Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10416 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10416 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 16/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a COSENZA il 11/09/2005
is t
avverso l’ordinanza del 10/09/2024 del TRIB. — di CATANZARO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME COGNOME che si riporta alla requisitoria già depositata e conclude per il rigetto uditi i difensori del ricorrente, avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che si insistono nel ricorso e chiedono l’annullamento della ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con la ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Catanzaro rigettava la richiesta di riesame del difensore del ricorrente avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro del 13 agosto 2024, che applicava la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di COGNOME NOME, in relazione al reato di cui al capo A) di violenza privata continuata in concorso aggravata dal metodo mafioso.
Contro l’anzidetta ordinanza, l’indagato propone ricorso a mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME affidato a due motivi, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art.173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 II primo motivo di ricorso lamenta violazione della legge penale ed erronea applicazione di legge, ai sensi dell’art.606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli artt.273, 274, 275, comma 3, cod. proc. pen., e agli artt.110, 81, comma 2, 610, comma 2, 339, 416 bis 1, cod. pen., in punto di esigenze cautelari afferenti la presunzione relativa di pericolosità, discendente dalla contestata l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso.
2.2 II secondo motivo di ricorso lamenta vizio di omessa motivazione, in relazione agli artt. 274, 275 e 292, cod. proc. pen., in punto di attualità delle esigenze cautelari in relazione al c.d. tempo silente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
2.1 II primo motivo di ricorso è infondato.
2.1.1 Va in primo luogo, premesso che in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del Tribunale del riesame in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o assenza delle esigenze cautelari consente al giudice di legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ossia della adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritt che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Sez. 2, Sentenza n. 27866 del 17/06/2019 Rv. 276976 – 01; Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, COGNOME, Rv. 269884; Sez. 2, Sentenza n. 9212 del 02/02/2017 Rv. 269438 – 01).
Il motivo è reiterativo, rimarcandosi l’inidoneità degli argomenti esposti per contrastare la valenza delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute, con motivazione logica ed immune da vizi e censure, lineari, coerenti, pacate, circostanziate e congruenti, oltre che scevre da intenti calunniatori o vendicativi nei confronti dell’indagato, soggetto sconosciuto alla persona offesa, di per sé sufficienti a fondare un giudizio di qualificata probabilità di colpevolezza.
Il Tribunale richiama, quali elementi che vanno a corroborare le dichiarazioni della persona offesa, il riconoscimento fotografico effettuato da quest’ultima e
dai testi (COGNOME e COGNOME), le immagini delle telecamere di sorveglianza del locale della persona offesa, inserite nella CNR, che riprendevano i due gruppi di persone, compreso il Rango, che entravano separatamente, a distanza di pochi secondi, le sommarie informazioni rese da alcune persone presenti, e gli esiti degli accertamenti di P.G., costituendo gravi indizi di commissione del reato di violenza privata continuata in concorso aggravata dal metodo mafioso mediante una condotta volta ad intimorire, con l’affermazione della propria appartenenza alla famiglia criminosa COGNOME e l’accentuazione del rapporto di discendenza dal boss NOME COGNOME (“sono NOME COGNOME, figlio di NOME COGNOME“), condannato all’ergastolo per fatto omicidiario aggravato dall’art.416 bis 1 cod. pen. e ristretto in regime di 41 bis 0.P., ed impedire alle vittime il ricorso alla giustizia, irrompendo spavaldamente, spalleggiato da altri soggetti, negli uffici in cui non era consentito l’accesso del pubblico, profferendo gravi minacce nei confronti dello COGNOME (“se ti permetti a chiamare NOME COGNOME, ti sparo in bocca e ti incendio il locale”), accompagnate da un gesto intimidatorio della mano che batteva sul petto della persona offesa.
Con motivazione condivisibile il Tribunale ha attribuito a tali elementi la capacità di delineare il quadro alla stregua del quale interpretare le risultanze più specificamente poste a fondamento della gravità indiziaria con riguardo al periodo oggetto di verifica, possedendo i requisiti della a) gravità – ossia della persuasività -, b) della precisione – cioè della idoneità ad escludere altre alternative ragionevoli, non confrontandosi il ricorso con la motivazione del provvedimento impugnato circa la riconducibilità delle espressioni profferite ad eventuale condotta lecita, e c) della concordanza – il loro essere, cioè, collimanti e non escludersi a vicenda -, principi probatori – questi – di cui il giudice della cautela ha fatto buon governo.
Nel caso di specie, il Tribunale, con argomentazioni puntuali e prive di vizi di manifesta illogicità e/o contraddittorietà e di apparenza di motivazione, in relazione all’aggravante del metodo mafioso del reato contestato al capo A), richiama integralmente l’ordinanza applicativa della misura cautelare quanto alla ricostruzione storica dei fatti e alle emergenze investigative, ritenendo comprovato il giudizio sui gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, disattendendo la versione alternativa fornita dalla difesa, in considerazione della dinamica dei fatti, del contesto in cui sono maturati gli illeciti e delle univoche e convergenti dichiarazioni della persona offesa, COGNOME e dei testimoni presenti, volte ad escludere che si sia trattato di uno scambio di convenevoli, ritenendo trattarsi di frasi di carattere intimidatorio, profferite dal ricorrente co tradizionali metodi intimidatori mafiosi, in un contesto territoriale in cui la presenza della ‘ndrangheta per il controllo delle attività economiche è nota alla
collettività. In particolare, la gravità indiziaria viene fondata anche sulle modalità della condotta tenuta dal ricorrente e dai correi.
Anche in questo caso le motivazioni non appaiono censurabili sotto alcun profilo, sia con riferimento alla valutazione del contenuto delle dichiarazioni della persona offesa che in relazione alla chiara ed inequivoca volontà manifestata dal ricorrente di affermare la propria appartenenza alla famiglia criminosa COGNOME e di accentuare il diretto rapporto di discendenza dal boss NOME COGNOME nonché di profferire gravi minacce accompagnate anche da un gesto intimidatorio della mano manifestando che la eventuale ritorsione sarebbe stata perpetrata dal gruppo mafioso sia con riferimento alla valutazione della condotta in concreto posta in essere dal gruppo.
Sul punto la difesa reitera censure già disattese dal Tribunale, prospettando una diversa valutazione degli elementi di fatto già esaminati con motivazione immune da vizi.
Il Collegio intende ribadire l’orientamento giurisprudenziale, affermato già in più occasioni da questa Corte in casi del tutto analoghi (così, Sez.2, n.19245 del 30/03/2017, COGNOME, Rv.269938-01; conf. Sez.2, n.34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv.284950-01), secondo cui: “ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in I. 12 luglio 1991, n. 203), è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività.
Ricorre la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 – bis. 1 cod. pen., quando l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune (Sez. 2, Sentenza n. 39424 del 09/09/2019 Rv. 277222 – 01).
Per giurisprudenza pacifica di questa Corte l’aggravante del metodo mafioso non presuppone l’appartenenza ad un sodalizio, ma solo che il reato sia posto in essere secondo modalità mafiose, ribadendosi di recente che “ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa” (Sez. V, 13/09/2024, n.37489). Non occorre, dunque, che alla evocata contiguità, rappresentata in questo caso dalle modalità e dal contesto, corrisponda una concreta e verificata origine mafiosa della minaccia,
dovendo il giudice viceversa limitarsi a controllare (nella verosimiglianza offerta dal dato dichiarativo) che quella evocazione sia effettivamente funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento particolare, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a dover fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, 4 piuttosto che quelle di un criminale comune (Sez. 2, n. 5727, del 29/1/2019, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 6592 del 25/01/2022, Rv. 282766 – 02).
Né la sussistenza del reato è esclusa dalla asserita assenza di timore della persona offesa che il ricorrente desume dalla presentazione della denuncia due giorni dopo i fatti, trattandosi di un tempo congruo, circostanza non idonea ad escludere la configurazione dell’aggravante in parola.
Ai fini della potenzialità coercitiva, sono indifferenti la forma e il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese, larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore o a coartare la volontà del soggetto passivo.
Pertanto, non è tanto la forma ma piuttosto la connotazione di una condotta come minaccia e la sua idoneità ad integrare una marcata potenzialità intimidatoria vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui egli opera, l’ingiustizia delle pretese sottese alle minacce.
Nella specie, il preciso riferimento al padre, boss mafioso, che, secondo l’ordinanza impugnata è detenuto al 41 bis O.P. per omicidio aggravato dal metodo mafioso, e la minaccia esplicita di incendiare il locale, accompagnata da gesti della mano, integrano pacificamente l’aggravante in questione, evocando le modalità della condotta, nella vittima, la forza intimidatrice e prevaricatrice tipica dell’agire mafioso, sulla base di quanto vissuto e percepito dalla persona offesa, considerato che non è necessario che l’agente appartenga effettivamente ad un consesso di stampo mafioso, in quanto la tipicità dell’atto intimidatorio deve ricollegarsi non tanto alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in sé considerato bensì al metodo utilizzato, ma è sufficiente che l’aver ingenerato nella vittima la consapevolezza che l’agente appartenga a tale associazione, nonché della personalità dell’agente e del contesto in cui sono maturate e poste in essere le condotte intimidatorie (Sez.2, 49090 del 4.12.2015, Rv. 265515 01).
2.2 Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Il motivo è del tutto generico e non si confronta con l’ordinanza impugnata, proponendo doglianze non consentite, dirette ictu oculi a sollecitare una non consentita rivalutazione del merito cautelare, sostenendo l’affievolimento delle esigenze cautelari e l’assenza di un pericolo concreto di reiterazione, valutata dal Tribunale con motivazione precisa, puntuale, corretta ed immune da censure e vizi di logicità.
Va ribadita in tema di applicazione di misure cautelari personali, la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per determinate fattispecie incriminatrici, prevista dagli artt. 275, comma 3, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. è prevalente, in quanto speciale, rispetto alla norma generale stabilita dall’art. 274 cod. proc. pen.; non appare vinta da alcuna allegazione difensiva, tanto meno dal cd. “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati) che non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari” (sul punto si veda Sez. 1, n. 21900, del 7/5/2021, Rv. 282004; Sez. 1, n. 21900, del 7/5/2021, Rv. 282004; Sez. 2, n.7837 del 12/02/2021, Rv.280889-01; conf. Sez. V, n.16434 del 21/02/2024, Rv. 286267-01; Sez.2, n.6592 del 25/01/2022, Rv.282766-02; Sez.2, n.38848 del 14/07/2021, Rv. 282131-01; Sez.5, n.35848 del 11/06/2018, Rv. 27363101).). Ne consegue che se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. detta presunzione fa ritenere sussistente, salvo prova contraria, non desumibile dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, i caratteri di attualità e concretezza del pericolo. In motivazione la Corte ha aggiunto che, nella materia cautelare, il decorso del tempo, in quanto tale, possiede una valenza neutra ove non accompagnato da altri elementi circostanziali idonei a determinare un’attenuazione del giudizio di pericolosità.). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il Tribunale si confronta con i motivi del ricorso, ha adeguatamente motivato le ragioni della ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, ritenendo non potersi formulare una valutazione prognostica favorevole circa il futuro comportamento dell’indagato di astensione dal commettere reati della medesima specie di quello per cui si procede.
Va, inoltre, osservato che (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12807 del 19/02/2020, Rv. 278999 – 01) il c.d. “tempo silente” trascorso dalla commissione del reato deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., da parte del giudice che emette l’ordinanza che dispone la misura cautelare, mentre analoga valutazione non è richiesta dall’art. 299 cod. 2
proc. pen. ai fini della revoca o della sostituzione della misura, rispetto alle quali l’unico tempo che assume rilievo è quello trascorso dall’applicazione o dall’esecuzione della misura in poi, essendo qualificabile, in presenza di ulteriori elementi, come fatto sopravvenuto da cui poter desumere il venir meno ovvero l’attenuazione delle originarie esigenze cautelari. Nel caso di specie, nessuna valenza positiva è possibile oggettivamente attribuire al periodo di cautela, in quanto estremamente esiguo che non ha dispiegato efficacia dissuasiva, alla luce della recente applicazione della misura, mentre l’assenza di precedenti penali e di pendenze a carico del ricorrente è stato correttamente ritenuto parametro recessivo a fronte delle risultanze investigative.
A riguardo si rileva che il provvedimento risulta in sintonia con l’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte in riferimento all’art.274 lett. c) cod. proc. pen., secondo cui ai fini della valutazione in ordine alla sussistenza dell’esigenza cautelare del pericolo di recidiva ed alla scelta della misura coercitiva in concreto adeguata a soddisfarla, la pregressa incensuratezza dell’indagato ha valenza di mera presunzione relativa di minima pericolosità sociale, che ben può essere superata valorizzando l’intensità del pericolo di recidiva desumibile dalle accertate modalità della condotta in concreto tenuta (Sez. 2, n.4820 del 30.1.2013, RV255679; Sez. 5, Sentenza n. 42784 del 23/05/2016, Rv. 267956 01).
Appare infine corretta la motivazione del Tribunale in punto di ritenuta persistenza delle esigenze cautelari tenuto conto che si versa in un’ipotesi di mafia storica, radicata da molti anni sul territorio, che ha innestato chiare e consolidate modalità mafiose nel perseguimento dei fini sottesi al programma criminoso, che a fronte delle risultanze investigative ha ritenuto altamente probabile che il Rango possa concretamente ricreare, nello stesso o in diverso ambito, le condizioni per replicare le condotte già collaudate attraverso la spendita del suo cognome, avendo dimostrato singolare disinvoltura e scaltrezza nell’azione illecita. Da cui conseguono concretezza e attualità del pericolo di reiterazione in quanto il ricorrente ha dimostrato di essere incline alla evocazione della figura criminale del padre e al rapporto di parentela al fine di affermare l’autorità del sodalizio, incutere soggezione e condizionare i comportamenti delle vittime.
Parimenti, sotto il profilo dell’adeguatezza del regime cautelare disposto, l’ordinanza è immune da vizi di illogicità manifesta adottando una motivazione non suscettibile di censura in questa sede evidenziando un concreto ed attuale pericolo di recidiva e, tenuto conto della entità e della scaltrezza dell’azione posta in essere dal Rango e della mancanza di resipiscenza, di inidoneità di altre forme di coercizione, e della necessità di una misura in grado di recidere liberi
movimenti e contatti con terzi, idonei ad agevolare la ripetizione di analoghe condotte, e di proporzione della misura applicata ai fatti ed alla pena che verrà irrogata, tenuto conto degli importanti limiti edittali del delitto contestato.
Il Tribunale, uniformandosi al principio di diritto, elaborato da questa Corte, in tema di scelta della misura cautelare, ha ritenuto la misura applicata proporzionata alle condotte contestate definite di allarmante gravità poste in essere dall’indagato, nonché adeguata e necessaria, ritenendo irrilevanti l’assenza di precedenti penali e di pendenze in favore del ricorrente indicando le ragioni della inidoneità di misure cautelari meno afflittive diverse dagli arresti domiciliari, ritenendole inadeguate in considerazione ha ritenuto la misura applicata unica misura idonea a contenere le esigenze cautelari in considerazione della attualità e concretezza del pericolo di reiterazione criminosa.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, rigettato e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 16/01/2025.