME; ribadisce che la semplice contiguità territoriale o “contestualità ambientale” non è sufficiente a configurare l’aggravante del metodo
mafioso certamente non ricavabile dalle parole della persona offesa NOME COGNOME COGNOME quale aveva nell’immediatezza denunziato l’accaduto sostenendo di “avere il timore che si trattasse di una richiesta estorsiva, avendone riconosciuto gli estremi perché già ricevute in precedenza in Caserta” ma non avendo a cuna contezza della personalità del NOME e dei suoi eventuali rapporti con gruppi criminali del posto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, complessivamente, infondato.
Il ricorrente è stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, ed all’esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di tentata estorsione (in concorso) aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso, in danno di NOME COGNOME, direttore dei lavori e responsabile del cantiere della ditta RAGIONE_SOCIALE onde indurlo a versare la somma di euro 1.500 mensili a titolo di “guardiania”: la condotta, come contestata, si sarebbe sviluppata in più fasi: ai primi di aprile del 2014 il NOME si sarebbe presentato in cantiere parlando con uno degli operai, tale COGNOME COGNOME; il 6.5.2014, avrebbe incontrato ancora l’COGNOME proponendo una “guardiania in nero”; nello stesso pomeriggio, infine, avrebbe incontrato il COGNOME cui avrebbe fatto presente che “… io so qua, non voglio fare la camorra, non sto chiedendo la tangente, ma dovete mettere una persona di nostra fiducia che vi guarda il cantiere in modo tale che non avrete fastidi di nessun genere …”, affermando di essere “autorizzato” per tale servizio e presentandosi nuovamente il giorno 8 e in prossimità del 16 maggio, non trovando il COGNOME.
Il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità del NOME facendo leva sulle dichiarazioni del COGNOME ed evocando, anche, quelle del collaboratore NOME COGNOME.
Con l’atto di appello la difesa aveva contestato la sussistenza del fatto assumendo che la persona offesa non aveva percepito alcuna intimidazione; che, in secondo luogo, il ricorrente avrebbe volontariamente desistito dalla propria iniziativa ed avendo invocato, perciò, l’applicazione del disposto di cui al terzo comma dell’art. 56 cod. pen.; la difesa aveva inoltre insistito ‘sull’esclusione dell’aggravante del “metodo mafioso” e, da ultimo, sollecitato On trattamento sanzionatorio più mite.
La Corte d’appello ha replicato alle doglianze difensive in t in fatto e corretti in diritto. rmini puntuali
1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
E’ pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che, nei delitti di danno a forma libera – qual è quello di estorsione – la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il cd. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento (cfr., Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, COGNOME, Rv. 264226 01; Sez. 5, n. 18322 del 30/01/2017, De GLYPH Rossi, Rv. 269797 01; Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, COGNOME, Rv. 272677 01; Sez. 5 , GLYPH n. 17241 del 20/01/2020, P., Rv. 279170 – 01).
Nel caso di specie, i giudici di merito hanno accertato che il NOME si era più volte recato sul cantiere formulando la richiesta prima tramite un dipendente e, poi, direttamente al COGNOME il quale non aveva immediatamente accettato la proposta ma aveva temporeggiato con il pretesto di dover consultare i vertici dell’azienda.
Se per un verso è vero che nessun ulteriore contatto vi era stato tra il NOME e la persona offesa è pur vero che già in quel primo incontro il tentativo doveva ritenersi ormai “compiuto” e, pertanto, correttamente esclusa la ipotesi della desistenza.
2. Infondato è anche il secondo motivo.
La Corte d’appello ha fatto presente come non vi fosse contestazione circa la dinamica della condotta che, secondo i giudici di merito, “… integra senza dubbio alcuno un tentativo di estorsione perpetrata con la minaccia di un male ingiusto ed attuata con metodo mafioso” (cfr., pag. 5 della sentenza impugnata); ha spiegato che il NOME si era recato più volte preso il cantiere, chiedendo insistentemente del titolare, dichiarando le ragioni della visita nella offerta di un servizio di guardiania e chiarendo che si trattava di un servizio “in nero” quando il dipendente COGNOME gli aveva rappresentato che l’azienda non aveva bisogno di servizio di questo genere.
La Corte ha puntualmente sottolineato che il ricorrente aveva inoltre rassicurato il COGNOME sul fatto che egli non agiva per conto di gruppi malavitosi e non chiedeva una tangente osservando, nel contempo, che proprio tale rassicurazione (non necessaria) rendeva manifesta la realtà diversa dalla sua narrazione, avendo egli già provveduto, tramite il dipendente COGNOME, a rendere
edotto il COGNOME circa la effettiva portata dell’apparente offerta” d e “… aveva a oggetto non già una ordinaria attività di guardiania, bensì una guardiania a nero, sulla quale non aveva necessità di fornire ulteriori indicazioni …” perché il COGNOME era consapevole di cosa si trattava; era perciò chiaro il riferimer to alla illiceit della richiesta di cui non erano stati forniti gli estremi, la ditta, le condizioni era stato chiarito che “… dovete mettere una persona di nostra fiducia, che vi guarda il cantiere in modo tale che non avrete fastidi di alcun genere …” (cfr., ancora, ivi).
Sulla scorta di questa ricostruzione, la Corte d’appello ha non soltanto ritenuto sussistenti gli estremi della minaccia ma, anche, l’utilizzo del “metodo mafioso”; a tal fine ha dato rilievo ad una serie di circostanze fattuali congruamente apprezzate nella loro valenza dimostrativa, a partire da quella secondo cui il ricorrente si era presentato più volte sul cantiere con persone di volta in volta diverse e con mezzi sempre diversi dando perciò la sensazione della sua appartenenza ad un gruppo organizzato e rafforzando in tal modo la portata intimidatoria delle richieste; ma, anche, all’emblematico riferimento ad una persona di “nostra fiducia” (con espressione al plurale evocativa della riferibilità della richiesta ad un gruppo …) e, per altro verso, al fatto di agire in forza di un “autorizzazione” che in alcun modo il suo interlocutore poteva intendere come una autorizzazione amministrativa, trattandosi di un servizio di guardlania “in nero” ma al fatto che era stato autorizzato da chi esercitava sul territorio un potere criminale.
I giudici di merito hanno sottolineato che il COGNOME aveva denunciato l’episodio nella assoluta consapevolezza della natura della richiesta di cui era già stato vittima in passato a Caserta sottolineando che la stessa denuncia “… è il portato del timore di male ingiusto prospettato in caso di mancata adesione alla richiesta …” (cfr., ivi, pag. 6).
In tal modo, la sentenza impugnata è perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte.
È appena il caso, infatti, di ribadire che la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione con le caratteristiche di cui all’art. 416-bis, cod. pen., essendo sufficiente, ai fini della sua applicazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice “tipica” dell’agire mafioso essendo perciò l’aggravante configurabile tanto con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, che nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo (cfr., Sez. 6, n. 41772 del 13.6.2017, COGNOME; Sez. 5, n. 21530 dell’8.2.2018, COGNOME).
La circostanza aggravante del metodo mafioso è, pertanto, configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto (cfr., Sez. 2, n. 38094 del 5.6.2013, COGNOME; Sez. 28 2, n. 16053 del 25.23.2015, COGNOME; Sez. 1, n. 5881 del 4.11.2011, Giampà; Sez. 2, n. 322 del 2.10.2013, COGNOME).
In altri termini, quel che rileva non è la effettiva e reale esistenza di un sodalizio riconducibile a quelli connotati dalle caratteristiche proprie di cui all’art 416-bis cod. pen., ovvero che il reo (o anche i suoi accoliti) ne faccia effettivamente parte, ma il fare ricorso a metodi propri e simili a quelli utilizzat nell’ambito di quelle consorterie criminali, connotate per l’appunto dalla forza intimidatrice promanante per l’appunto dalla consapevolezza, da parte delle vittime, che la condotta criminosa di cui sono destinatarie non è riconducibile esclusivamente all’autore materiale della condotta in quel momento da essi subita ma, ben diversamente, che costui possa contare sull’apporto di terzi in grado di sostenerne l’azione, di vendicarlo se occorre, comunque di intervenire in suo aiuto anche con metodi violenti; con l’effetto, così, di ridurre, per ciò solo, i margini di “resistenza” della persona offesa in tal modo indotta ad accondiscendere “spontaneamente” ed a non reagire rispetto alle illegittime pretese avanzate nei suoi confronti.
Come è stato chiarito, è sufficiente, cioè, che l’esistenza di un sodalizio appaia sullo sfondo, perché evocato dall’agente, inducendo perciò la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze; ciò in quanto “la ratio della disposizione di cui all’art. 7 D.L. 152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata” (cfr., così, Sez. 6, n. 582 del 19.2.1998, Primasso).
Si è infine chiarito che è configurabile la circostanza aggravante del metodo mafioso anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente”, cioè
privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiynto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia ,pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia Sez. 2, n. 51324 del 18/10/2023, COGNOME, Rv. 285669 01; Sez. 3 , n. 44298 del 18/06/2019, COGNOME, Rv. 277182 – 01).
La sentenza impugnata si è conformata a tali principi.
3 Il terzo motivo è a sua volta manifestamente infondato.
Quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, infatti, è vero che la Corte d’appello si è limitata a segnalare l’assenza di elementi positivamente valutabili a tal fine evidenziando che non erano ravvisabili comportamenti processuali apprezzabili ovvero segnali di resipiscenza; è pur vero che l’appello he era stato articolato sul punto (cfr., il punto 3 dell’atto di gravame) era assolutamente generico in quanto, a fronte delle considerazioni spese dal primo giudice (cfr., pagg. 35-36 della sentenza del GUP), la difesa si era limitata ad invocare “la condotta posta in essere dall’imputato” e “l’età dello stesso” (cfr., ancora, dall’atto di appello).
Tanto premesso, non è allora inutile ribadire che “le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena” (cfr., Cass. Pen., 2, 14.3.2017 n. 14.307, COGNOME; Cass. Pen., 2, 5.6.2014 n. 30.228, COGNOME); in definitiva, quindi, “la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio” (cfr., in tal senso; Sez. 3, n. 9836 del 17.11.2015).
Il riferimento alla assenza di manifestazioni di resipiscenza va allora letto in quest’ottica: se per un verso l’imputato non può essere penalizzato, con il diniego delle circostanze attenuanti generiche, a causa della legittima scelta di non ammettere l’addebito e, quindi, di difendersi anche in maniera decisa e persino puntigliosa dalle accuse che gli vengano mosse; per altro verso, come si è chiarito,
è tuttavia del tutto legittima la decisione che da questa condotta processuale ritenga di non poter ricavare alcun elemento favorevole per la concessione delle circostanze attenuanti generiche (cfr., sul punto, Sez. 2, n. 28288 del 21.4.2017, COGNOME).
Né, sul piano della condotta processuale, era possibile valor zzare la scelta operata dall’imputato per la definizione del processo per il rito abbreviato atteso che quest’ultima implica già, “ex lege”, l’applicazione di una predeterminata riduzione della pena dovendosi escludere che la scelta processuale così operata possa comportare due distinte determinazioni favorevoli all’imputato (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 24312 del 25.3.2014, Diana).
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 31.5.2024