Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 29401 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 29401 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 08/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Cassano allo Ionio il 16/12/1989; rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia; COGNOME NOMECOGNOME nato a Cosenza il 23/07/1985; rappresentato ed assistito dall’avv.
NOME COGNOME
avverso la sentenza emessa in data 28/11/2024 n. 4025 della Corte di Appello di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale del procedimento;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta con la quale il Sostituto Procuratore Generale, NOME
COGNOME ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 28 novembre 2024 la Corte di Appello di Catanzaro, ha confermato la sentenza pronunciata in data 12/07/2022 dal Tribunale di Castrovillari, di condanna dei coimputati COGNOME e COGNOME per i reati di estorsione aggravata e lesioni, aggravati anche dal c.d. “metodo mafioso” (artt. 81 cpv., 110, 629, comma 2, cod. pen. in relazione all’art. 628, comma 3, nn. 1 e 3, cod. pen., 416-bis. 1 cod. pen.) commessi in Cassano allo Ionio il 26/01/2013.
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati.
2.1 Per Abbruzzese, si deducono quattro motivi: vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’articolo 629 cod. pen.; vizio di motivazione per illogicità in ordine all’acquisizione ed utilizzabilità ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen. delle dichiarazioni rese il 26 gennaio 2013 dalle persone offese e segnatamente circa la sussistenza di elementi concreti da cui desumere che le stesse siano state sottoposte a violenza o minaccia; vizio di motivazione in ordine alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen.; vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla mancata applicazione della pena base prevista dall’art. 629 cod. pen.v
2.1.1. In particolare, in ordine ai primi due motivi la difesa osserva che la presunta estorsione discenderebbe dalle sole informazioni sommarie rese il 26 gennaio 2013 dai germani COGNOME, che due giorni dopo, il 28 gennaio 2013, sono state ritrattate e ritenute attendibili dalla Corte di appello in assenza di riscontri estrinseci e 4 e=f=1 dei presupposti per la loro acquisizione al dibattimento ex art. 500 comma 4 cod. proc, pen, ossia in assenza di concreti e specifici elementi sintomatici della intervenuta coartazione della volontà dei testi e quindi della violenza o dell’intimidazione subita; la difesa evidenzia, ai fini della valutazione della attendibilità delle dichiarazioni acquisite, il rapporto di pregressa conoscenza tra le vittime e l’imputato COGNOME NOME e la vicinanza delle vittime a contesti delinquenziali (essendo NOME COGNOME marito di NOME NOME e al vertice della “locale di Cassano” unitamente ad COGNOME NOME, padre dell’imputato NOME).
2.1.2. In ordine al terzo motivo, relativo alla configurabilità dell’aggravante del c.d. “metodo mafioso”, la difesa evidenzia l’assenza di precedenti penali a carico di COGNOME NOME al momento dei fatti per delitto di associazione mafiosa, l’assenza di timore in capo ad NOME NOME, la quale si presentava presso l’abitazione di Abbruzzese NOME prospettando di rivolgersi ai carabinieri in caso fosse successo qualcosa a lei o alla sua famiglia, l’ inidoneità nel comportamento
degli imputati ad esercitare in concreto sulla vittima la coartazione psicologica e la forza intimidatrice tipica dell’associazione di stampo mafioso; in definitiva, la Corte di appello di Catanzaro non avrebbe adeguatamente motivato in sentenza sul ricorso al cosiddetto metodo mafioso da parte di COGNOME NOME, mai condannato per le vicende giudiziarie che hanno interessato il suo nucleo familiare. 2.1.3. In ordine al quarto motivo, attinente al diniego delle circostanze attenuanti generiche, la difesa lamenta la motivazione apparente, limitatasi al riferimento alle concrete modalità della condotta, e pur a fronte dell’incensuratezza dell’imputato. 3. Per COGNOME, si deducono quattro motivi di ricorso.
3.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. con riferimento alla parte della motivazione della sentenza relativa all’acquisizione ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen. delle denunce-querele delle persone offese e all’affermazione della penale responsabilità: la difesa lamenta la pedissequa riproposizione delle ragioni contenute nella sentenza di primo grado nella parte che legittima l’acquisizione ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen. delle denunce-querele presentate dalla persona offese, limitandosi ad un “copia e incolla” della sentenza di primo grado, con conseguente vizio per difetto assoluto di motivazione, che va al di là del lecito uso della motivazione per relationem e senza dare alcun concreto riscontro di una autonoma valutazione dei motivi di appello.
3.2. Con il secondo motivo, si deduce il vizio di motivazione in relazione all’art. 500, commi 4 e 5, cod. proc. pen. per illegittima acquisizione al fascicolo del dibattimento delle denunce-querele sporte dai fratelli COGNOME; la difesa riprendendo le doglianze di cui al punto precedente, lamenta come la sentenza di appello si sia limitata a copiare le motivazioni della sentenza di primo grado, che, con argomentazioni apodittiche e generiche, ha ritenuto, ai fini della acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali, che le persone offese siano state sottoposte ad intimidazione, senza invece tenere conto della personalità delle stesse (imparentate con personaggi di spicco della criminalità organizzata), della remissione di querela, avvenuta due giorni dopo le denunce, e delle dichiarazioni rese in dibattimento difformi da quelle predibattimentali.
3.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione per manifesta illogicità in relazione al rigetto della richiesta di definizione del giudizio con rito abbreviato condizionato all’esame delle persone offese e all’acquisizione della sentenza resa nel procedimento c.d. “Sybaris” e alla mancata riduzione di un terzo della pena; sul punto, la difesa rileva che il giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto non indispensabile, ai fini della decisione, la richiesta della difesa di accedere a rito abbreviato condizionato all’attività istruttoria indicata, valutazione condivisa anche dal Tribunale e dalla Corte d’appello, la quale ha rilevato che, con l’istruttoria
sollecitata, si sarebbe trattato di risentire le persone offese, svolgendo attività istruttoria ordinaria e facendo venire meno le finalità deflattive del rito richiesto la difesa osserva che l’attività istruttoria sollecitata era espressione della esigenza di chiarire le discrasie tra le dichiarazioni accusatorie originarie contenute nelle querele sporte dalle persone offese dinanzi ai carabinieri il 26 gennaio 2013 e la successiva ritrattazione avvenuta due giorni dopo.
3.4. Con il quarto motivo, si deduce, anche per COGNOME, il vizio di motivazione relativamente alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen.; anche sul punto la difesa lamenta la letterale riproposizione della sentenza di primo grado, senza considerare le doglianze esposte nell’atto di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i ricorsi sono fondati limitatamente alla censura sulla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen., e possono essere trattati unitariamente in ordine ai primi due motivi, attinenti per entrambi, rispettivamente, la violazione di legge e i vizi di motivazione circa la sussistenza del reato di estorsione e all’acquisizione ed utilizzabilità ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen. delle dichiarazioni rese il 26 gennaio 2013 dalle persone offese; parimenti merita trattazione unitaria la censura (terzo motivo per COGNOME e quarto motivo per COGNOME circa la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416bis. 1 cod. pen..
I primi due motivi di ricorso nell’interesse di COGNOME e di COGNOME sono meramente reiterativi, e quindi privi della necessaria specificità e comunque manifestamente infondati.
2.1. In ordine al primo, relativo alla affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all’art. 629 cod. pen. in entrambi i gradi di giudizio, va osservato come le sentenze di merito – che sul punto si integrano vicendevolmente, essendo giunte alle medesime conclusioni – risultano avere analizzato gli elementi probatori fondamentali ed avere anche evidenziato come gli elementi di contraddizione, concretizzatisi nella ritrattazione del contenuto delle querele da parte di entrambe le persone offese, non inficiassero la tenuta dell’impianto probatorio, fornendo adeguata motivazione della decisione di ritenere non credibile la difforme versione resa successivamente alla querela e ribadita in sede dibattimentale. E’ sufficiente ricordare che la sentenza della Corte di appello di Catanzaro, alle pagine 4 e 5 della motivazione, contiene la valutazione dei plurimi elementi posti a fondamento della decisione (querela e sommarie informazioni delle persone offese, riconoscimento fotografico di entrambi gli imputati, certificazione medica attestante lesioni compatibili con la dinamica dell’aggressione denunciata, esame
dibattimentale delle stesse, dichiarazioni del Maresciallo COGNOME, che aveva ratificato le querele ed acquisito i referti medici). La responsabilità dei ricorrent per il reato di estorsione – finalizzato a costringere le persone offese ad omettere la richiesta di adempimento delle pregresse obbligazioni patrimoniali per gli acquisti effettuati da Abbruzzese e Pavone presso il supermercato, oltre che al pagamento del “pizzo” – risultano quindi adeguatamente giustificate dai giudici di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede, non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile. Anche la valutazione dell’elemento soggettivo del reato costituisce un giudizio di fatto che non può essere sindacato dalla Corte di cassazione quando sia sorretto, come nel caso in esame, da logica e adeguata motivazione. Trattasi, infatti, di questione già proposta in sede di gravame innanzi alla Corte di appello ed alla quale i giudici territoriali hanno fornito una risposta congrua e logica. Nessuna contraddizione o travisamento degli elementi probatori è quindi ravvisabile nel caso in esame: i giudici di entrambi i gradi di merito risultano, come detto, avere preso atto degli elementi contraddittori ed avere debitamente spiegato i motivi per i quali, con una valutazione di puro merito, hanno ritenuto di aderire alla prospettazione accusatoria.
2.2 Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato poiché la Corte di appello di Catanzaro, nel respingere l’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali dei testi NOME COGNOME e NOME COGNOME, acquisite dal Tribunale ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen., ha fatto buon governo dei principi formulati in materia dalla Corte di legittimità, affermando, in base ad alcuni significativi arresti giurisprudenziali, che le modalità della testimonianza e il contegno tenuto nel corso della deposizione, teso a negare a priori tutto quanto in precedenza affermato, senza fornire alcuna plausibile spiegazione o ricostruzione alternativa – come nel caso di specie – rientrino tra gli elementi valutabili come sintomatici di inquinamento probatorio idoneo a giustificare l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.
La Corte territoriale (p. 7) ha puntualmente riportato plurimi elementi altamente sintomatici della non genuinità della ritrattazione (le modalità stesse della ritrattazione contenuta in un foglio dattiloscritto formato da altri, come riconosciuto dalle stesse persone offese e da queste semplicemente sottoscritto; dichiarazioni dibattimentali radicalmente difformi anche rispetto a quelle
contenute in detto foglio ovvero reticenti anche su domande banali, come l’epoca di avvio dell’attività commerciale). Del resto, non va trascurato come, nel caso in esame, il teste maresciallo COGNOME (p.5) abbia riferito dello stato di ansia e di agitazione mostrato in sede di denuncia dalle persone offese, le quali presentavano pure evidenti segni della violenza subita e denunciata.
Pertanto, la Corte di appello, in merito all’eccezione in argomento, ha reso una motivazione esaustiva in punto di fatto e corretta sotto il profilo giuridico, immune dai vizi paventati dalla difesa.
3. Fondato è, invece, il terzo motivo di ricorso.
Deve in primo luogo essere osservato come la motivazione sull’aggravante contestata nel capo d’imputazione sotto il duplice profilo dello sfruttamento del metodo mafioso e dell’agevolazione mafiosa – viene svolta dalla Corte di appello, alle pagine 9 e 10 della sentenza, con riferimento al solo utilizzo del metodo mafioso e comunque con argomentazioni che appaiono non adeguatamente approfondite in relazione all’impiego di modalità, nella consumazione della condotta, evocative del coinvolgimento del gruppo criminale e non del singolo agente, ossia mediante modalità tali da incutere nella vittima il timore del collegamento con il sodalizio mafioso.
In proposito va ricordato come, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatosi nel vigore della precedente fattispecie introdotta dal legislatore del 1991, la ratio della disposizione di cui all’art.7 del D.L. 152/91 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando “metodi mafiosi” o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma anche quella di contrastare in maniera più decisa, per la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino “da mafiosi”, ovvero ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata (Sez. 6, n. 582 del 19/02/1998, Primasso, Rv. 210405 – 01). Si è anche affermato che la funzione dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203 (avere commesso il delitto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui al suddetto art. 416-bis cod. pen.) è di reprimere il metodo delinquenziale mafioso, utilizzato anche dal delinquente individuale sul presupposto dell’esistenza, in una data zona, di associazioni mafiose. Ne consegue che la tipicità dell’atto intimidatorio è ricollegabile non già alla natura ed all caratteristiche dell’atto violento in sé considerato, bensì al metodo utilizzato, nel senso che la violenza o la minaccia con cui esso è compiuto risulti concretamente collegata alla forza intimidatrice del vincolo associativo (Sez. 6, n. 30246 del
17/05/2002, COGNOME, Rv. 222427 – 01). Secondo più recenti ed evolutivi interventi giurisprudenziali, per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 5, n. 21530 del 08/02/2018, COGNOME, Rv. 273025 – 01; Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Rv. 277033 – 01). In particolare, la sentenza COGNOME in motivazione espone che «l’aggravante è stata inserita nell’ordinamento per contrastare le forme di criminalità promananti da soggetti in grado di intimidire e coartare le vittime – che sono forzate ad accontentare “spontaneamente” il proprio aggressore – non tanto per la propria fama criminale, ma, in particolar modo, per quella che proviene loro dal contesto delinquenziale in cui si muovono, perché idoneo a suscitare paura di rappresaglie ad opera di complici, affiliati e accoliti.».
In conclusione, quindi, per aversi metodo mafioso, secondo la giurisprudenza di legittimità, occorre sempre che sia stata realizzata una particolare coartazione significativa dell’inserimento della condotta dell’agente in organizzazioni delinquenziali, capaci di sprigionare una portata intimidatrice ulteriore perché significativa della provenienza della minaccia dalla “mafia”.
3.1 Tali considerazioni vanno poi coordinate con la struttura tipica del delitto di estorsione che contiene già in sé l’elemento costitutivo della minaccia al fine di evitare che la minaccia, in quanto elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 629 cod. pen., venga anche qualificata automaticamente come elemento della aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen., che costituisce eventuale caratteristica di un concreto episodio delittuoso; se questa evenienza invece non si verificasse, il precetto circostanziale non opererebbe per assenza del comportamento in esso sussumibile (Sez. U, Cinalli, n. 10 del 28/03/2001, Rv. 218378 – 01).
Orbene, tali essendo i principi di riferimento va affermato che, in caso di fattispecie estorsiva, il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 416 bis. 1 cod. pen., richiede la dimostrazione che sia stato chiaramente evocato un collegamento con la forza intimidatrice di un gruppo “mafioso”, e quindi modalità dell’azione tali da incutere nella vittima il timore di un coinvolgimento del gruppo criminale e non del solo agente uti singulis.; solo in tali casi sussistono, infatti, sia la minaccia quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 629 cod. pen. sia l’intimidazione richiamante il collegamento con un gruppo “mafioso”, che legittima il riconoscimento dell’ipotesi di cui agli artt. 629 e 416 bis. 1 cod. pen., altrimenti potendosi configurare la sola fattispecie di estorsione (sez. 2 -, sent. n. 15724 del 27/03/2025 Ud., dep. 22/04/2025, Rv. 287947 – 02).
Nel caso di specie, l’impugnata sentenza – che, non in linea con la contestazione, motiva esclusivamente sul metodo mafioso e non anche sulla finalità di agevolazione – ravvisa l’integrazione della condotta estorsiva nella realizzazione di “implicita ma inequivoca minaccia di danni qualora le persone offese non avessero dato seguito al pagamento di non meglio precisate somme di denaro: tale richiesta, inquadrabile nella classica imposizione del “pizzo” effettuata dalle cosche mafiose, evoca il modus operandi tipico delle organizzazioni criminali, alle quali peraltro gli imputati sono vicini” (p.10).
La Corte di appello articola, in particolare, l’esplicitazione del metodo mafioso, nell’avere gli imputati agito manifestamente e senza alcuna precauzione “a volto scoperto” nei confronti di persone che li conoscevano, anche per motivi parentali, dimostrando “quella ostentazione di sicurezza e impunità tipica espressione dell’agire mafioso” (p.10). La motivazione, riferita ad una modalità della condotta, non pare esaustiva rispetto allo sfruttamento del metodo mafioso, in presenza anche di elementi di segno contrario. Si deve ricordare, in proposito (come emerge dalla non contestata ricostruzione del fatto, pp.3 e 4) che NOME COGNOME, dopo la richiesta estorsiva, si era recata a casa di Abbruzzese NOME, dove trovava COGNOME, al quale riferiva che avrebbe scritto una lettera al padre di NOME COGNOME, NOME COGNOME (esponente mafioso di elevata caratura e detenuto al 41 bis) per rendergli noto il comportamento del figlio; dato, anch’esso non congruente con l’integrazione dell’aggravante contestata e sintomatico della estemporaneità dell’iniziativa estorsiva realizzata dai due imputati.
Quanto sopra esposto comporta l’accoglimento del terzo motivo di ricorso ed il conseguente annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza limitatamente al riconoscimento della suddetta aggravante di mafia nella prospettiva del solo metodo mafioso.
Sarà pertanto compito del giudice di rinvio approfondire tale tema individuando eventuali passaggi di fatto, ove sussistenti, dai quali desumere che COGNOME e COGNOME abbiano fatto ricorso alla forza intimidatrice del gruppo mafioso per sostenere la loro richiesta di pagamento illecito.
Il residuo motivo di ricorso, per COGNOME, in punto attenuanti generiche e determinazione della pena base, è assorbito dalla statuizione che precede.
Infine, quanto al residuo motivo di ricorso nell’interesse di COGNOME – la richiesta riduzione di un terzo della pena per il rito abbreviato – è necessario richiamare il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nell’ipotesi di istanza di rito abbreviato condizionato alla assunzione di una prova già acquisita e, in particolare, la rinnovazione dell’esame di una persona che ha già reso dichiarazioni in fase di indagini, è preciso onere della difesa – a pena di improponibilità della richiesta – quello di specificare i temi e le
circostanze di fatto da verificare, che debbono differenziarsi da quelli oggetto delle informazioni già rese, in quanto la formulazione testuale del comma 5 dell’art.
438, cod. proc. pen., postula che l’attività istruttoria abbia carattere integrativo ossia vada a completare gli elementi informativi acquisiti, in quanto parziali o
insufficienti e non, invece, soltanto a rinnovarli nel contraddittorio delle parti (cfr
Sez. 2, n. 2919 del 10/12/2019, dep. 2020, COGNOME Rv. 277799 – 01; Sez. 1, n.
50891 del 13/11/2013, COGNOME, Rv. 257879 – 01). In tal caso, occorre che l’attività
istruttoria cui sia condizionata la richiesta di rito abbreviato, abbia effettivamente una valenza integrativa degli elementi già acquisiti ossia vada a completare le
informazioni agli atti in quanto ritenute parziali ed insufficienti e non già
semplicemente, a rinnovarli nel contraddittorio tra le parti, quasi si trattasse di una surrettizia anticipazione del dibattimento. Tanto premesso, rileva il Collegio
come la valutazione operata dal Tribunale e, poi, dalla Corte territoriale, sia stata assolutamente corretta, nello stigmatizzare come l’attività istruttoria, così come
sollecitata, appare del tutto incompatibile con i principi di economia processuale ed il fine deflattivo propri del rito, risolvendosi nello svolgimento di attivi
istruttoria ordinaria, mirando piuttosto ed esclusivamente alla ricerca ipotetica di elementi favorevoli all’impostazione difensiva, a fronte della ritrattazione delle dichiarazioni rese dalle persone offese.
Per le considerazioni esposte, la sentenza deve essere annullata limitatamente alla circostanza aggravante del c.d. “metodo mafioso”, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro.
Dichiara inammissibili, nel resto, i ricorsi ed irrevocabili le affermazioni di responsabilità degli imputati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante del c.d. “metodo mafioso”, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi ed irrevocabili le affermazioni di responsabilità degli imputati.
Così deciso in Roma, 8 luglio 2025
Il Consigliere estensore
Il Pre dente