Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9893 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9893 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/02/2025
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Catania ha confermato la sentenza con cui, in data 30/06/2021, il Tribunale del capoluogo etneo aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile dei delitti di furto pluriaggravato e ricettazione in concorso, nonché di quello di evasione dagli arresti domiciliari sicché, ritenuto il vincolo dell continuazione tra le diverse violazioni di legge ed applicata la riduzione per il rito abbreviato, l’aveva condannato alla pena finale di anni 1 mesi 6 di reclusione ed euro 400 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali;
ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
2.1 inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla messa alla prova: osserva che la Corte d’appello, così come il giudice di prime cure, ha errato nel respingere l’istanza di sospensione del processo con messa alla prova secondo il programma elaborato dall’UEPE che era invece assolutamente coerente con le finalità deflattiv socialpreventive proprie dell’istituto; segnala, in particolare, l’impegno assunto dall’imputato di svolgere attività di servizio civile quale forma di lavoro di pubblica utilità che, tuttavia, la Corte d’appello ha totalmente ignorato nella motivazione dell’ordinanza di rigetto viziata, pertanto, da un evidente e decisivo travisamento per omissione;
2.2 inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità: denun l’illegittimità della sentenza impugnata laddove la Corte d’appello ha respinto l’eccezione di nullità relativa al difetto di contestazione per il delitto di fu contestato soltanto con riferimento alla tentata sottrazione dell’olio contenuto all’interno del trasformatore ma per il quale la condanna è stata inflitta anche per la sottrazione del rame e del ferro rinvenuti all’interno della centralina elettrica; prescindere dall’esistenza di un “nucleo comune”, sottolinea che il fatto per il quale è intervenuta condanna è evidentemente più ampio e più grave rispetto a quello che era stato contestato;
2.3 manifesta illogicità della motivazione in ordine alla diniego dell assoluzione per il capo A: rileva che dallo stesso verbale d’arresto risulta che il COGNOME, dopo aver iniziato a travasare l’olio contenuto nel trasformatore, aveva interrotto l’operazione per ragioni del tutto indipendenti dall’intervento delle forze dell’ordine che, difatti, l’avevano intercettato a notevole distanza dalla cabina elettrica; evidenzia, pertanto, come la Corte avrebbe dovuto applicare il disposto di cui al terzo comma dell’art. 56 cod. pen.;
2.4 omessa motivazione in ordine alla pena ed alle circostanze: rileva che la Corte d’appello è rimasta silente sulle richieste formulate con l’atto d’appello e relative al riconoscimento dell’ipotesi della lieve entità del delitto di ricettazione alla esclusione dell’aggravante di cui al n. 7 -bis dell’art. 625 cod. pen.;
la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, complessivamente, infondato.
NOME COGNOME era stato tratto a giudizio (con rito direttissimo a seguito della convalida del suo arresto in flagranza) e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, per i delitti di (capo A) tentato furto pluriaggravato in concorso perché, unitamente ad altra persona rimasta ignota, si sarebbe introdotto all’interno di una proprietà privata ove insisteva una cabina ENEL da cui aveva iniziato a travasare l’olio presente all’interno del trasformatore, oltre che degli elementi di rame e di ferro ivi rinvenuti; del delitto di ricettazione (capo B) di una Fiat Punto provento di furto e, infine, del delitto di evasione (capo C) dagli arresti domiciliari.
1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
La Corte d’appello non ha mancato di prendere in esame la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, già respinta dal Tribunale all’udienza del 19/05/2021, condividendo le considerazioni svolte dal primo giudice: in particolare, ha sottolineato la incompletezza del programma presentato e che non avrebbe contemplato alcuna condotta riparatoria diretta alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dalla condotta delittuosa ascritta all’odierno ricorrente e, in particolare, la mancata previsione di “lavori di pubblica utilità specifici” in grado di compensare “… il danno al collettività, in essa comprese le numerosissime famiglie rimaste senza il servizio dell’elettricità in conseguenza dell’azione furtiva” (cfr., pag. 4 della sentenza i verifica).
I giudici di secondo grado hanno evidenziato come l’imputato si fosse impegnato “… soltanto a svolgere il lavoro di pubblica utilità senza specificare alcunché in ordine al collegamento tra il servizio di pubblica utilità da svolgere ed il danno provocato dalla sua azione” (cfr., ivi) tanto che diverse parti del programma erano state lasciate in bianco.
Va ribadito che la messa alla prova non rappresenta un diritto assoluto dell’imputato “… in quanto la relativa richiesta può trovare accoglimento solo nel caso in cui il giudice al quale viene rivolta, all’esito di un percorso valutativo d effettuare alla luce dei parametri fissati dall’art. 133, cod. pen. , come espressamente previsto dall’art. 464 quater, co. 3, cod. proc. pen.”(cfr., Sez. 5, n. 7983 del 26/10/2015, Matera, Rv. 25625601, conf., Sez. 6,n. 37346 del 14/09/2022, Boudraa Rv. 283883 – 01); era stato segnalato che “l’uso della congiunzione rende evidente che nell’esercizio del suo potere discrezionale il giudice dovrà valutare, avendo sempre come punto di
riferimento la gravità del reato e la capacità a delinquere del prevenuto, sia l’idoneità del programma di trattamento, sia la possibilità di formulare una prognosi favorevole nei confronti dell’imputato sulla circostanza che egli per il futuro si asterrà dal commettere ulteriori reati, previsione quest’ultima che, nel rifarsi alla formulazione dell’art. 164, co. 1, cod. pen. (con l’unica rilevan differenza che la valutazione riguarda la persona dell’imputato e non del “colpevole”), accomuna la causa di estinzione del reato di nuovo conio alla sospensione condizionale della pena, di cui all’art. 163, cod. pen..” (cfr., in motivazione della sentenza “Matera”).
L’art. 464-bis, comma 4, cod. proc. pen. stabilisce che la richiesta deve essere corredata di un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del programma, contenente le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; il programma o la richiesta debbono inoltre contenere le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale.
Il successivo art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., prevede che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
In questo quadro rileva l’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen., secondo cui “la concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e ai volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore”.
Non v’è dubbio, pertanto, che la valutazione del giudice debba investire la “adeguatezza” del programma presentato dall’imputato, che va verificato sia sotto
il profilo della sua idoneità a favorire il suo reinserimento sociale ma, anche, della sua effettiva corrispondenza alle condizioni di vita del prevenuto; la “adeguatezza” del programma deve essere indagata anche sotto quanto all’apprezzabilità dello sforzo sostenuto dall’imputato per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e risarcire il danno e della sua “coerenza” con la gravità del fatto sia dal punto di vista oggettivo che dal punto di vista soggettivo, considerando che il lavoro di pubblica utilità rappresenta una sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva la cui durata massima non è stata oggetto di previsione normativa e deve allora essere valutata dal giudice alla luce di un criterio di “proporzionalità” con i fatti di reato alla stregua degli indici de dall’art. 133 cod. pen. per la commisurazione della pena (cfr., Cass. Pen., 3, 19.9.2017 n. 55.511, COGNOME, Rv. 272066-01; cfr., anche, Sez. 6, n. 44646 del 01/10/2019, COGNOME, Rv. 277216 – 01).
Tanto premesso, il motivo di ricorso articolato sul punto non coglie nel segno laddove attribuisce ai giudici di merito di aver “travisato” il dato documentale relativo al contenuto del programma che, al contrario, la Corte d’appello ha ben tenuto presente giudicandolo inidoneo ed inadeguato rispetto al fatto-reato ed alle finalità perseguite dall’istituto; rispetto a questa valutazion non inficiata dal disconoscimento o dall’omessa considerazione di dati fattuali, la difesa, sostenendo che l’attività prevista presso il RAGIONE_SOCIALE fosse in realtà coerente con il danno alla collettività che sarebbe stato arrecato dalla condotta delittuosa si limita, invero, a manifestare un generico dissenso dal diverso avviso serbato dai giudici di merito ma che non può trovare cittadinanza alcuna in questa sede.
Il secondo motivo è, a sua volta, infondato.
Vero che l’imputazione, al capo A), aveva fatto riferimento al tentativo dell’imputato di impossessarsi, senza riuscirsi, dell’olio contenuto all’interno del trasformatore della cabina ENEL e che, invece, il COGNOME era stato riconosciuto responsabile anche per il tentato furto del rame e del ferro; e, tuttavia, la Corte d’appello ha respinto l’eccezione difensiva, di nullità della sentenza di primo grado per violazione del disposto di cui all’art. 522 cod. proc. pen. con motivazione assolutamente corretta in diritto ovvero, in particolare, osservando che era stato proprio l’imputato ad ammettere che l’obiettivo dell’azione delittuosa erano stati, nell’occasione, proprio il rame ed il ferro (cfr., pag. 5: “noi eravamo lì per il fe … per il rame, per il ferro … l’olio lo stavamo facendo uscire per alleggerire . carcasse”); ha pertanto osservato che “… l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia venuto a trovare nella condizione concreta di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione, come ritenuta in sentenza” (cfr., ivi, ancora pagg. 45).
Le considerazioni dei giudici di merito non si prestano a rilievi di legittimità essendo appena il caso di ribadire che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, per cui l’indagine volta ad accertare la violazio del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. (cfr., così, Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 – 01).
Si è quindi più volte precisato che ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione (cfr., Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera, Rv. 254419 – 01; conf., Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, COGNOME, Rv. 257278 – 01; Sez. 6, n. 38061 del 17/04/2019, Rango, Rv. 277365 – 01).
3. Il terzo motivo è infondato.
Non è inutile richiamare il principio di diritto, più volte ribadito da quest Corte, secondo cui nei reati di danno a forma libera, come il furto, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo (cfr., in materia di furto, Sez. 5, n. 50079 del 15/05/2017, COGNOME, Rv. 271435 – 01; conf., in generale, Sez. 2, n. 16054 del 20.3.2018, Natalizio; Sez. 2, n. 51514 del 5.12.2013, COGNOME, Sez. 5, n. 50079 del 15.5.2017, COGNOME; Sez. 5, n. 18322 del 30.1.2017, COGNOME; Sez. 2, n. 24551 dell’8.5.2015, Supino, Rv, 264226; Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio, Rv. 272677 01).
In ogni caso, la Corte d’appello, prendendo in esame la doglianza difensiva, ha osservato, in punto di fatto, che gli operanti, giunti sul posto, avevano notato “… due persone che fuggivano introducendosi all’interno di un magazzino … le persone venivano subito raggiunte e bloccate” (cfr., pag. 5); ha fatto presente,
pertanto, che l’imputato, ed il complice, si erano dati alla fuga proprio all’arriv delle forze dell’ordine cui era dovuta la interruzione dell’attività criminosa, non imputabile ad una decisione autonoma degli imputati (cfr., Sez. 4, n. 12240 del 13/02/2018, COGNOME, Rv. 272535 – 01, in cui la Corte ha ribadito che la mancata consumazione del delitto deve dipendere dalla volontarietà che non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendono irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa).
4. Il quarto motivo è, a sua volta, infondato.
La Corte d’appello, invero, non ha motivato sulla richiesta difensiva di ricondurre il fatto di ricettazione nella ipotesi “lieve” di cui al quarto comm dell’art. 648 cod. pen.: e, tuttavia, non si può non prendere atto della assoluta genericità della sollecitazione articolata con l’atto d’appello risoltasi nel laconico e indimostrato riferimento al “modestissimo valore commerciale” della vettura senza ulteriori specificazioni.
Ed è pacifico che l’inammissibilità dell’atto di appello per difetto di specificità dei motivi, che la Corte territoriale erroneamente non ha qualificato come tale, può essere rilevata anche in Cassazione ai sensi dell’art. 591, comma 4, cod. proc. pen. (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 2, n. 36111 del 9.6.201 P., Rv. 271123-01).
Altrettanto generico è il rilievo concernente l’aggravante di cui all’art. 625 comma 7-bis cod. pen., contestata sul capo A).
L’art. 8, co. I, lett. a) del D.L. 14 agosto 2013, convertito nella legge n. 119 del 15 ottobre 2013, ha inserito, nell’art. 625 cod. pen, un’apposita aggravante speciale (numerata, per i’appunto, con il 7-bis) finalizzata a contrastare il fenomeno dei furti di materiale pregiato con il risultato d danneggiare le infrastrutture energetiche e di comunicazione; con l’intervento normativo sopra indicato è stato dunque previsto un innalzamento di pena per il delitto di furto se “il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi d trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggett pubblici o da privati in regime di concessione pubblica”.
Con l’atto d’appello la difesa aveva contestato la configurabilità, nel caso di specie, dell’aggravante in parola in quanto !a cabina elettrica, oggetto della condotta dell’odierno ricorrente, apparteneva all’ENEL, soggetto privato operante nel libero mercato dell’energia elettrica.
Prescindendo da ogni altra considerazione, è tuttavia evidente l’assoluta carenza di interesse dell’imputato in ordine a tale censura e, pertanto, la sua radicale inammissibilità: è sufficiente, a tal fine, rilevare che la pena base era stata fissata in relazione al delitto di ricettazione, ritenuto più grave, ed aumentata per il delitto di furto .pluriaggravato: in particolare, sul delitto di tentato furto erano state contestate (e ritenute) tre aggravanti: quella di cui al n. 2), quella di cui n. 7) e, infine, quella di cui al n. 7-bis) dell’art. 625 cod. pen.: la terza aggravante, dunque, non aveva potuto fondare – di per sé – alcun aumento di pena atteso che il comma 2 dell’art. 625 cod. pen. individua – in termini autonomi rispetto al primo comma ed al furto “semplice” – in riferimento al concorso di “… due o più delle circostanze prevedute dai numeri precedenti, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61” essendo, perciò, sufficiente, nel caso di specie, a giustificare l’aumento operato ai sensi dell’art. 81 cod. pen., il ricorso delle prime due.
Solo per completezza, pertanto, è opportuno puntualizzare che, ai sensi dell’articolo 1 del D. Lgs. n. 79/1999, l’attività di distribuzione dell’energia elettrica è svolta in regime di concessione e secondo le modalità individuate dall’articolo 9 del medesimo decreto.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così è deciso, 14/02/2025