Lieve Entità nello Spaccio: Quando la Quantità e il Contesto Contano
L’applicazione dell’ipotesi di lieve entità nei reati di spaccio di stupefacenti è una questione centrale nel diritto penale, capace di modificare radicalmente l’entità della pena. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i criteri per escludere tale attenuante, sottolineando l’importanza di una valutazione complessiva che va oltre il solo dato quantitativo della sostanza. Vediamo nel dettaglio il caso e i principi affermati dai giudici.
I Fatti di Causa
Un individuo, condannato in primo grado dal Tribunale di Velletri per il reato di cui all’art. 73, comma 4, del Testo Unico Stupefacenti, vedeva la sua pena parzialmente ridotta dalla Corte d’Appello di Roma. La condanna finale era di un anno e quattro mesi di reclusione e 2.666 euro di multa.
Non soddisfatto della decisione, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando due vizi principali: la mancata riqualificazione del fatto nell’ipotesi di lieve entità (prevista dal comma 5 dello stesso articolo) e una motivazione insufficiente riguardo alla determinazione della pena, ritenuta troppo distante dal minimo edittale.
L’Esclusione della Lieve Entità: un’Analisi Complessiva
Il cuore del ricorso verteva sulla richiesta di riconoscere la lieve entità del fatto. La difesa sosteneva che le circostanze concrete non fossero così gravi da giustificare la condanna per l’ipotesi ordinaria di spaccio.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto il motivo manifestamente infondato. Ha confermato l’operato della Corte territoriale, la quale aveva correttamente applicato i principi stabiliti dalle Sezioni Unite. L’accertamento della lieve entità, infatti, non può basarsi su un singolo elemento, ma richiede una valutazione globale di tutti gli indici sintomatici previsti dalla norma.
Nel caso specifico, i giudici hanno considerato:
1. Il dato quantitativo: La quantità della sostanza sequestrata è stata ritenuta rilevante.
2. Le modalità della condotta: La sostanza era già suddivisa in dosi e occultata in diverse stanze e mobili dell’abitazione. Questo dettaglio è stato interpretato come un chiaro segnale di un’attività organizzata e in attesa di potenziali acquirenti.
3. Il contesto personale: L’imputato risultava disoccupato. Tale circostanza, secondo la Corte, rafforzava la convinzione che egli vivesse dei proventi derivanti dall’attività di spaccio.
L’apprezzamento congiunto di questi elementi è stato giudicato logico e sufficiente a escludere l’ipotesi meno grave.
La Discrezionalità del Giudice nella Determinazione della Pena
Anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla presunta carenza di motivazione sulla quantificazione della pena, è stato respinto. La Cassazione ha ricordato un principio consolidato: la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito. Per assolvere all’obbligo di motivazione, è sufficiente che il giudice dia conto dei criteri seguiti (art. 133 c.p.) con espressioni sintetiche come “pena congrua” o “pena equa”, oppure con un semplice richiamo alla gravità del reato. Una spiegazione dettagliata e analitica è necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore alla misura media di quella prevista dalla legge, circostanza non verificatasi nel caso di specie.
Le Motivazioni della Decisione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. Le motivazioni della Corte d’Appello sono state ritenute prive di illogicità manifeste. La valutazione complessiva degli elementi di fatto – quantità della droga, suddivisione in dosi, occultamento strategico e status di disoccupazione – ha fornito una base solida e coerente per negare la qualificazione del fatto come di lieve entità. L’analisi dei giudici di merito è stata considerata un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità se, come in questo caso, adeguatamente motivato.
Conclusioni
Questa ordinanza riafferma che per ottenere il riconoscimento della lieve entità non basta appellarsi a un singolo aspetto favorevole. È indispensabile che l’intero quadro fattuale deponga per una minore offensività della condotta. Elementi come la preparazione delle dosi e l’assenza di un’attività lavorativa lecita possono essere interpretati come indici di una non trascurabile professionalità nell’attività di spaccio, ostacolando così l’applicazione della più benevola fattispecie prevista dal comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/1990. La decisione sottolinea inoltre l’ampia discrezionalità del giudice nel commisurare la pena entro i limiti edittali, richiedendo una motivazione rafforzata solo in casi eccezionali.
Quali elementi escludono la qualificazione di un fatto di spaccio come di “lieve entità”?
Secondo la sentenza, la qualificazione di lieve entità può essere esclusa sulla base di una valutazione complessiva che consideri il rilevante dato quantitativo della sostanza, la sua suddivisione in dosi, l’occultamento in diverse parti dell’abitazione (indicativo di un’attesa di acquirenti) e la condizione di disoccupazione dell’imputato, che suggerisce che viva dei proventi dello spaccio.
Lo stato di disoccupazione dell’imputato è sufficiente a dimostrare che vive dei proventi dello spaccio?
Nel contesto di questa decisione, lo stato di disoccupazione non è stato l’unico elemento, ma uno degli indici che, valutato insieme agli altri (quantità, suddivisione in dosi), ha portato i giudici a ritenere che l’imputato vivesse dell’attività illecita, contribuendo così a escludere la lieve entità.
Il giudice deve sempre spiegare dettagliatamente perché ha scelto una certa pena?
No. La Corte di Cassazione ha ribadito che una spiegazione specifica e dettagliata è richiesta solo quando la pena inflitta è di gran lunga superiore alla misura media prevista dalla legge. In altri casi, sono sufficienti espressioni sintetiche come “pena congrua” o un richiamo alla gravità del reato per adempiere all’obbligo di motivazione.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 21515 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 21515 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 28/09/2023 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO ED IN DIRITTO
COGNOME NOME propone, a mezzo del difensore di fiducia, ricorso per cassazione, articolato in un motivo, avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Velletri che, all’esito di ri abbreviato, lo aveva ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 73, comma 4, del d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 e lo aveva condanNOME, operata la riduzione per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e per il rito, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 4000,00 di multa, ha ridotto la pena ad anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 2.666 di multa.
Il ricorso, con cui si deduce il vizio motivatorio in ordine alla mancata riqualificazione della fattispecie nella meno grave ipotesi dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990 ed allo scostamento della pena dal minimo edittale, é manifestamente infondato.
Ed invero la Corte territoriale, nel fare corretta applicazione del principio secondo cui l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indi sintomatici previsti dalla disposizione (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076), ha escluso, con un apprezzamento di fatto non manifestamente illogico, l’integrazione della meno grave fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 valorizzando il rilevante dato quantitativo della sostanza, dalla suddivisione in dosi della sostanza occultandola in diverse stanze e mobili dell’abitazione in attesa di potenziali acquirenti, dalla circostanza che i prevenuto era disoccupato sicché doveva ritenersi che lo stesso vivesse dei proventi dell’attività di spaccio.
Quanto alla determinazione della pena, va rilevato che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, i quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pen congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243).
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così decis in Roma, il 17.4.2024