Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 1805 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 1805 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 19/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a COGNOME il 15/10/1972
avverso l’ordinanza del 26/07/2024 del TRIBUNALE di ROMA, Sez. del riesame udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udirtp le conclusioni del Sostituto Proc. Gen. NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso’ udito il difensore di NOME COGNOME l’avvocato NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
i! Tribunale di Roma, sezione del riesame, con ordinanza del 26 luglio 2024 confermava la misura della custodia cautelare in carcere disposta dal G.I.P. del Tribunale di Roma in data 5 luglio 2024 nei confronti di NOME COGNOME, indagato, in concorso con altri, per il delitto di tentata estorsione, aggravata dal metodo mafioso, commesso in danno della persona offesa NOME COGNOME
Avverso il suddetto provvedimento ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore, formulando due distinti motivi per i quali chiede l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato.
2.1. Con il primo motivo eccepisce ai sensi dell’articolo 606, comma 1 lett. B) e lett. E) cod. proc. pen. la violazione e/o erronea applicazione degli articoli 110, 629, 416-bis.1 cod. pen., ed anche degli artt. 63, 187 e 192 cod. proc. pen., nonché il vizio della motivazione per manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa. In particolare, evidenzia che dagli atti processuali risulterebbe l’assenza in capo al Gagliardo del dolo della fattispecie estorsiva, come si può evincere chiaramente dai contenuti dell’intercettazione della conversazione con NOME COGNOME del 28 luglio 2023, in cui la richiesta di denaro per favorire la liberazione dell’immobile acquistato dalla persona offesa non assumeva affatto un carattere perentorio e tantomeno minaccioso. Analogamente con riguardo all’aggravante del metodo mafioso, emergerebbe, altresì, in modo evidente la mancanza di «quella coartazione ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti», che la difesa ritiene essere richiesto dalla giurisprudenza di legittimità in termini oggettivi.
2.2. Con il secondo motivo lamenta ai sensi dell’articolo 606, comma 1 lett. C) e lett. E) cod. proc. pen. la violazione e/o erronea applicazione degli articoli 273, 274 e 275 cod. proc. pen., ed anche degli artt. 63, 187 e 192 cod. proc. pen., nonché il vizio della motivazione per manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa. In particolare, deduce che il ricorrente aveva reciso ogni rapporto con l’organizzazione mafiosa di cui faceva parte al momento del suo arresto, nel 2006, e che aveva contribuito a sgominarla, e, pertanto, non si comprende in che modo lo stesso avrebbe potuto reiterare determinati reati o intimidire il denunciante per farlo ritrattare avvalendosi del metodo mafioso, connotato ormai del tutto estraneo alle condotte del COGNOME, senza, peraltro, tener conto della circostanza che il concorrente nel reato NOME COGNOME detto NOME, non ha mai riportato condanne per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ad avviso della difesa appare, quindi, illogico, irragionevole e immotivato, il giudizio espresso sulla permanenza delle esigenze cautelari che il legislatore prevede solo in presenza dei requisiti della concretezza e dell’attualità del pericolo di reiterazione, che nel caso di specie non sussistono data l’occasionalità del coinvolgimento di NOME COGNOME nei fatti per cui si procede e la mancanza di condotte che oggettivamente possono qualificarsi come aggravate dal metodo mafioso.
Quanto, infine, al pericolo di inquinamento probatorio si deduce che il COGNOME ha ammesso, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, la materialità dei fatti contestati per cui il rischio prospettato dai giudici della cautela non sussisterebbe in radice.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile perché proposto per motivi non consentiti dalla legge e comunque manifestamente infondati.
2. Il ricorso deduce, sotto i due diversi profili della violazione di legge e del vizio d motivazione, l’insussistenza del presupposto della gravità indiziaria, in particolare con riguardo all’elemento soggettivo del dolo della fattispecie di estorsione, nonchè dell’aggravante del metodo mafioso. Trattasi di eccezioni inammissibili perché volte sostanzialmente ad ottenere dalla Suprema Corte una rivalutazione degli elementi di prova utilizzati dal giudice cautelare. Giova, infatti, ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n.11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828-01) hanno già avuto modo di chiarire che «in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità ed ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie». In motivazione, la Suprema Corte, dopo aver premesso che la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo, ha posto in evidenza che la motivazione della decisione del Tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza. Tale orientamento, dal quale l’odierno Collegio non intende discostarsi, ha trovato conforto anche in pronunce più recenti di questa Corte Suprema (ex ceteris: Sez.2, n.27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv.276976-01; Sez. 4, n.26992 del 29/05/2013, COGNOME, Rv.255460-01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ne consegue che «L’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. La Suprema Corte ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dat probatori, onde sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito» (così Sez. F, n.47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv.261400-01; Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, COGNOME, Rv.248698-01).
2.1. Orbene, nel caso in esame, l’ordinanza impugnata risulta aver adeguatamente analizzato tutti gli elementi indiziari, averli ricondotti ad unità attesa la l concordanza e, con motivazione assolutamente logica e coerente, ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico del ricorrente; in particolare, ha richiamato gli esiti delle indagini, evidenziando (soprattutto da pag.4 a pag.12) il poderoso compendio probatorio, comprensivo di intercettazioni telefoniche, dell’acquisizione di tabulati telefonici e di videoriprese, oltre al contenuto delle puntuali dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME che hanno trovato conferma anche nelle parziali ammissioni ad opera dello stesso COGNOME.
La ricostruzione indiziaria compiuta dai giudici del Tribunale del riesame, perciò, non risulta affetta da alcuna violazione di legge, né emergono vizi motivazionali di sorta.
Tale conclusione vale anche con riferimento all’affermata sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, su cui l’ordinanza ha motivato approfonditamente (si vedano pagg. 12,13,14), evidenziando, in particolare, che l’intera vicenda aveva come protagonista NOME COGNOME, detto NOME, appartenente al clan della famiglia COGNOME, il cui spessore criminale era ben noto nel territorio di Latina per i numerosi e gravissimi procedimenti penali che hanno coinvolto il predetto sodalizio criminoso. Alcuna rilevanza può assumere il fatto che NOME COGNOME non abbia riportato condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso; giova ricordare sul punto, che la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (si veda tra le tante Sez. 2, n.39424 del 9/09/2019, COGNOME, Rv.277222-01; conf. Sez. 5, n.14867 del 26/01/2021, COGNOME, Rv.281027-01) ha affermato il principio secondo cui «Ricorre la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., quando l’azione incriminata,
posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile l’aggravante nella minaccia rivolta all’avente titolo a rinunciare all’assegnazione di un’abitazione popolare, attuata prospettando che essa serviva alla figlia di un esponente apicale di un sodalizio mafioso)». In altri termini ciò che rileva non è il requisito formale dell’appartenenza di qualcuno dei concorrenti nel reato all’associazione di stampo mafioso, certificata dalla presenza di sentenze di condanne ex art. 416-bis cod. pen., ma la condizione di assoggettamento che si procura alla vittima prospettandogli la contiguità degli autori delle condotte illecite con notori ed efferati sodalizi criminosi, circostanza riscontrata senza dubbio nel caso di specie come risulta dalla denuncia sporta il 13 ottobre 2023 dalla persona offesa e dalle sue dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali.
2.2. Quanto, poi, alle deduzioni circa la sussistenza delle concrete esigenze cautelari, giova ricordare che la Suprema Corte, in più occasioni, ha affermato il principio secondo cui: «In tema di misure coercitive, l’attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l’attualità e la concretezza delle condotte criminose, sicché il pericolo di reiterazione di cui all’art. 274, comma 1, lett. C) cod. proc. pen. può essere legittimamente desunto dalle modalità delle condotte contestate, anche se risalenti nel tempo» (così Sez.2, n.38299 del 13/06/2023, Rv.285217-01; conf. tra le altre Sez.2, n.950, del 23/02/2016, Rv.267785-01; Sez.2, n.49453 del 8/10/2013, Rv.257974-01). Il Collegio intende dare continuità a questo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ritenendo che, nel caso di specie, il Tribunale del riesame, ha fornito una motivazione congrua circa la permanenza delle esigenze cautelari, perché, oltre a considerare i precedenti penali di cui è gravato il ricorrente, ha valorizzato, dal punto di vista prognostico, soprattutto la spiccata capacità criminale del clan COGNOME a cui il COGNOME è risultato ininterrottamente contiguo nell’ampio lasso di tempo nel quale si è sviluppata la tentata estorsione per cui si procede.
Con riferimento, invece, alla contestata scelta della misura custodiale deve essere ribadito il principio già sostenuto dalla Suprema Corte, secondo cui: «In tema di applicazione di misure cautelari personali, la doppia presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere, prevista per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi
riferita anche ai delitti tentati, aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.» (c Sez.2, n.23935 del 04/05/2022, Rv.283176-01; conf. Sez.2, n.22096 del 03/07/2020, Rv. 279771-01), come è nel caso di specie. Ne consegue che in forza di tale principio le censure mosse dalla difesa di COGNOME sul punto sono manifestamente infondate.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si si ritiene equa di euro tremila a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma in data 19 novembre 2024
Il Consigliere estensore