Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9475 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9475 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli 1’08/04/1989, contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli del 30/05/2024,
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa delle costituite parti civili, che ha concluso associandosi alle conclusioni dei PG e per la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado;
uditi gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME in difesa del COGNOME, che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 06/11/2023 il GIP del Tribunale di Napoli, procedendo con rito abbreviato, aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di usura pluriaggravata, anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., ragion per cui, con l’aumento per la continuazione e la riduzione per la scelta del rito, l’aveva condannato alla pena finale di anni 4 e mesi 8 di reclusione ed euro 8.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare; il primo giudice aveva inoltre applicato al COGNOME la pena accessoria conseguente all’entità di quella principale e l’aveva infine condannato al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili in cui favore aveva liquidato provvisionali immediatamente esecutive;
la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata per il resto, ha ridotto la pena inflitta al COGNOME rideterminandola in anni 3 e mesi 8 di reclusione ed euro 8.000 di multa; nel confermare le statuizioni civili ha quindi condannato l’imputato alla rifusione delle relative spese processuali;
ricorre per cassazione NOME COGNOME con due ricorsi:
3.1 l’Avv. NOME COGNOME con un primo ricorso, deduce:
3.1.1 violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 644, comma 5, n. 3, cod. pen. per avere la Corte d’appello confuso lo stato di difficoltà economica della persona offesa con lo stato di bisogno quale presupposto della ipotesi aggravata: rileva, infatti, che i giudici di secondo grado non hanno affrontato la questione, devoluta con l’atto d’appello, del discrimine tra lo stato di difficoltà evocato dal terzo comma dell’art. 644 cod. pen., e lo stato di bisogno di cui al successivo comma 5, segnalando che la sentenza impugnata si è limitata ad evidenziare le condizioni cui il prestito era stato erogato di per sé non significative di uno stato di bisogno;
3.1.2 violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen. per avere la Corte d’appello travisato il contenuto della dichiarazione resa dal COGNOME: rileva che i giudici di secondo grado hanno confermato l’aggravante mafiosa, declinata sotto il profilo del metodo, sulla scorta di quanto riferito dal COGNOME a proposito di quanto riportatogli dal COGNOME il quale aveva affermato di non poter perdere il denaro prestato perché, almeno in parte, riconducibile ad uno zio appartenente alla camorra; aggiunge che, in ogni caso, il COGNOME non aveva mai riferito di minacce ricevute dal COGNOME essendosi limitato
a sottolineare come costui fosse molto insistente nelle richieste di restituzione del denaro; osserva che il riferimento operato al fantomatico zio camorrista era in ogni caso avvenuto nel corso di un dialogo intrattenuto dal COGNOME con una terza persona e non già con il COGNOME;
3.2 l’Avv. NOME COGNOME con un secondo ricorso, deduce:
3.2.1 nullità della sentenza per carenza e/o contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza del delitto di usura: rileva che la Corte d’appello ha fondato la responsabilità del ricorrente sulle dichiarazioni della persona offesa e della di lui consorte ed ha ricostruito l’iter investigativo valutando soltanto alcuni elementi ai fini della verifica della c.d. usura “in concreto” omettendo, tuttavia, di considerare la complessità dei rapporti intercorsi tra le parti; richiama, a tal fine, l’obbligo del giudice di merito di sottoporre dichiarazioni della persona offesa ad uno specifico vaglio di attendibilità e richiama, a tal proposito, il contenuto della informativa che aveva riportato le dichiarazioni rese dal COGNOME in data 12 dicembre contraddette dal tenore dei messaggi che costui pressoché quotidianamente inviata al COGNOME; riporta, inoltre, gli appunti acquisiti dagli investigatori sottolineandone la inidoneità a dimostrare l’esistenza di pattuizioni aventi ad oggetto interessi usurari e sottolinea come, dalla lettura degli atti, non era nemmeno possibile evincere quale fosse l’attività svolta dal COGNOME;
3.2.2 nullità della sentenza per assoluta carenza di motivazione sull’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.: richiama le dichiarazioni del COGNOME su cui i giudici di merito hanno fondato la diagnosi circa la sussistenza dei presupposti dell’aggravante sotto il profilo del metodo, invero contraddette dal tenore dei messaggi costantemente intercorsi tra i due e, comunque, in assenza di ogni riscontro circa contatti tra il ricorrente e gli ambienti della criminali organizzata; richiama la giurisprudenza di questa Corte circa l’elemento soggettivo che deve sorreggere l’aggravante;
3.2.3 nullità della sentenza per assoluta carenza e/o contraddittorietà della motivazione in relazione alle aggravanti di cui ai commi 1 e 5 nn. 3 e 4 dell’art. 644 cod. pen.: rileva che il ricorso a prestiti di piccolo importo unitamente al fatto che l’attività commerciale era intestata alla madre del ricorrente, doveva portare ad escludere le contestate aggravanti, il ricorso dei cui presupposti era ancora una volta smentito dai messaggi intercorsi tra il COGNOME e l’odierno ricorrente da cui non emerge mai una situazione di difficoltà economica e tantomeno uno stato di bisogno;
3.2.4 nullità della sentenza per assoluta carenza di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche da valutare almeno equivalenti alle contestate aggravanti: rileva che la Corte non ha considerato lo stato di incensuratezza dell’imputato ed il suo corretto comportamento processuale caratterizzato dalla rinuncia al motivo assolutorio;
3.2.5 nullità della sentenza per assoluta carenza e/o contraddittorietà della motivazione – travisamento del fatto, in relazione al motivo di impugnazione articolato con l’atto d’appello laddove era stato evidenziato l’errore in cui era incorso il primo giudice nell’affermare che il ricorrente avrebbe reso confessione in merito ai fatti di causa;
Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure non consentite o, comunque, manifestamente infondate.
NOME COGNOME era stato tratto a giudizio, e riconosciuto responsabile, in primo grado, del delitto di usura pluriaggravata (per essere stato il fatto commesso in danno di una persona in stato di bisogno e che svolge attività imprenditoriale oltre che per aver utilizzato un metodo tipicamente “mafioso”) in quanto avrebbe prestato a NOME COGNOME la somma di euro 600 facendosi promettere e dare, in corrispettivo, ed a titolo di interessi, la somma di euro 150 a settimana (con un interesse pari al 25% settimanale e, perciò, superiore al 100% mensile ed al 1.200% annuo) sino ad estinzione del debito; avrebbe inoltre prestato al predetto COGNOME, alle medesime condizioni, ulteriori somme finalizzate ad estinguere il debito originario, incrementato degli interessi.
Come risulta dagli atti e, comunque, dato atto nella sentenza impugnata, all’udienza del 30/05/2024 il COGNOME, tramite i difensori “dichiarava di rinunciare al motivo di appello sulla responsabilità di cui al punto 1) dell’atto di impugnazione” (cfr., pag. 1 della sentenza impugnata).
La Corte d’appello ha ciò non di meno ripercorso la vicenda, originata dalla denuncia del COGNOME, in tal senso indotto dalla moglie che aveva allertato il 112 avendo rinvenuto in casa una pistola che il marito aveva acquistato per togliersi la vita; sentito dagli operanti, il COGNOME aveva allora riferito di essersi rivolt COGNOME a causa delle difficoltà, derivanti dalla pandemia, occorsegli nella conduzione della sua attività di rivendita di elettrodomestici in Chiaiano che,
infatti, aveva dovuto chiudere per poi aprire un’attività di rivendita di artico d’arredamento intestata alla madre.
Il COGNOME aveva confermato le condizioni del prestito imposte dal COGNOME (come descritte nel capo di imputazione) precisando di aver ricevuto, a più riprese, l’importo complessivo di 9.000 euro a fronte del quale ne avrebbe dovuto restituire 22.000.
I giudici di merito hanno inoltre spiegato che le dichiarazioni della persona offesa aveva trovato riscontro nelle circostanze dell’arresto in flagranza del Pi rozzi, negli esiti delle perquisizioni e dei sequestri eseguiti presso l’attività e l’abitazio dell’odierno ricorrente oltre che negli screen shot dei messaggi ws intercorsi tra le parti e delle risultanze delle indagini sulla composizione della famiglia dell’imputato.
Il primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME non è consentito.
Come premesso, infatti, il COGNOME, comunque presente in aula, per il tramite dei propri difensori aveva rinunciato al motivo sulla responsabilità di cui al punto 1) dell’atto d’appello le cui considerazioni – come è agevole verificare dalla sua lettura – sono alla base del primo motivo del ricorso attenendo, in sostanza, alla ritenuta inadeguatezza degli elementi di prova acquisiti, alla luce della complessità delle relazioni di natura economica e del carattere amicale e del rapporto tra il COGNOME e l’imputato, testimoniato dal tenore dei messaggi pressoché quotidianamente scambiati tra i due.
Ed GLYPH è GLYPH allora GLYPH il GLYPH caso GLYPH di GLYPH ribadire GLYPH che GLYPH la rinuncia parziale ai motivi d’appello determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, onde è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si propongono censure attinenti ai motivi d’appello rinunciati e, nel contempo, non possono essere rilevate d’ufficio le questioni relative ai medesimi motivi (cfr., Sez. 2, n. 47698 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 278006 – 01; Sez. 5, n. 40278 del 06/04/2016, COGNOME, Rv. 268198 – 01).
Il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME come il terzo motivo del ricorso a firma dell’Avv. COGNOME sono manifestamente infondati.
Nel primo caso, infatti, la difesa denunzia l’errore in cui sarebbe incorsa la la Corte d’appello nel confondere lo “stato di bisogno” – elemento costitutivo dell’aggravante di cui al n. 3) del comma quinto dell’art. 644 cod. pen. – con le “condizioni di difficoltà economica e finanziaria” di cui al comma terzo dello stesso art. 644 cod. peri,.
Nel secondo ricorso si deduce vizio della motivazione in ordine alle aggravanti di cui ai nn. 3) e 4) del comma quinto dell’art. 644 cod. pen. la cui sussistenza sarebbe in realtà contraddetta dall’esiguità delle somme prese in prestito, dalla cordialità dei rapporti intercorrenti tra il COGNOME ed il COGNOME dalla circostanza secondo cui l’attività imprenditoriale in cui sarebbe stato impegnato quest’ultimo era in realtà intestata alla madre.
Quanto al primo profilo (oggetto del terzo motivo d’appello, non oggetto di rinuncia), osserva il collegio la condizione di difficoltà economica e finanziaria è elemento costitutivo della “usura in concreto” di cui al comma quarto dell’art. 644 cod. pen. laddove, nel caso di specie, si è invece in presenza di una usura “presunta” (per superamento del taso soglia) perfettamente riconducibile al paradigma delineato nei commi primo e terzo dell’art. 644 cod. pen. (cfr., per la usura “in concreto”, Sez. 2, n. 19134 del 17/03/2022, COGNOME, Rv. 283187 – 02; Sez. 2, n. 26214 del 29/03/2017, COGNOME Rv. 269962 – 01, in cui la Corte ha spiegato che per l’accertamento della “condizione di difficoltà economica” della vittima deve aversi riguardo alla carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a fronte di una condizione patrimoniale di base nel complesso sana, laddove, invece, la “condizione di difficoltà finanziaria” investe più in generale l’insieme delle attivit patrimoniali del soggetto passivo, ed è caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni).
Tanto premesso, la Corte d’appello ha puntualmente motivato sul ricorso di uno vero e proprio stato di bisogno che, con motivazione immune da aspetti di manifesta illogicità o contraddittorietà, ha ritenuto comprovato sia dall’altissimo tasso di interesse che il COGNOME si era risolto ad corrispondere che, per altro verso, dal profondo stato di prostrazione e sconforto in cui egli era caduto proprio in conseguenza del vortice di prestiti in cui si era ritrovato coinvolto, tanto da arrivare ad acquistare una pistola ed a programmare il suicidio, sventato dall’intervento della moglie che lo aveva finaimente convinto a rivolgersi agli inquirenti (cfr., pag. 5 della sentenza).
In tal modo, peraltro, i giudici partenopei hanno applicato il principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui lo stato di bisogno della persona offesa del delitto di usura può essere provato anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in quello stato possa contrarre il prestito a condizioni tanto inique e onerose (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 51670 del 23/11/2023, COGNOME, Rv. 285670 – 01; conf., Sez. 2, n. 21993 del 03/03/2017, Surgo, Rv. 270064 – 01; Sez. 2, n. 12791 del 13/12/2012,
dep. 2013, COGNOME, Rv. 255357 – 01; Sez. 2, n. 20868 del 30/04/2009, Acri, Rv. 244884 – 01).
In maniera altrettanto puntuale la Corte d’appello (cfr., ivi, ancora, pag. 5) ha motivato in ordine all’aggravante di cui al n. 4 del comma quinto dell’art. 644 cod. pen. dovendosi, anche in tal caso, ribadire l’orientamento secondo cui la circostanza aggravante di cui all’art. 644, comma quinto, n. 4, cod. pen. è configurabile per il solo fatto che la persona offesa eserciti una delle attività protette, a nulla rilevando che il finanziamento corrisposto dietro la promessa o la dazione di interessi usurari non abbia alcuna attinenza con le suddette attività (cfr., in tal senso, Sez. 2, Sentenza n. 31803 del 04/07/2018, RAGIONE_SOCIALE ed altri, Rv. 273242 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 25328 del 22/03/2011, COGNOME, Rv. 250759 – 01).
I giudici di merito hanno peraltro congruamente ed esaustivamente motivato sulla conduzione, da parte del COGNOME, dell’attività imprenditoriale di rivendita di mobili solo formalmente intestata alla madre e sul fatto che, almeno in parte, a tale attività fossero destinate le somme di denaro ricevute in prestito; non hanno inoltre nemmeno omesso di richiamare gli elementi di prova che avevano portato a concludere nel senso che tale circostanza era indubbiamente conosciuta dal COGNOME.
Il secondo motivo dei due ricorsi è, a sua volta, manifestamente infondato.
Il ricorso a firma dell’Avv. COGNOME denuncia un vero e proprio “travisamento” della prova, con riferimento alle dichiarazioni del COGNOME il quale non avrebbe mai riferito di minacce rivoltegli dal COGNOME limitandosi a sottolineare come costui fosse molto insistente nelle richieste di restituzione del denaro e, per altro verso, osservando che il riferimento operato al fantomatico zio camorrista era intervenuto nel corso di una conversazione telefonica intrattenuta dal COGNOME con una terza persona.
Il ricorso a firma dell’Avv. COGNOME lamenta, invero genericamente, vizio di motivazione per la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal COGNOME con il tenore dei messaggi intercorsi tra i due e che, in ogni caso, sarebbero prive di ogni riscontro in punto di contatti tra il ricorrente e gli ambienti della criminal organizzata e, in particolare, con l’attuale marito della madre, ormai da anni detenuto.
Quanto al primo aspetto: è vero che tra i vizi riconducibili al novero di quelli denunziabili ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. vi è quello del “travisamento” che, come è noto, è ravvisabile nel caso di contraddittorietà della
motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame, ovvero dall’errore cosiddetto revocatorio, che cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, COGNOME, Rv. 250168; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, COGNOME, Rv. 272406; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, COGNOME, Rv. 276567).
La giurisprudenza ha chiarito che il controllo del giudice di legittimità si può estendere alla omessa considerazione o al travisamento della prova, purché, però, si tratti di una prova decisiva; il vizio che è deducibile in sede di legittimità rientra, pertanto, in detto controllo soltanto quando si sia in presenza dell’errore per l’appunto “revocatorio” e che la contraddittorietà con il testo della sentenza impugnata non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione sulle premesse, restando estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per “brani” né fuori dal contesto in cui è inserito; ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capaci dimostrativa e che, pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (cfr., tra le tante, Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011, S., Rv. 252349; Sez. 5, Sentenza n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540 in cui la Corte,; in tal senso, anche Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Fatta questa premessa, è allora agevole rendersi conto che il denunziato “travisamento” si risolve, in realtà, nella contestazione dell’esito della lettura che delle prove – indiscutibilmente valutate dai giudici di merito – è stata operata dal giudice di merito ed è stata trasfusa nelle sentenze di primo e di secondo grado, sorretta quest’ultima da una motivazione che non presenta profili di criticità tali da renderla censurabile in questa sede.
È inoltre assolutamente consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per cui la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone l’esistenza di un’associazione con le caratteristiche di cui all’art. 416bis, cod. pen., essendo sufficiente, ai fini della sua applicazione, il ricorso a
modalità della condotta che evochino la forza ìntimidatrice “tipica” dell’agire mafioso essendo perciò l’aggravante configurabile tanto con riferimento ai reatifine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, che nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo (cfr., ad esempio, Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, COGNOME, Rv. 285018 – 02; Sez. 6, n. 41772 del 13.6.2017, COGNOME; Sez. 5, n. 21530 dell’8.2.2018, COGNOME).
L’aggravante è infatti configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma che ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere di quelli descritti dall’art. 416-bis cod. pen. (cfr., Sez. 2, n. 38094 del 5.6.2013, De COGNOME; Sez. 2, n. 16053 del 25.23.2015, Campanella; Sez. 1, n. 5881 del 4.11.2011, COGNOME; Sez. 2, n. 322 del 2.10.2013, COGNOME).
Quel che rileva non è la effettiva e reale esistenza di un sodalizio riconducibile a quelli connotati dalle caratteristiche proprie di cui all’art. 416-b cod. pen., ovvero che l’agente ne faccia effettivamente parte, ma il fare ricorso a metodi propri e simili a quelli utilizzati nell’ambito di quelle consorterie criminal connotate dalla forza intimidatrice promanante per l’appunto dalla consapevolezza, da parte delle vittime, che la condotta criminosa di cui sono destinatarie non è riconducibile esclusivamente all’autore materiale della condotta in quel momento da essi subita potendo costui contare sull’apporto di terzi in grado di sostenerne l’azione, di vendicarlo se occorre, comunque di intervenire in suo aiuto anche con metodi violenti; con l’effetto, così, di ridurre, per ciò solo, i margini di “resistenza” della persona offesa in tal modo indotta ad accondiscendere “spontaneamente” ed a non reagire rispetto alle illegittime pretese avanzate nei suoi confronti.
Come è stato chiarito, è sufficiente che l’esistenza di un sodalizio appaia sullo sfondo, perché evocato dall’agente, inducendo perciò la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze; ciò in quanto “la ratio della disposizione di cui all’art. 7 D.L. 152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o
quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata” (cfr., così, Sez. 6, n. 582 del 19.2.1998, Primasso).
Si è affermato, inoltre, che, ai fini della configurabilità dell’aggravante del “metodo mafioso”, di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., è sufficiente, in un territori in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica, che il soggetto agente si riferisca implicitamente al potere criminale della consorteria, in quanto tale potere è di per sé noto alla collettività (cfr., Sez. 2, n. 34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv. 284950 – 01).
Tanto premesso, osserva il collegio che la Corte d’appello ha reso, sul punto, una motivazione del tutto congrua in fatto ed assolutamente corretta ni diritto; ha infatti motivato sulla sussistenza dell’aggravante del “metodo” spiegando (cfr., pagg. 6-7 della sentenza), che il COGNOME ebbe cura di far pervenire al COGNOME la circostanza della provenienza del denaro da esponenti della criminalità organizzata e, tal modo, pur “… a fronte di un apparente approccio amicale (come si evince dagli SMS intercorsi tra i due) finendo per precipitare la persona offesa in una condizione di totale disperazione tanto, come già accennato, ad acquistare un’arma da fuoco per togliersi la vita (cfr., Sez. 2, Sentenza n. 6683 del 12/01/2023, Bloise, Rv. 284392 – 01, in cui la Corte ha avuto modo di affermare che la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso non è esclusa dal fatto che la vittima delle minacce abbia assunto un atteggiamento “dialettico” rispetto alle ingiuste richieste, ciò non determinando il venir meno della portata intimidatoria delle stesse).
È vero, inoltre, che l’accenno fatto dal COGNOME al fatto di non poter perdere il denaro rischiando altrimenti di avere egli stesso problemi con lo zio, che era un personaggio di spicco della camorra di Secondigliano, era intervenuto nel corso di una telefonata del COGNOME con una terza persona e fu ascoltata dal COGNOME, presente; e, tuttavia, come emerge chiaramente dalla lettura del verbale allegato al ricorso, la persona offesa aveva fatto presente che il COGNOME aveva forse finto di telefonare ad altri proprio per fargli ascoltare quel “messaggio” che egli aveva puntualmente colto avendo inoltre precisato che l’imputato “… era molto attento a non scendere a tali atteggiamenti ma mi faceva comprendere, in varie situazioni, che se non avesse pagato avrei potuto avere problemi”.
Questa Corte, in casi analoghi a quello che ci occupa, ovvero in tema di usura, ha avuto modo di affermare che la circostanza aggravante del metodo mafioso, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203, è configurabile proprio nel caso in cui l’indagato utilizzi come tecnica di intimidazione il riferimento alla provenienza dei capitali da persone legate alla criminalità organizzata (cfr., così, Sez. 1, n. 14193 del 30/03/2010, COGNOME,
Rv. 246841 – 01; conf., tra le non massimate, Sez. 2, n. 13908 del 22.12.2021, COGNOME; Sez. 2, n. 31803 del 4.7.2018, Cannatà; Sez. 2. N. 18458 dell’11.1.2017, COGNOME; Sez. 2 n. 26759 del 9.3.2015, COGNOME).
Il quarto motivo del ricorso dell’Avv. COGNOME è manifestamente infondato: la Corte d’appello ha motivato in ordine al diniego delle sollecitate circostanze attenuanti generiche in maniera del tutto appagante, facendo riferimento alla oggettiva gravità dei fatti; è allora appena il caso di ribadire principio secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli a ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione; n consegue che la decisione può essere giustificata anche con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis cod. pen., intervenuta con il DL 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (cfr., Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01; conf., Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, COGNOME, Rv. 281590; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 260610).
Si è infine chiarito che la rinuncia ai motivi d’appello non costituisce di per sé, anche per via della reintroduzione del cd. patteggiamento in appello, ragione sufficiente per il riconoscimento all’imputato delle circostanze attenuanti generiche, potendo, al più, essere valutata in rapporto alla condotta successiva al reato di cui all’art. 133, comma secondo, n. 3, cod. pen., come espressione di una ridotta capacità a delinquere, sempreché non emergano elementi di segno contrario (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 35534 del 06/07/2021, COGNOME, Rv. 281943 – 01).
Il quinto motivo del ricorso dell’Avv. COGNOME infine, è aspecifico in quanto non spiega quale sia l’effettiva incidenza dell’errore in cui sarebbe caduta la Corte d’appello sulla decisione finale.
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, in difetto di condizioni per l’esonero.
Il COGNOME va infine condannato alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel grado, liquidate come in dispositivo alla luce della notula depositata e delle tariffe vigenti e tenuto conto della comune difesa di più parti con posizioni analoghe.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili COGNOME NOME e Associazione “RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 4.500,00, oltre accessori di legge. in
Così deciso in Roma, il 21/01/2025
Il Consigliere estensore la Presidente