Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 12982 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 12982 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a Giffone il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 11/09/2023 della Corte d’appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO COGNOME, la quale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, in ragione della fondatezza del secondo motivo, e che il ricorso sia dichiarato inammissibile nel resto;
lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, difensore di NOME NOME, la quale ha insistito per l’integrale accoglimento del ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 11/09/2023, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del 02/03/2022 del G.i.p. del Tribunale di Monza, emessa in esito a giudizio abbreviato, di condanna di NOME COGNOME alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione ed C 1.600,00 di multa per i reati, unificati dal vincolo della continuazione di: a) tentata rapina impropria pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia commessa con armi e dall’essere stato il fatto
commesso in uno dei luoghi di cui all’art. 624-bis cod. pen.), di cui al capo A) dell’imputazione; b) porto aggravato (dal cosiddetto nesso teleologico) fuori della propria abitazione senza giustificato motivo di un coltello, di cui al capo B) dell’imputazione; c) lesioni personali aggravate (sempre dal cosiddetto nesso teleologico), di cui al capo C) dell’imputazione.
Avverso l’indicata sentenza del 11/09/2023 della Corte d’appello di Milano, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza «o quantomeno difetto dell’apparato motivazionale, con riferimento alla valutazione delle prove acquisite ed alla mancata assoluzione» per il reato di tentata rapina impropria di cui al capo A) dell’imputazione.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Milano avrebbe «omesso di prestare rilievo alle risultanze probatorie», «richiamando pedissequamente la sentenza di primo grado», la quale, a sua volta, si sarebbe fondata su «argomentazioni, per un verso, carenti nelle motivazioni e, per l’altro, illogiche poiché prive di una valutazione complessiva di tutti gli elementi probatori». In particolare, la ricostruzione dell’episodio fatta propria dal G.i.p. del Tribunale Monza, da un lato, sarebbe stata «priva di riscontri probatori esterni» e, dall’altro lato, non avrebbe tenuto adeguatamente conto che «vi è anche una ricostruzione alternativa della vicenda (quella fornita dall’imputato) che, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, può validamente considerarsi dotata di razionalità e plausibilità pratica».
Il ricorrente rappresenta che difetterebbero gli elementi costitutivi del reato di rapina impropria giacché egli non avrebbe adoperato alcuna violenza o minaccia per procurarsi l’impunità, atteso che: quanto alla violenza, le lesioni riportate dall persona offesa NOME COGNOME non sarebbero addebitabili all’imputato ma «ad una caduta accidentale»; quanto alla minaccia, dal racconto dello stesso COGNOME «parrebbe più plausibile pensare che il NOME abbia eventualmente estratto l’arma per difendersi dall’aggressione della persona offesa e non certo per minacciare la medesima».
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 628, terzo comma, n. 3-bis), cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista da tale disposizione, dell’avere commesso il fatto in uno dei luoghi di cui all’art. 624-bis cod. pen.
Nel richiamare la nozione di luogo destinato a privata dimora come chiarita dalla sentenza D’COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017, COGNOME, Rv. 270076-01), il ricorrente rappresenta che la palestra nella quale era stato commesso il fatto non avrebbe le caratteristiche del luogo di privata dimora, atteso che «l’azione furtiva del NOME, che ha forzato tre cassetti e la macchinetta del caffè, siti nell’atrio della palestra ha avuto oggetto beni custoditi in luoghi normalmente accessibili al pubblico».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 623, terzo comma, n. 1), cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell’avere commesso la minaccia con arma.
Il ricorrente ribadisce che, come già esposto nel primo motivo, «anche a voler considerare attendibile la versione dei fatti fornita dal COGNOME, dal raccon parrebbe più plausibile pensare che il COGNOME abbia eventualmente estratto l’arma per difendersi dall’aggressione della persona offesa e non certo per minacciare la medesima», con la conseguenza che il coltello «non sarebbe stato utilizzato dal COGNOME al fine di garantirsi l’Impunità e, conseguentemente, non può essere contestata al medesimo l’aggravante in questione».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non è consentito.
1.1. Costituisce un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probator del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 28074701; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965-01).
Inoltre, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per il dichiarante coinvolto nel fatto (ex plurimis: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE‘Arte, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del
26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730-01).
Le Sezioni unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
1.2. Quest’ultima circostanza è del tutto assente nel caso di specie, nel quale le conformi sentenze dei giudici di merito hanno ritenuto l’attendibilità di quanto era stato riferito dalla persona offesa NOME COGNOME nella propria denunciaquerela circa il fatto che l’imputato, dopo essersi impossessato della refurtiva, inseguito dal COGNOME, prima si voltava verso di lui puntandogli contro un coltello a circa un metro e mezzo di distanza, poi, dopo che aveva ripreso a scappare, essendo stato raggiunto e afferrato dal COGNOME, aveva iniziato una violenta colluttazione con lo stesso.
Il G.i.p. del Tribunale di Monza ha altresì evidenziato come l’inattendibilità della versione dei fatti che era stata fornita dal NOME in sede di interrogatorio, in particolare della tesi dell’imputato secondo cui egli non avrebbe estratto il coltello per minacciare il COGNOME ma lo stesso coltello (che era stato rinvenuto dai Carabinieri sul pavimento della palestra) avrebbe potuto essergli caduto dallo zaino durante la fuga, era smentita dal fatto che le immagini registrate dalla telecamera di videosorveglianza mostravano l’imputato intento, prima di darsi alla fuga, a richiudere il proprio zaino, ciò che escludeva che, come da lui invece sostenuto, il coltello potesse essergli caduto accidentalmente dallo stesso zaino.
Poiché, pertanto, si deve escludere che i giudici di merito, nel valutare come attendibili le dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME, siano incorsi in contraddizioni, tanto meno manifeste, tale giudizio di attendibilità non può essere oggetto di rivalutazione in questa sede di legittimità.
Risulta, poi, palese, come l’utilizzo della minaccia (consistita nel puntare un coltello contro la persona offesa) e della violenza (consistita nell’ingaggiare una violenta colluttazione sempre con la persona offesa) fossero diretti a sottrarsi all’inseguimento da parte della stessa, facendo perdere le proprie tracce e, in tale modo, ad assicurarsi il possesso della refurtiva e a procurarsi l’impunità, con la conseguente integrazione degli elementi costitutivi dell’attribuito reato di rapina impropria di cui al secondo comma dell’art. 628 cod. pen.
2. Il secondo motivo è fondato.
Costituisce un orientamento interpretativo ormai consolidato quello che corrisponde al principio, affermato dalla già citata sentenza D’COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 624-bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e che non siano accessibili a terzi senza il consenso del titolare (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, COGNOME, cit.).
Tale principio si deve ritenere applicabile anche ai fini della configurabilità (o no) della circostanza aggravante del delitto di rapina prevista dal n. 3-bis) del terzo comma dell’art. 628 cod. pen., atteso che tale disposizione fa espresso rinvio alla commissione del fatto di rapina «nei luoghi di cui all’articolo 624 bis» cod. pen.
Sulla base di un’interpretazione sia letterale sia sistematica della locuzione utilizzata in quest’ultimo articolo – «luogo destinato in tutto ci in parte a priva dimora», le Sezioni unite hanno chiarito che, affinché si possa ritenere la sussistenza di un tale luogo, sono indefettibilmente necessari i seguenti tre elementi caratterizzanti: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, senza il consenso del titolare.
Tale connotazione della nozione di «luogo di privata dimora» comporta che il giudice di merito dovrà analizzare compiutamente i caratteri concreti del luogo, eventualmente anche lavorativo, in cui sono avvenuti il furto o la rapina e, alla luce dei parametri indicati, concludere per la sussistenza (o no) del reato (di furto in abitazione) o dell’aggravante (della rapina) sulla base dell’esistenza (o no) degli elementi che sono stati ritenuti necessari ai fini della configurabilità dell fattispecie.
In quel caso specifico, nel fare applicazione delle linee ermeneutiche così tracciate con riferimento ai luoghi di lavoro, le Sezioni unite hanno precisato essere indubbio che in tali luoghi l’individuo svolga atti della vita privata, ma che ciò non è sufficiente per affermare che si tratti di luogo di prival:a dimora (con l conseguente tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio), ciò essendo possibile solo qualora i suddetti luoghi abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione, cioè se in essi, o in parte di essi, il soggetto compie atti della v privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio: retrobottega; bagni privati o spogliatoi; area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
Nel caso in esame, come è specificato nella sentenza di primo grado (pag. 3), dalle immagini registrate dalla telecamera di videosorveglian2:a non risulta che il fatto sia avvenuto in luoghi della palestra aventi le suddette caratteristiche proprie dell’abitazione, cioè in parti di essa in cui il soggetto compie atti della vita priva in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi, ma solo in parti della stessa palestra accessibili a un numero indeterminato di persone ,con riferimento ai quali, pertanto, appare fuor di luogo invocare la riservatezza o la necessità di tutela della sfera priva dell’individuo.
Il terzo motivo è manifestamente infondato.
La persona offesa NOME COGNOME – la valutazione della cui credibilità, come si è già detto esaminando il primo motivo, essendo esente da manifeste contraddizioni, non è sindacabile in questa sede -, nella propria denuncia-querela, aveva riferito che l’imputato, dopo essersi impossessato della refurtiva, inseguito dallo stesso COGNOME, si era voltato verso di lui puntandogli contro un coltello (pag. 3 della sentenza di primo grado).
Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, da tale racconto non emerge alcuna «aggressione della persona offesa» nei confronti del rapinatore COGNOME, atteso che il COGNOME si stava limitando a inseguirlo allorquando lo stesso COGNOME si voltò verso di lui puntandogli contro il coltello. Con la conseguenza che, sempre diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non è affatto «più plausibile pensare che il NOME abbia eventualmente estratto l’arma per difendersi dall’aggressione della persona offesa».
Del tutto logicamente, perciò, la Corte d’appello di Milano ha ritenuto che il coltello fosse stato piuttosto utilizzato per commettere una minaccia finalizzata a sottrarsi all’inseguimento della persona offesa,, così da assicurarsi il possesso della refurtiva e da procurarsi l’impunità, con la conseguenza che, col ritenere integrata la circostanza aggravante della rapina dell’essere stata la minaccia commessa con armi (il coltello), la Corte d’appello di Milano non è evidentemente incorsa nella denunciata erronea applicazione dell’art. 628, terzo comma, n. 1), cod,.pen.
Pertanto: a) la sentenza impugnata deve essere annullata, esclusa l’aggravante di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-bis), cod. pen., limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Milano per un nuovo giudizio sul punto, non essendo nella specie possibile per il Collegio rideterminare direttamente la pena sulla base delle statuizioni del giudice di merito; b) il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel resto; c) ai sensi dell’art. 624, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., deve essere dichiarata l’irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità.
Annulla la sentenza impugnata, esclusa l’aggravante di cui all’art. 628 co. 3 n. 3 bis c.p., limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio sul punto. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso e definitivo il giudizio di responsabilità.
Così deciso il 06/02/2024.