Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 33865 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 33865 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME COGNOME; nato a Napoli il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 30/05/2023 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla configurabilità della continuazione, con rinvio per nuovo esame sul punto, nonché il rigetto del ricorso nel resto.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 30 maggio 2023, la Corte di appello di Napoli ha confermato – quanto alla responsabilità penale – la sentenza del Gip del Tribunale di Noia del 13 dicembre 2022, con la quale l’imputato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, era stato condannato alla
pena di anni 6 di reclusione ed C 30.000,00 di multa, nonché dichiarato interdetto dai pubblici uffici per cinque anni, per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen. e art. 73, commi 1 e 4, del d.P.R. n. 309 del 9 ottobre 1990, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, cedeva due dosi di sostanza stupefacente di natura e peSo imprecisati a soggetti non identificati e deteneva, al fine di spaccio, 7,07 grammi di sostanza stupefacente del tipo crakcocaina e 19,25 grammi di sostanza stupefacente del tipo hashish, oltre alla somma in contanti di C 530,00. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la sentenza di appello ha rideterminato la pena in anni 5 e mesi 4 di reclusione ed C 30.000,00 di multa.
Avverso la sentenza l’imputato, tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, lamenta il ricorrente la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, rappresentando, dopo richiami ai principi giurisprudenziali in materia, che le condotte avrebbero dovuto essere derubricate nella predetta fattispecie di lieve entità, in considerazione sia del quantitativo di stupefacente sequestrato inferiore al limite di 150 grammi individuato dalla giurisprudenza di legittimità sia dei mezzi e delle modalità della condotta, invero, afferenti, secondo la prospettazione difensiva, ad una struttura organizzativa rudimentale e minimale, non ostando a tale qualificazione la contestuale detenzione di droghe diverse, anche laddove appartenenti a differenti tabelle.
2.2. In secondo luogo, si censurano la violazione di legge ed il difetto di motivazione, con riferimento all’erronea applicazione della continuazione di cui all’art. 81 cod. pen., per avere la Corte territoriale erroneamente applicato la disciplina del concorso formale tra la contestuale detenzione e cessione di stupefacente. Nello specifico, si sarebbe omesso di considerare che, essendo i fatti commessi senza soluzione di continuità, nello stesso luogo e a distanza di poco tempo gli uni dagli altri, essi sarebbero stati volti ad un unico fine, costituendo, pertanto, un unico reato.
2.3. Con un terzo motivo di ricorso, si deducono, infine, la violazione di legge e i vizi della motivazione quanto al trattamento sanzionatorio e, segnatamente, al diniego delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione. Nel caso di specie, non si sarebbe tenuto conto dell’estraneità dell’imputato da ambienti di criminalità organizzata, del non utilizzo dell’attività delittuosa qual normale fonte di reddito e della stessa scelta di farsi giudicare allo stato degli atti altresì disattendendo l’onere motivazionale imposto in materia dalla richiamata giurisprudenza di legittimità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di censura, riferito alla mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, è inammissibile perché formulato in modo aspecifico – in quanto meramente reiterativo di quanto già prospettato con l’atto di appello e motivatamente respinto in secondo grado, senza alcun confronto, nemmeno a fini di critica, con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970; Sez. 3, n. 44882 del 18/08/2014, Rv. 260608) – ed altresì diretto a sovrapporre alla motivazione della sentenza una rivalutazione arbitraria del quadro istruttorio, già adeguatamente scrutinato dai giudici di secondo grado.
Come correttamente evidenziato dalla Corte di appello, infatti, depongono, in senso contrario alla prospettazione difensiva, molteplici elementi, quali: a) la diversa tipologia di stupefacente caduto in sequestro, la quale, se non osta di per sé alla configurazione della lieve entità (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Rv. 274076), è certamente dimostrativa della notevole capacità di rifornimento del prevenuto; b) la cospicua somma di denaro detenuta dall’imputato a riprova dello smercio illecito; c) il rinvenimento di un manoscritto, contenente la contabilità del predetto traffico; d) l’organizzazione e la professionalità dell’attività; e) lo stabi inserimento dell’imputato in un contesto criminale specificamente dedito al narcotraffico, quale la piazza di spaccio interna al quartiere Cisternina; f) i comportamento di fuga adottato dal prevenuto alla vista degli operanti. Ciò che, complessivamente, dà luogo ad un quadro probatorio chiaro ed univoco nel senso non solo della responsabilità penale dell’imputato – altresì confermata dalle dichiarazioni confessorie rese da costui in sede di interrogatorio – ma anche della non minore offensività delle condotte lui addebitate.
Ai fini del riconoscimento dell’attenuante della lieve entità del fatto, del resto, come più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 6, n. 9723 del 17/01/2013, Rv. 254695) ed altresì confermato anche dal più recente ed autorevole insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U., n. 51063 del 27/09/2018, Rv. 274076), la valutazione degli indici di lieve entità elencati nel comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – quali i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione illecita, nonché la qualità e la quantità delle sostanze – deve essere complessiva, dovendosi abbandonare l’idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo od escludendo, cioè la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri.
Né, infine, può ritenersi condivisibile quanto affermato da un’isolata pronuncia, ancorché recente, di questa Corte che ha operato uno studio su un campione statistico, peraltro non significativo perché relativo a decisioni emesse da questa Corte solo nel triennio 2020/2022, individuando i limiti massimi e minimi nei quali è stata riconosciuta l’ipotesi della lieve entità (Sez. 6, n. 45061 del 03/11/2022). Trattasi, infatti, di decisione che, pur apprezzabile nell’intento di quantificare i casi in cui sarebbe ravvisabile l’ipotesi lieve, collide con quanto affermato dalla stessa Sezione, laddove ha puntualizzato che la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309 del 1990, non può essere desunta sulla base del solo parametro quantitativo, derivante dal dato statistico relativo alle pronunce rese in un determinato ufficio giudiziario che hanno riconosciuto la minore gravità del fatto, posto che, per l’accertamento della lieve entità, si deve far riferimento all’apprezzamento complessivo degli indici che la norma richiama (Sez. 6, n. 7464 del 28/11/2019, dep. 2020, Rv. 278615; analogamente, Sez. 3, n. 12551 del 14/02/2023, Rv. 284319).
1.2. Il secondo motivo di censura, con il quale si deduce l’erronea applicazione della continuazione di cui all’art. 81 cod. pen., è anch’esso inammissibile.
Secondo il principio più volte affermato dalla Corte di cassazione in materia di reati concernenti sostanze stupefacenti, le diverse condotte previste dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, perdono la loro individualità se costituiscono manifestazione del potere di disposizione della medesima sostanza; tale assorbimento – con conseguente esclusione del concorso di reati – è subordinato al duplice presupposto che si tratti della stessa sostanza stupefacente e che le condotte siano state poste in essere contestualmente r ossia indirizzate ad un unico fine e senza apprezzabile soluzione di continuità; quando, invece, le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale, esse costituiscono più violazione della stessa disposizione di legge e, quindi, distinti reati, eventualmente unificati nel vincolo della continuazione (Sez. 6, n. 11360 del 08/07/1994; Rv. 199368; Sez. 2, n. 5632 del 18/01/1996, Rv. 205285; Sez. 6, n. 2411 del 30/06/1998, Rv. 211264; Sez. 6, n. 230 del 17/11/1999, Rv. 215175; Sez. 4, n. 22588 del 07/04/2005, Rv. 232094; Sez. 6, n. 9477 del 11/02/2009, Rv. 246404; Sez. 3, n. 7404 del 15/01/2015, Rv. 262421; Sez. 6, n. 22549 del 28/03/2017, Rv. 270266).
La motivazione fornita dalla Corte di appello per escludere l’unicità del reato nel caso in esame è duplice. In primo luogo, si rileva l’inammissibilità della doglianza, trattandosi di un motivo nuovo non connesso con i motivi principali di appello, mentre i motivi nuovi di impugnazione devono essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall’impugnazione principale già presentata, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i
motivi nuovi e quelli originari (ex plurimis, Sez. 3, n. 2873 del 30/11/2022, dep. 24/01/2023, Rv. 284036; Sez. 6, n. 6075 del 13/01/2015, Rv. 262343). In secondo luogo, si valorizzano, contro la contestualità della detenzione, la diversità delle sostanze stupefacenti e i tempi diversi delle separate cessioni delle stesse.
La prospettazione difensiva risulta priva di specificità, perché trascura ogni critica al primo, assorbente, profilo decisorio, limitandosi a formulare mere asserzioni per contestare il secondo profilo.
1.3. Inammissibile è pure il terzo motivo di doglianza, relativo a violazione di legge e vizi della motivazione quanto al trattamento sanzionatorio.
Nello specifico, rileva il Collegio come la mancata concessione in favore dell’imputato delle attenuanti generiche nella loro massima estensione non imponga al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall’imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex art. 27 Cost. (Sez. 2, n. 17347 del 26/01/2021, Rv. 281217; Sez. 7, n. 39396 del 27/05/2016, Rv. 268475). La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis cod. pen., peraltro, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato · (ex multis, Sez.. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ebbene, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha fatto buon governo dei predetti principi allorché, con motivazione idonea ed esaustiva, ha rilevato come non vi fossero ragioni giustificative del riconoscimento dell’invocato beneficio nella massima estensione, valorizzando il completo apparato probatorio – determinato, a carico dell’imputato, dall’essere stato costui colto in flagranza – ed escludendo la possibilità di considerare la scelta del ricorrente di farsi giudicare allo stato degl atti, mediante il rito abbreviato, come indice di un atteggiamento collaborativo, trattandosi, invero, di un’opzione processuale alla quale è connesso l’interesse dello stesso imputato allo sconto di pena che ne deriva.
Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia
proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 31/05/2024.