Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 25511 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 25511 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a COGNOME il 22/07/1982
avverso l’ordinanza del 04/12/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME lette/sentite le conclusioni del PG
udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con il provvedimento di cui in epigrafe il tribunale di sorveglianza di Roma, decidendo quale giudice del rinvio ex art. 627, c.p.p., rigettava l’istanza di liberazione condizionale proposta nell’interesse di COGNOME Pasquale, collaboratore di giustizia, condannato alla pena di trent’anni di reclusione, in stato di detenzione domiciliare a partire dal 2016.
Avverso l’ordinanza del tribunale di sorveglianza, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione il COGNOME, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il giudice procedente ha ritenuto persistente il difetto di ravvedimento in capo al COGNOME, mancando di operare quella necessaria valutazione globale e unitaria indicata nella sentenza rescindente, in aperta violazione dell’art. 627, co. 3, c.p.p., desumendo l’assenza di ravvedimento unicamente sulla base della gravità dei reati, della mancata riparazione del danno, requisito non contemplato dalla legge, e della generica insufficienza dell’osservazione, laddove tutte le investigazioni svolte hanno documentato con certezza che il ricorrente ha rescisso ogni contatto non solo con il sodalizio criminale di appartenenza, e le altre organizzazioni criminali ancora presenti sul territorio, ma anche con il territorio stesso, non avendo alcun contatto con quell’area geocriminale; 2) violazione di legge con riferimento all’art. 176, c.p., in relazione all’art. 16 nonies, I. n. 82 del 1991, posto che il giudice del rinvio, da un lato, ha riconosciuto la sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge speciale per l’accesso alla misura invocata, dall’altro, sostanzialmente obliterati importanti dati fattuali (elencati a pagina 7 e seguenti del proposto ricorso), ha rigettato l’istanza “adombrando GLYPH pericoli GLYPH di GLYPH recidiva GLYPH immaginari, GLYPH deridendo inopportunamente gli sforzi compiuti dal reo nell’affrancarsi dal suo passato, umiliando oltremodo il percorso di rieducazione proficuamente avviato da molti anni e disprezzando apertamente i risultati conseguiti dall’interessato in ambito risocializzante”, senza tacere il discostamento da parte del tribunale di sorveglianza dai parametri fissati dalla normativa speciale di riferimento.
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Con particolare riferimento al tema del ravvedimento, osserva il ricorrente come non sia richiesta la prova che il soggetto abbia completato la revisione critica del passato deviante ovvero che si sia del tutto ravveduto, non rispondendo tale esigenza alle logiche delle misure alternative, e che risulta generico e illegittimo il rinvio a un ulteriore periodo di osservazione, avendo il tribunale di sorveglianza omesso di comparare gli elementi di giudizio a sua disposizione, a cominciare da quelli già positivamente accertati nel corso dell’osservazione e riferiti ai precedenti benefici già concessi (liberazione anticipata, permessi premio e detenzione domiciliare); 3) violazione di legge in relazione all’art. 16 nonies, co. 3, e 4, I. n. 82 del 1991), non richiedendosi, ai fini del riconoscimento dell’invocato beneficio, la certezza del ravvedimento, ma solo una sua mera e ragionevole probabilità; 4) violazione del dictum della sentenza rescindente, ex art. 627, co. 3, c.p.p., in quanto il tribunale di sorveglianza, in ultima analisi, ha ribadito la stessa sostanza del provvedimento annullato dalla Corte di Cassazione, posto che l’asse portante del rigetto rimane sempre e comunque il difetto di condotte riparatorie da parte del COGNOME; 5) travisamento del fatto, posto che, a differenza di quanto affermato dal tribunale di sorveglianza, il COGNOME non ha mai ucciso il suocero COGNOME che, invece, è stato ucciso da COGNOME NOME, suo rivale, trattandosi di episodio sul quale il ricorrente ha fatto piena luce, collaborando ampiamente in qualità di persona informata sui fatti e non di imputato.
Con requisitoria scritta del 6.2.2024 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME chiede che il ricorso venga rigettato.
Con memoria del 17.3.2025, pervenuta a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia del COGNOME, avv. NOME COGNOME nel replicare alla requisitoria del pubblico ministero, insiste per l’accoglimento del ricorso, reiterando le proprue doglianze.
Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da motivi che si collocano ai confini dell’inammissibilità, confini senz’altro superati dal quinto motivo di ricorso, con cui si denuncia il travisamento del fatto, vizio, come è
noto, pacificamente non scrutinabile in sede di legittimità, dedotto, peraltro, con affermazione del tutto generica e tautologica.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. (cfr. ex plurimis, Sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
Passando agli altri motivi di ricorso, va preliminarmente richiamato il percorso argomentativo seguito dalla Prima Sezione Penale di questa Corte nell’annullare con rinvio per nuovo esame l’originario provvedimento del tribunale di sorveglianza di Roma in premessa indicato.
Osservava, dunque, la Corte: “La normativa introdotta dal d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. nella legge n. 82/1991, all’art. 16-novies ha stabilito i requisiti per la concessione al condannato per i gravi delitti indicati, che abbia collaborato con la giustizia, la liberazione condizionale, i permessi premio e la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter Ord.pen. Al comma 4 ha, infatti, stabilito che il tribunale o il magistrato di sorveglianza, acquisiti la proposta e i pareri prescritti, concede i benefici richiesti se ritiene sussistenti i presupposti stabiliti al comma 1 della medesima norma, «avuto riguardo all’importanza della collaborazione e sempre che sussista il ravvedimento». La sussistenza di un effettivo e completo ravvedimento del condannato, pertanto, costituisce un requisito necessario per la concessione della liberazione condizionale, ravvedimento che deve, quindi, essere valutato dal tribunale di sorveglianza, applicando i canoni valutativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità.
Tra questi, devono essere ribaditi i principi stabiliti dalla sentenza Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021, Rv. 281360, secondo cui «Ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 il giudice, nel valutare il sicuro ravvedimento dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici del “sicuro ravvedimento”, quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi». Deve, infatti, sottolinearsi che l’art. 16-novies del d.l. n. 8/1991 ha stabilito che i benefici citati al comma 1 possono essere concessi al collaboratore «anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui all’art. 176 del codice penale». Questa espressione, secondo la sentenza Sez. 1, n. 42357 del 11/09/2019, Rv. 277141 si riferisce «non solo ai limiti di pena, espressamente richiamati, ma anche alla generale previsione di cui all’art. 176, comma quarto, cod. pen.», con la conseguenza che alla concessione di un beneficio al collaboratore di giustizia non osta, di per sé, il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, in quanto la decisione del giudice non può essere subordinata a tale adempimento.
Nella valutazione della concedibilità della liberazione condizionale ad un collaboratore di giustizia, pertanto, il mancato adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato può essere preso in esame quale possibile dimostrazione di un ravvedimento non ancora sicuro e completo, ma non può essere ritenuto di per sé ostativo, diversamente da quanto è previsto per il beneficio da concedere ad un condannato non collaborante, secondo l’esplicito contenuto dell’art. 176, comma 4, cod. pen.
Il Tribunale di sorveglianza non si è attenuto ai principi sopra indicati in quanto, pur dichiarando «soddisfatti i presupposti per l’accesso al beneficio», ha ritenuto insussistente il requisito del ravvedimento
«previsto dal comma 4 dell’art. 16-nonies citato in disposto con l’ari:. 176, ultimo comma, c.p.».
Il successivo, approfondito esame del significato del requisito previsto dall’art. 176, ultimo comma, cod. pen., e l’esplicita affermazione di una non concedibilità del beneficio richiesto perché, nonostante l’acclarata serietà del percorso collaborativo e la certa rescissione dei legami con il proprio passato criminale, il ricorrente non ha messo in atto iniziative per attenuare o riparare i danni materiali e morali delle proprie condotte, rendono evidente che il Tribunale ha fondato tale valutazione negativa esclusivamente sul mancato adempimento delle obbligazioni civili conseguenti ai reati commessi.
Tale mancato adempimento, di fatto, è stato ritenuto di per sé ostativo, in applicazione del disposto dell’art. 176, ultimo comma, cod. pen. Infatti l’ordinanza, pur concludendo che esso impedisce di ritenere dimostrata «la completa maturazione del processo di ravvedimento del reo», non ha motivato perché tale condotta imponga un giudizio così severo, a fronte di una pluralità di comportamenti che l’ordinanza stessa ha evidenziato quali elementi probanti di un «sicuro ravvedimento». Il Tribunale ha riportato i pareri positivi trasmessi dall’organo di polizia referente del luogo di dimora del condannato, della divisione di polizia anticrimine di Salerno, della DNA, della relazione di sintesi quanto alla condotta intrannuraria, ha riferito dell’attività di volontariato e di formazione professionale da questi svolta, ed ha ritenuto «evidente che il Di Fiore ha maturato una volontà di recupero concretizzatasi nel positivo percorso di gradualità del beneficio e nel rispetto delle regole».
A fronte di tale valutazione, appare illogico il successivo passaggio dell’ordinanza, nel quale si afferma che «la conformazione dello stile di vita ai dettami della vita associata non può, di per sé sola, esaurire il requisito del ravvedimento anche in relazione al passato criminale dell’excollaboratore», potendo tale conformazione, al contrario, dimostrare un avvenuto ravvedimento, con abbandono definitivo delle logiche criminali.
La nozione di «ravvedimento», rilevante ai fini della concessione della liberazione condizionale, deve comprendere il complesso dei comportamenti tenuti dal condannato durante l’esecuzione della pena, che devono risultare idonei a dimostrare la convinta revisione critica della condotta pregressa e devono consentire un giudizio prognostico certo sulla volontà di conformare la propria condotta di vita futura all’osservanza della legge penale. In questa ottica, peraltro seguita nella prima parte dell’ordinanza impugnata, la rilevanza determinante attribuita all’assenza di iniziative risarcitorie per escludere la certezza del «sicuro ravvedimento» del ricorrente appare illogica e ingiustificata, nonché in contrasto con il principio sopra richiamato, circa la concedibilità al collaboratore di giustizia della liberazione condizionale anche in deroga al requisito richiesto dall’art.176, comma 4, cod.pen. (cfr. Sez. 1, n. 25605 del 02/12/2022, dep. 2023, n.m.; Sez. 1, n. 9482 del 02/02/2022, n.m.).
L’ordinanza impugnata, quindi, non ha operato una valutazione complessiva del percorso rieducativo compiuto dal ricorrente, attribuendo di fatto una valenza ostativa ad uno degli elementi su cui è possibile fondare l’accertamento circa la sussistenza del sicuro ravvedimento, senza indicare le ragioni per cui tale elemento, cioè l’omesso adempimento delle obbligazioni civili nascenti dai reati commessi, sia idoneo a porre dei dubbi sulla serietà e definitività del suo abbandono di qualunque logica criminale, e della sua conformazione ad uno stile di vita rispettoso della legge”.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che con la decisione oggetto del proposto ricorso il tribunale di sorveglianza si sia mosso all’interno del perimetro cognitivo impostogli dalla sentenza di annullamento con rinvio, provvedendo a colmare le evidenziate lacune motivazionali e a correggere l’errore di diritto in cui il medesimo organo era incorso nel primo provvedimento cassato dalla Suprema Corte, in cui il mancato adempimento delle obbligazioni risarcitorie derivanti dal reato era stato ritenuto di per sé un ostacolo al riconoscimento dell’invocato beneficio.
Il tribunale di sorveglianza, in particolare, è partito dal notevole livello di pericolosità del detenuto, alla luce di una storia criminosa concentrata negli anni dal 2001 al 2008, caratterizzata dalla commissione di plurimi reati, tra cui diversi omicidi, commessi in qualità di appartenente all’associazione a delinquere di stampo camorristica nota come “clan COGNOME – COGNOME“, tra cui l’omicidio del suocero COGNOME del 2006, in seguito al quale si è aperta una sanguinosa guerra con il “clan COGNOME“.
Il COGNOME, rilevava il tribunale di sorveglianza, si è formato secondo le regole di illegalità e devianza, ha commesso i primi reati all’età di diciannove anni, mentre la rottura del legame associativo è intervenuta solo dieci anni dopo, avendo egli deciso di collaborare quando si era già formato un sufficiente compendio probatorio sulla sua responsabilità in ordine all’omicidio del 9.12.2006 e al tentato omicidio del 26.10.2006, di cui alla sentenza della corte di assise di Napoli del 2.7.2010, riformata in appello con sentenza del 20.11.2012).
Come correttamente osservato dal pubblico ministero nella richiamata requisitoria scritta del 6.2.2025, l’ordinanza impugnata rappresentava, inoltre, che durante gli otto anni di detenzione domiciliare sono sopraggiunte a carico del Di COGNOME numerose ulteriori condanne per reati pregressi, che ne hanno amplificato ulteriormente lo spessore della devianza criminale, tanto che l’ultimo recentissimo provvedimento di prosecuzione del beneficio della detenzione domiciliare è stato emesso il 6.11.2024; che l’attività di volontariato asseritamente intrapresa dal Di Fiore è assai recente e non documentata; che l’attività lavorativa è stata intrapresa dal ricorrente solo di recente, a seguito della necessità di provvedere al mantenimento della famiglia dopo il venir meno del contributo dello Stato, mentre per l’intera durata del programma di protezione il collaboratore non aveva richiesto alcuna autorizzazione finalizzata alla ricerca di opportunità lavorative, non manifestando alcun interesse per concrete iniziative di integrazione sociale.
In questo contesto, dunque, il disinteresse per le vittime dei reati e l’assenza di qualsivoglia iniziativa (sia pure simbolica) risarcitoria,
assume, nella motivazione del provvedimento impugnato, il valore di un ulteriore elemento che, unitamente a quelli già evidenziati, ha condotto il tribunale di sorveglianza, con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica, a ritenere non adeguatamente dimostrato un processo di revisione critica della devianza da parte del Di COGNOME, processo, che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, deve consistere in un effettivo e completo ravvedimento del condannato, il quale, pertanto, non appare, allo stato, meritevole dell’invocata liberazione condizionale. Tale conclusione, del resto, appare del tutto conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, condivisi dal Collegio e richiamati nella stessa sentenza di annullamento con rinvio della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, secondo cui, ai fini della concessione della liberazione anticipata ad un collaboratore di giustizia, il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, pur non assumendo valenza ostativa all’accoglimento dell’istanza, stante la deroga alle disposizioni ordinarie contenuta all’art. 16-novies della legge 15 gennaio 1991, n. 8, rileva, unitamente agli altri indici di valutazione – quali i rapporti con i familiari, il personale giudiziario e gli altri soggetti qualificati nonché il proficuo svolgimento di attività di lavoro o di studio – ai fini del giudizio sul ravvedimento del condannato (cfr. Sez. 1, n. 19854 del 22/06/2020, Rv. 279321).
In conclusione, va ribadito come il tribunale di sorveglianza di Roma abbia fornito adeguata risposta ai rilievi formulati nella sentenza rescindente, apparendo la decisione impugnata del tutto conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, con orientamento mantenutosi costante nel tempo, alla luce dei quali il giudice di rinvio, in caso di annullamento per vizio di motivazione, è investito di pieni poteri di cognizione e, salvi i limiti derivanti da un eventuale giudicato interno, può rivisitare il fatto con pieno apprezzamento e autonomia di giudizio, sicché non è vincolato all’esame dei soli punti indicati nella sentenza di annullamento, ma può accedere alla piena rivalutazione del compendio probatorio, in esito alla quale è legittimato ad addivenire a soluzioni
diverse da quelle del precedente giudice di merito, con il limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato.
La Corte di Cassazione, invero, risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’adempimento del dovere di motivazione, sicché il
giudice di rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un’autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto
annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di
annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali (cfr.,
ex plurimis,
Sez. 1, n. 5517
del 30/11/2023, Rv. 285801; Sez. 2, n. 45863 del 24/09/2019, Rv.
277999; Sez. 5, n. 24133 del 31/05/2022, Rv. 283440).
A tanto, come si è detto, ha provveduto il tribunale di sorveglianza di
Roma, con l’indicato percorso argomentativo.
6. Al rigetto, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 26.3.2025.