Lieve Entità Spaccio: Quando la Reiterazione Esclude il Fatto di Minore Gravità
Il concetto di lieve entità spaccio, previsto dall’articolo 73, comma 5, del Testo Unico sugli Stupefacenti, rappresenta un’importante valvola di sicurezza del nostro sistema penale, consentendo di distinguere tra attività criminali strutturate e condotte occasionali di minore allarme sociale. Tuttavia, la sua applicazione non è automatica e dipende da una valutazione complessiva del caso. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce quali elementi ostacolano il riconoscimento di questa attenuante, confermando un orientamento rigoroso.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato contro una sentenza della Corte d’Appello di Firenze. La difesa contestava principalmente due aspetti: la mancata qualificazione dei reati di spaccio come fatto di “lieve entità” e l’eccessività dell’aumento di pena applicato per la continuazione tra i vari episodi delittuosi. Secondo il ricorrente, la sua attività non possedeva le caratteristiche di gravità tali da giustificare la condanna inflitta.
La Valutazione sulla Lieve Entità Spaccio
La Corte di Cassazione ha respinto il primo motivo di ricorso, ritenendolo inammissibile. I giudici hanno evidenziato che la Corte d’Appello aveva già correttamente esaminato e motivato la sua decisione, escludendo la lieve entità spaccio sulla base di elementi concreti e non illogici. La valutazione complessiva della vicenda ha tenuto conto di:
* Quantitativo delle dosi: Il numero totale di dosi detenute e cedute è stato un primo fattore determinante.
* Reiterazione della condotta: L’attività di spaccio si è protratta per diversi mesi, dimostrando una persistenza nel tempo che mal si concilia con l’occasionalità.
* Stabilità delle forniture: Le cessioni avvenivano con cadenze molto ravvicinate, indicando un’organizzazione stabile e non un’attività sporadica.
* Entità dei guadagni: La somma di denaro sequestrata al momento del controllo è stata considerata un chiaro indicatore dei profitti illeciti, incompatibile con un fatto di lieve entità.
La Corte ha ribadito il principio, già sancito dalle Sezioni Unite, secondo cui l’accertamento della lieve entità richiede un’analisi globale di tutti gli indici sintomatici previsti dalla norma, senza potersi soffermare su un singolo aspetto.
L’Aumento di Pena per la Continuazione
Anche il secondo motivo di ricorso, relativo all’aumento di pena per la continuazione, è stato giudicato inammissibile. La Corte ha ritenuto che la valutazione del giudice di merito, che aveva considerato equivalenti in termini di gravità i vari episodi di cessione continuata, non fosse manifestamente illogica. Di conseguenza, l’aumento di pena applicato è stato ritenuto congruo e giustificato.
Le Motivazioni
La decisione della Suprema Corte si fonda sul principio che il giudizio di legittimità non può trasformarsi in una nuova valutazione dei fatti. Il ricorso è stato giudicato inammissibile perché si limitava a riproporre le stesse argomentazioni già adeguatamente vagliate e respinte nei gradi di merito, senza individuare vizi logici o giuridici nella motivazione della sentenza impugnata. La Corte d’Appello aveva applicato correttamente i principi giurisprudenziali consolidati, valorizzando una pluralità di elementi che, nel loro insieme, delineavano una condotta criminale non marginale, ma dotata di una certa organizzazione e redditività. Tale approccio olistico è l’unico corretto per stabilire se un fatto possa rientrare nell’ipotesi attenuata del comma 5 dell’art. 73.
Le Conclusioni
Questa ordinanza rafforza un importante principio: la qualificazione di un fatto come lieve entità spaccio non può basarsi su una visione parziale o isolata, ma deve scaturire da un’attenta analisi complessiva. La durata dell’attività, la sua frequenza, la quantità di sostanza trattata e i profitti generati sono tutti indicatori cruciali che, se presenti con una certa consistenza, portano a escludere il beneficio. La decisione serve da monito: la sistematicità e l’organizzazione, anche a un livello non imprenditoriale, sono sufficienti per configurare un reato in tutta la sua gravità, con le relative conseguenze sanzionatorie, inclusa la condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria in caso di inammissibilità del ricorso.
Quali elementi escludono la qualificazione di un reato di spaccio come fatto di lieve entità?
Secondo la Corte, la qualificazione di lieve entità è esclusa da una valutazione complessiva che consideri elementi come il quantitativo totale di dosi cedute, la reiterazione delle condotte per più mesi, la stabilità e frequenza delle forniture e l’entità dei guadagni desumibili dal denaro sequestrato.
Perché il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi proposti erano meramente riproduttivi di censure già correttamente esaminate e respinte dalla Corte di merito con argomenti giuridici corretti e privi di manifesta illogicità. In sostanza, non contestava vizi di legittimità della sentenza, ma tentava di ottenere una nuova valutazione dei fatti.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta, oltre alla conferma della decisione impugnata, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una sanzione pecuniaria (in questo caso, 3.000 euro) in favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 11536 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 11536 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: NOME nato il 11/12/1991
avverso la sentenza del 23/04/2024 della CORTE APPELLO di FIRENZE
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Rilevato che il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME che contesta la mancata qualificazione del fatto ai sensi del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 de 1990 con riferimento ai capi 1), 8), 9), 10) e 11) – è inammissibile perché meramente riproduttivo di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argome giuridici dalla Corte di merito, la quale, con motivazione immune da profili di illog manifesta – e quindi non censurabile in sede di legittimità – ha escluso la qualificazione d fatto in termini di “lieve entità” valorizzando gli elementi accertati nel caso concreto, oss quantitativo di dosi complessivamente detenute e cedute, la reiterazione della condotte dell’arco di più mesi, la stabilità delle forniture con cadenze ravvicinatissime, l’enti guadagni, desumibile dalla somma sequestrata all’atto del controllo, in ciò facendo corretta applicazione del principio secondo cui, ai fine della configurabilità del reato di cui all’ar comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tut gli indici sintomatici previsti dalla disposizione (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, COGNOME, R 274076);
rilevato che il secondo motivo, che denuncia l’eccessività dell’aumento di pena per la continuazione, è inammissibile, avendo la Corte di merito operato il medesimo aumento per le violazioni ex art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 contestate ai capi 8), 9), 10) e 11) ravvisando, maniera non manifestamente illogica, una sostanziale equivalenza, in termini di gravità, degli episodi di cessione continuata a singoli clienti, oggetto di contestazione nei capi di imputazion in parola;
stante l’inammissibilità del ricorso e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisando assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della cassa delle ammende
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della tassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2025.