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Liberazione condizionale: no senza pentimento sincero

La Corte di Cassazione ha confermato il diniego della liberazione condizionale a una donna condannata all’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa. La decisione si basa sulla mancanza di un “sicuro ravvedimento”, requisito che va oltre la semplice buona condotta in carcere. Secondo i giudici, la detenuta non aveva completato un percorso di revisione critica del proprio passato criminale, tendendo a minimizzare le proprie responsabilità e ad attribuirle al coniuge. La sentenza ribadisce che per ottenere il beneficio è necessario un abbandono convinto delle scelte criminali passate.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Liberazione condizionale: il ravvedimento deve essere certo e profondo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5045 del 2025, ha affrontato un tema cruciale dell’ordinamento penitenziario: i requisiti per la concessione della liberazione condizionale a un soggetto condannato all’ergastolo. La decisione sottolinea che la buona condotta in carcere non è, da sola, sufficiente. È indispensabile dimostrare un “sicuro ravvedimento”, inteso come un processo di revisione critica del proprio passato criminale completo e non contraddittorio.

I fatti del caso

Il caso riguardava una donna condannata alla pena dell’ergastolo per reati di eccezionale gravità, tra cui omicidio e associazione di stampo mafioso. Dopo aver scontato una parte significativa della pena, la detenuta ha presentato istanza per ottenere la liberazione condizionale. La sua richiesta, tuttavia, è stata respinta dal Tribunale di sorveglianza.

Il Tribunale ha motivato il diniego evidenziando come, nonostante la regolarità della condotta carceraria, non emergessero elementi sufficienti a ritenere sussistente il “sicuro ravvedimento”. In particolare, i giudici hanno osservato la tendenza della donna, durante i colloqui con gli operatori, a minimizzare il proprio ruolo nelle vicende criminali, attribuendo ogni responsabilità al marito, noto capo di un’organizzazione mafiosa. Questo atteggiamento contrastava con quanto accertato nella sentenza di condanna, che le riconosceva un ruolo non secondario e un’iniziativa personale anche dopo l’arresto del coniuge.

Il ricorso in Cassazione e il concetto di sicuro ravvedimento

Contro la decisione del Tribunale, la difesa della donna ha proposto ricorso per cassazione, lamentando un vizio di motivazione. Secondo la ricorrente, il Tribunale avrebbe basato la propria conclusione su un’interpretazione personale del ravvedimento, senza valutare tutti gli elementi necessari a un giudizio complessivo.

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, cogliendo l’occasione per ribadire i principi consolidati in materia di liberazione condizionale. I giudici hanno chiarito che la nozione di “sicuro ravvedimento”, richiesta dall’art. 176 del codice penale, è molto più stringente della semplice “buona condotta” necessaria per altri benefici penitenziari. Essa implica un complesso di comportamenti, esteriorizzati durante l’esecuzione della pena, che dimostrino in modo oggettivo una convinta e profonda revisione critica delle pregresse scelte criminali.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto la motivazione del Tribunale di sorveglianza logica, coerente e priva di vizi. Il rigetto della richiesta di liberazione condizionale si fondava correttamente sul presupposto che il percorso di revisione critica della condannata fosse ancora incompleto. L’atteggiamento di scaricare le colpe sul coniuge e di non assumersi pienamente la responsabilità del proprio coinvolgimento è stato considerato un segnale inequivocabile di un ravvedimento non ancora maturato.

La Cassazione ha affermato che il giudice di sorveglianza ha correttamente evidenziato la discrepanza tra il racconto della detenuta e le risultanze processuali della sua condanna. Tale valutazione non costituisce una “personale interpretazione”, ma un’applicazione rigorosa dei canoni ermeneutici richiesti dalla legge. Il giudizio prognostico sulla futura condotta del condannato deve basarsi su una certezza, o almeno su un’elevata probabilità, che egli si conformerà alle leggi, e questa certezza non poteva essere raggiunta nel caso di specie.

Conclusioni

La sentenza in esame riafferma un principio fondamentale: la liberazione condizionale non è un automatismo legato al tempo di pena scontato, ma il risultato di un percorso trattamentale che deve portare a un cambiamento interiore autentico e verificabile. Per i condannati per reati gravi, specialmente se legati alla criminalità organizzata, il “sicuro ravvedimento” richiede una presa di distanza netta e inequivocabile dal passato criminale, che non può coesistere con tentativi di minimizzare le proprie responsabilità o di alterare la verità storica accertata in giudizio.

Cosa si intende per “sicuro ravvedimento” ai fini della liberazione condizionale?
Per “sicuro ravvedimento” non si intende la semplice buona condotta in carcere, ma un percorso di profonda e convinta revisione critica delle proprie scelte criminali passate. Deve emergere la volontà di conformare la propria vita futura al rispetto delle leggi, dimostrata da comportamenti concreti e positivi.

Perché la richiesta di liberazione condizionale è stata respinta in questo caso?
La richiesta è stata respinta perché il Tribunale ha ritenuto che il processo di ravvedimento della condannata non fosse ancora completo. La sua tendenza a minimizzare il proprio ruolo e ad attribuire la responsabilità dei reati al marito è stata interpretata come prova di una mancata e piena assunzione di responsabilità, incompatibile con il requisito del “sicuro ravvedimento”.

La buona condotta durante la detenzione è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale?
No. La sentenza chiarisce che la buona condotta è un presupposto necessario ma non sufficiente. Il concetto di “sicuro ravvedimento” richiede qualcosa in più: comportamenti positivi che dimostrino l’abbandono delle scelte criminali e, ove possibile, la volontà di attenuare le conseguenze dannose del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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