Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 37107 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 37107 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Catania il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 04/04/2024 del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO; lette le conclusioni del AVV_NOTAIO per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, con ordinanza in data 4 aprile 2024, ha rigettato il reclamo proposto da NOME COGNOME avverso l’ordinanza con cui il Magistrato di sorveglianza di L’Aquila ha respinto il reclamo con il quale il detenuto ha chiesto di ripristinare il regime dei colloqui e delle telefonate di cui ha beneficiato in precedenza, cioè prima dell’applicazione nei suoi confronti del regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen., senza che operassero le limitazioni previste dagli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000.
NOME COGNOME è condannato alla pena dell’ergastolo per i reati di omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso, entrambi commessi nel 1990 o comunque sino al 1990.
Lo stesso è detenuto dall’anno 1992 circa e dal 1993 al 2007 è stato sottoposto a regime di 41 bis ord. pen.
.-
Prima di essere sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ha usufruito dei colloqui “ordinari”.
Il D.P.R. 230/2000 ha stabilito il numero di sei colloqui visivi e quattro telefonici. Agli artt. 37 e 39 ha previsto la limitazione per i condannati per reati di cui all’art. 4 bis primo comma, primo periodo a quattro visivi e due telefonici.
La circolare D.A.P. 3 novembre 2000 ha stabilito che la normativa vada applicata ai detenuti e agli internati ristretti dopo il 6 settembre 2000.
A fronte di tale quadro normativo e di tale situazione il Tribunale ha evidenziato che a COGNOME, detenuto ininterrottamente dal 1992, dovrebbe, in astratto, applicarsi il precedente regime, cioè quello di maggior favore.
Ciò detto, però, lo stesso Tribunale ha ritenuto che questo sia impedito dal fatto che la sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. ha determinato una regressione trattamentale.
Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’interessato che, a mezzo del difensore, ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 18 ord. pen., 37, comma 8, 39, commi 2 e 7, D.P.R. 230 del 2000, 25 cost. e 7 Cedu, anche con riferimento allo scioglimento del cumulo. La difesa, in un articolato motivo, rileva che il Tribunale avrebbe erroneamente interpretato e applicato la normativa in quanto:
-i reati sono stati commessi nel 1990 per cui a COGNOME, a seguito della sentenza n. 32 del 2020 della Corte cost., non potrebbero applicarsi le limitazioni di cui all’art. 4 bis ord. pen.;
-nello specifico, poi, si sarebbe dovuto comunque procedere allo scioglimento del cumulo per cui il reato in esecuzione non sarebbe l’associazione a delinquere di tipo mafioso, delitto compreso nell’art. 4 bis, primo comma, primo periodo, ma l’omicidio di cui all’art. 575 cod. pen. senza che questo possa considerarsi aggravato ex art. 416 bis.1 cod. pen. in quanto l’aggravante della quale si tratta è stata introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, conv. con I n. 203 del 1991, dopo la commissione del reato e, quindi, non è stata contestata né ritenuta;
-la circostanza che il condannato sia stato sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. dal 1993 all’anno 2007 non comporterebbe il divieto di applicare il regime più favorevole che, anzi, avrebbe dovuto essere già ripristinato non appena cessato tale regime.
In data 11 giugno 2024 sono pervenute in cancelleria le conclusioni scritte con le quali il AVV_NOTAIO NOME COGNOME chiede che il ricorso sia rigettato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
In un unico motivo di ricorso la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’applicabilità al ricorrente delle limitazion previste dagli artt. 37, comma 8, 39, commi 2 e 7, D.P.R. 230 del 2000 nel caso in cui la pena in esecuzione si riferisca a reati di cui all’art. 4 bis, primo comma, primo periodo, ord. pen. e circa l’interpretazione della circolare D.A.P. 3 novembre 2000 contenuta nel provvedimento impugnato.
Le doglianze sono fondate nei termini che seguono.
2.1. Il regime dei colloqui dei detenuti è regolato dagli artt. 18 ord. pen., 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000.
Per quanto rileva nel caso di specie, il comma 8 dell’art. 37 e i commi 2 e 7 dell’art. 39 prevedono delle limitazioni per i condannati e gli internati per i quali l’esecuzione riguardi la pena inflitta in relazione a uno dei reati previsti dal primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis ord. pen.
2.2. La difesa, in prima battuta, facendo riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 32 del 2020, rileva che la limitazione non sarebbe applicabile al ricorrente in quanto la pena in esecuzione si riferisce a reati commessi in data anteriore al 1991.
La censura è infondata.
Nella pronuncia citata la Corte costituzionale -sollecitata a seguito della diversa disciplina introdotta in materia di reati contro la pubblica amministrazione che prevedono limitazioni per la concessione di benefici penitenziari e per le misure alternative alla detenzione- era chiamata a pronunciarsi circa la compatibilità costituzionale e convenzionale del pacifico orientamento giurisprudenziale, costituente diritto vivente, per cui le modificazioni apportate all’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. sono applicabili anche ai fatti di reato pregressi in virtù del principio tempus regit actum che opera per la fase esecutiva.
La conclusione della Corte costituzionale è stata nel senso della «l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale», nonché della «l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso».
Il tenore testuale del dispositivo e, soprattutto, la motivazione della sentenza, non consentono di ritenere che la dichiarazione di illegittimità si estenda a tutti gli istituti e all’intera disciplina dell’esecuzione.
Da una parte, infatti, la Corte ha espressamente confermato la regola generale per cui in fase esecutiva opera il principio tempus regit actum, in quanto ha ribadito che «non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato» (cfr. punti 4.3.2 della sentenza e seguenti).
Dall’altra ha evidenziato che «La regola appena enunciata deve, però, soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc’anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato. Ciò si verifica, paradignnaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen turis, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, pri ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25,
secondo comma, Cost. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo».
In tal modo il giudice delle leggi, quindi, in sintesi, procedendo a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena, non si è pronunciato in assoluto per l’illegittimità dell’applicazione del principio tempus regit actum alla fase dell’esecuzione ma, piuttosto, ne ha confermato l’operatività ribadendo che questa costituisce la regola, generale e astratta, che però, in via di eccezione, non può essere seguita per alcuni specifici istituti che, per loro natura, hanno una diretta incidenza sostanziale sulla natura della pena (per una prima analisi Sez. 1, n. 31753 del 1/7/2024, Viola, n.m.).
2.3. Il regime dei colloqui, che pure regola le modalità di esercizio e incide su un diritto soggettivo del detenuto, non afferisce alla natura, alla qualità o alla quantità della pena.
A tale regime, pertanto, come correttamente ritenuto dai giudici della sorveglianza, non si applica il divieto di retroattività delle norme più sfavorevoli di cui all’art. 25, comma 2, cost.
2.4. Sotto altro profilo il ricorrente evidenzia che allo stato, comunque, si sarebbe dovuto procedere allo scioglimento del cumulo in quanto la pena ora in esecuzione non si riferisce a un reato che rientra tra quelli previsti dell’art. 4 bis, primo comma, primo periodo, ord. pen. e pertanto allo stesso non si applica la limitazione ai colloqui e alla corrispondenza telefonica di cui agli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000. Ciò anche a fronte di quanto previsto dalla circolare del D.A.P. del 3 novembre 2000 per cui la nuova disciplina opera solo nei confronti dei soggetti ristretti per reati ostativi dopo il 6 settembre 2000.
La censura è fondata nei termini che seguono.
2.4.1. NOME COGNOME è detenuto ininterrottamente dall’anno 1992 per i reati di associazione a delinquere di tipo mafioso e di omicidio volontario, entrambi commessi nell’anno 1990.
Lo stesso è stato sottoposto a regime ordinario dalla data di inizio della detenzione sino al 2 febbraio 1993, allorché gli è stato applicato il regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen., durato sino al 12 aprile 2007.
Da tale data e sino a oggi, per quanto risulta dagli atti, la pena viene eseguita nuovamente in regime ordinario.
2.4.2. Il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. per cui il ricorrente è stato condannato è espressamente compreso nell’indicazione e di cui all’art. 4 bis,
primo comma, primo periodo, ord. pen. e, pertanto, comporta l’applicazione della limitazione di cui agli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000.
Il diverso reato di omicidio volontario, invece, non comporta necessariamente l’applicazione della medesima limitazione.
In assenza della formale contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. 152 del 1991, infatti, il giudice della sorveglianza, al fine di verificare se il rea rientra tra quelli indicati dall’art. 4 bis ord. pen., è tenuto a verificare, puntualmente e in concreto, dandone conto nella motivazione, della sussistenza, in fatto, delle condizioni previste dalla norma (in questo senso, recentemente Sez. 1, n. 41235 del 26/06/2019, COGNOME, Rv. 277451 – 01; Sez. 1, n. 33565 del 21/05/2019, COGNOME, Rv. 276496 – 01; in precedenza, tra le tante, Sez. 1, n. 45137 del 20/06/2014, COGNOME, Rv. 261130 – 01).
Nel caso di specie la motivazione del provvedimento impugnato, considerato anche che il delitto è stato commesso in data antecedente l’entrata in vigore della previsione della circostanza aggravante, è sul punto totalmente inesistente così che non è possibile comprendere se, procedendo allo scioglimento del cumulo, la pena allo stato in esecuzione si riferisca o meno a un reato per il quale gli articoli 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000 prevedono la limitazione .
2.4.3. A fronte della specifica affermazione del Tribunale per cui al ricorrente in astratto si dovrebbe applicare la disposizione intertemporale contenuta nel paragrafo 12 della “Circolare 3 novembre 2000 – colloqui e corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati, articoli 37 e 39 d.p.r. 230/2000” (secondo la quale le limitazioni previste dagli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000 si riferiscono ai soggetti ristretti per reati ostativi dopo il 6 settembre 2000 e non ai
soggetti già ristretti in tale data, pure per reati ostativi, laddove questi erano gi stati ammessi ai colloqui premiali, anche se non ne avevano in concreto fruito) ma che questa soluzione è esclusa in virtù di quanto disposto dal successivo paragrafo 14, d’altro canto, quello che assume un rilievo ancora più pregnante è la necessità di verificare se nel caso di specie sia operativa o meno l’eccezione di cui al citato paragrafo 14 della circolare.
Ciò in quanto, in caso di risposta negativa, al ricorrente, che è ristretto per un reato ostativo ininterrottamente da data precedente al 6 aprile 2000, non si applicherebbe comunque la limitazione prevista per i colloqui, anche a prescindere dall’essere il reato in esecuzione ostativo,
Sotto tale profilo il mero rinvio contenuto nel provvedimento impugnato alla previsione di cui al paragrafo 14 della medesima circolare -per cui “Il precedente carattere premiale dei colloqui ulteriori per i soggetti individuati nel § 13, inoltre richiede che la particolare circostanza sia supportata dalla permanenza delle stesse condizioni. Ciò non per una sorta di ultrattività della norma sul colloquio premiale, quanto per la necessità che la particolare circostanza resti integrata dal requisito del non regresso nel percorso rieducativo”- non è da solo decisivo.
Le disposizioni contenute in una circolare che regolano e limitano un diritto soggettivo del detenuto, infatti, devono essere oggetto di stretta e rigorosa interpretazione e applicazione per cui il giudice è tenuto, considerando la situazione e la posizione specifica del detenuto, a bilanciare i contrapposti interessi e, quindi, a verificare in concreto se la compressione dei diritti del soggetto sia legittima.
A ben vedere, l’automatica applicazione dell’eccezione contenuta nel paragrafo 14, pure giustificata in sede di prima gestione dell’iniziale applicazione della limitazione prevista dagli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000, non è coerente con il sistema allorché il percorso trattamentale del detenuto è ripreso in regime ordinario e questo si è protratto per un tempo significativo.
In tale situazione, infatti, considerato anche che le previsioni relative al numero e alle modalità di effettuazione dei colloqui si riferiscono alla gestione ordinaria degli stessi e non hanno alcun carattere premiale, si deve ritenere che, nel caso in cui il percorso trattamentale sia effettivamente e positivamente ripreso, il giudice sia tenuto ad accertare in concreto, rendendo congrua e puntuale motivazione sul punto, se l’interruzione del regime di maggior favore abbia determinato una regressione del percorso trattarnentale tale da rientrare, ora per.allora, nella limitazione ai colloqui e alla corrispondenza telefonica di cui agli artt. 37 e 39 D.P.R. 230 del 2000 in virtù dell’indicazione contenuta nel paragrafo 14 della circolare, che, è bene ricordarlo, ha natura eccezionale e si riferisce ai primi periodi di applicazione della modifica normativa.
2.5. Alla luce delle considerazioni esposte nel caso di specie, nel quale il detenuto è stato di nuovo sottoposto al regime ordinario dal 12 aprile 2007 a oggi, la motivazione del provvedimento impugnato quanto all’applicazione o meno della normativa ordinaria della disciplina dei colloqui è, nel senso in precedenza indicato, carente.
L’ordinanza impugnata, in conclusione, deve essere annullata con rinvio affinché il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, libero nell’esito e attenendosi ai principi indicati, proceda a un nuovo giudizio sul punto.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila.
Così deciso il 28/6/2024