Liberazione condizionale: non basta la buona condotta se manca un vero ravvedimento
La liberazione condizionale rappresenta un istituto fondamentale nel nostro ordinamento penitenziario, un ponte tra la detenzione e il pieno reinserimento nella società. Tuttavia, una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce con fermezza che l’accesso a tale beneficio, specialmente per i condannati all’ergastolo per reati di stampo mafioso, è subordinato a requisiti ben più stringenti della mera regolarità comportamentale. Il caso in esame riguarda un detenuto, figura di vertice di una cosca, il cui percorso detentivo non ha mostrato quella profonda revisione critica indispensabile per ottenere la fiducia dello Stato.
I Fatti del Caso
Un uomo, condannato alla pena dell’ergastolo e riconosciuto come capo assoluto di un’organizzazione mafiosa, si trovava in regime di detenzione speciale ai sensi dell’art. 41-bis. Dopo aver scontato una parte significativa della pena, ha presentato istanza per ottenere la liberazione condizionale.
Il Tribunale di Sorveglianza ha respinto la richiesta, delineando un quadro preoccupante: il detenuto non aveva mai collaborato con la giustizia e, nonostante la lunga carcerazione, aveva continuato a svolgere il suo ruolo di capo e organizzatore, impartendo direttive dal carcere. L’osservazione intramuraria aveva evidenziato una personalità statica e rigida, incapace di una reale riflessione sui reati commessi, che venivano minimizzati o negati con superficialità e assenza di empatia. Inoltre, non aveva adempiuto né alle obbligazioni civili derivanti dai suoi crimini né al pagamento delle spese processuali, adducendo un’impossibilità economica non dimostrata. Contro questa decisione, il detenuto ha proposto ricorso in Cassazione.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno stabilito che le censure sollevate dal ricorrente erano semplici ‘doglianze in fatto’, ovvero tentativi di ottenere una nuova valutazione delle circostanze e dei comportamenti già esaminati dal Tribunale di Sorveglianza. Questo tipo di riesame è precluso in sede di legittimità, dove la Cassazione ha il compito di verificare la corretta applicazione della legge, non di rifare il processo sui fatti. Il ricorso è stato giudicato meramente riproduttivo di argomenti già vagliati e coerentemente respinti, nonché generico e confutativo. Di conseguenza, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende.
Le Motivazioni
La motivazione della Corte si fonda su un principio cardine della procedura penale: la netta distinzione tra il giudizio di merito e quello di legittimità. Il Tribunale di Sorveglianza, quale giudice di merito, ha il compito di valutare la personalità del condannato, il suo percorso carcerario e la sussistenza di un ‘sicuro ravvedimento’. Nel caso specifico, tale valutazione è stata negativa e ampiamente motivata. Il Tribunale ha rilevato una serie di elementi ostativi alla concessione della liberazione condizionale: la mancata collaborazione, la persistenza del ruolo apicale nel clan, l’assenza di introiezione dei valori della legalità e il mancato adempimento degli obblighi economici.
La Cassazione ha ritenuto questa analisi logica, coerente e giuridicamente corretta. Le argomentazioni del ricorrente, volte a presentare una diversa interpretazione del proprio comportamento, non costituivano una violazione di legge, ma un tentativo inammissibile di rimettere in discussione l’apprezzamento dei fatti operato dal giudice competente. La Corte ha quindi confermato che, in assenza di un’evidente illogicità o di un errore di diritto nella decisione impugnata, non vi era spazio per un suo intervento.
Le Conclusioni
Questa ordinanza rafforza un concetto cruciale: per i condannati per reati di estrema gravità, la liberazione condizionale non è un automatismo legato al tempo trascorso in carcere. È il risultato di un percorso di trasformazione interiore che deve essere concreto, verificabile e inequivocabile. La semplice osservanza formale delle regole carcerarie non è sufficiente. Occorre una rottura netta e dimostrata con il passato criminale, un percorso di revisione critica che si manifesti in atti concreti, come la collaborazione con la giustizia e il risarcimento del danno. La decisione sottolinea la rigidità con cui l’ordinamento valuta il percorso di chi ha ricoperto ruoli di vertice in organizzazioni criminali, per i quali il ‘sicuro ravvedimento’ richiesto dalla legge assume contorni particolarmente esigenti.
Perché è stata negata in primo luogo la liberazione condizionale al detenuto?
La liberazione condizionale è stata negata perché il detenuto, condannato all’ergastolo come boss mafioso, non ha mostrato alcun segno di reale ravvedimento. Non ha mai collaborato con la giustizia, ha continuato a dirigere la sua cosca dal carcere, ha minimizzato i reati commessi senza empatia e non ha adempiuto ai suoi obblighi economici derivanti dal reato.
Per quale motivo la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile?
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile perché le argomentazioni del ricorrente erano ‘doglianze in fatto’, cioè contestazioni sulla valutazione del suo comportamento. Il ruolo della Cassazione non è riesaminare i fatti, ma solo controllare la corretta applicazione della legge, e in questo caso il Tribunale di Sorveglianza aveva motivato la sua decisione in modo logico e corretto.
Cosa insegna questa ordinanza sui requisiti per la liberazione condizionale in casi di mafia?
L’ordinanza insegna che per ottenere la liberazione condizionale, specialmente per reati di mafia e condanne all’ergastolo, non è sufficiente una buona condotta formale. È necessario dimostrare un ‘sicuro ravvedimento’, che implica una rottura totale e verificabile con il passato criminale, una profonda riflessione critica sui propri atti e l’adempimento di tutti gli obblighi, inclusa la collaborazione con la giustizia.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 20952 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 20952 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 09/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ROSARNO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 18/01/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di BOLOGNA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Ritenuto che le censure dedotte nel ricorso di NOME COGNOME, relative alla violazione di legge in riferimento all’art. 71 ter ord. pen., non sono consentite in sede di legitti perché costituite da mere doglianze in fatto.
Considerato, inoltre, che tali doglianze sono meramente riproduttive di profili di censura già adeguatamente vagliati dall’ordinanza impugnata, che ha respinto l’istanza di liberazione condizionale avanzata dal detenuto. In essa, invero, si evidenzia che: COGNOME, in espiazione della pena dell’ergastolo, sottoposto al regime carcerario differenziato ex art. 41-bis le n. 354 del 26 luglio 1975, non ha mai collaborato con la giustizia; riconosciuto capo assolut della RAGIONE_SOCIALE di appartenenza, nonostante la lunga carcerazione, ha continuato a svolgere la funzione di capo e organizzatore, costituendo sempre rl massimo referente della RAGIONE_SOCIALE e riuscendo dal carcere ad impartire direttive e a organizzare il gruppo; quanto all’osservazione intramuraria, si rilevano indicazioni di staticità e rigidità nel proce riflessione, il detenuto minimizzo nega quasi tutti i reati commessi di cui parla superficialità e senza empatia; non appare avere ancora introiettato i valori della cultu della legalità, fermandosi su un piano di mera regolarità formale della condotta, nemmeno costante, dando luogo talora a qualche rilievo disciplinare. Non ha assolto le obbligazio civili derivanti dal reato e non ha adempiuto al pagamento delle spese processuali e delle somme dovute alla Cassa delle Ammende, allegando una generica impossibilità economica non comprovata.
Ritenuto che il ricorso non è idoneo a superare il vaglio preliminare di ammissibilità, quanto articola deduzioni evidentemente generiche, a tenore meramente confutativo, volte ad una non consentita differente (ed inammissibile) valutazione degli elementi di merito, già coerentemente esaminati dal giudice a quo;
Ritenuto che, pertanto, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 09/05/2024